lunedì 5 ottobre 2020

DON LEOPOLDO: L’ANSIA DI ANNUNCIARE IL VANGELO

Anche don Leopoldo Genovesi è uno dei sacerdoti che la Provvidenza ha posto sulla mia strada. L’ho avuto vicino sin da ragazzetto: ci seguiva come aspiranti e nel 1971 mi fece fare la prima esperienza di un campo scuola a Gerfalco.

Tante volte è entrato in contatto con me, specie dopo la malattia, assicurando la preghiera e l’affetto. E così fa con tutti. Quando penso a lui vedo il suo volto sorridente e leggo l’ansia che lo ha sempre posseduto: quella dell’annuncio del Vangelo. Ringrazio il Provvidente e prego che ce lo mantenga a lungo.

L’occasione dei suoi 50 anni di sacerdozio mi ha spinto a fargli una piccola intervista e lui mi ha subito detto che la pandemia non gli ha permesso di assistere ai momenti formativi nella sala conferenze del seminario, di continuare a fare le ripetizioni di latino e accompagnare spiritualmente le persone. Ma non gli ha certo impedito di pregare per tutti e per ciascuno. È ancora interiormente tonico don Leopoldo Genovesi, nonostante la carrozzina lo accompagni da 12 anni e la malattia non gli faccia tanti sconti.

La sua è stata una vocazione adulta. Nato l’8 novembre 1937 a Magliano Sabina è diventato sacerdote di santa romana chiesa nel 1970, all’età di 33 anni. Fu incardinato nella nostra diocesi di Sovana-Pitigliano (si chiamava così), perché Alberese, insieme a Rispescia ne facevano parte.

Don Leopoldo, mi parli della sua vita prima del 1970.

Sono figlio unico, molto seguito specie dalla mamma Rosa e poco dopo la nascita mi son trovato ad Alberese, dove la famiglia si era dovuta spostare per il lavoro di mio babbo Lamberto. Ho fatto le elementari ad Alberese e le medie a Grosseto: lì ho iniziato Ragioneria sino al secondo anno, quando sono stato bocciato e trasferito in un collegio a Roma per concludere gli studi. Facevo la vita di tutti i ragazzi: frequentavo il bar e il ballo ad Alberese, giocavo a calcio, anche come riserva nella prima squadra e non andavo in chiesa.

Si è mai innamorato?

Proprio innamorato no, ma ho provavo qualche sincera simpatia.

Cosa accadde per farle intraprendere la strada del sacerdozio?

Ricordo che iniziai a sfogliare un vangelo che aveva portato un missionario e verso i 18 anni lessi un libro che illustrava i problemi della vita ponendo le domande esistenziali. Cominciai a chiedermi: la mia vita cosa vale? Perché si vive, soffre, muore? E dopo cosa c’è? Non ero contento della vita che conducevo. Specie dal periodo del collegio notai che desideravo fare cose diverse da quelle degli altri ragazzi. Poi, un giorno il mio parroco mi disse: ‘Perché non vai in seminario’?

E la sua risposta?

Nei primi anni ’60 entrai in seminario a Pitigliano. Era il tempo del vescovo Pacifico Giulio Vanni e del rettore don Ruggero Bancalà: per due anni, grazie anche a don Aldo Vagaggini, approfondii il latino, il greco e l’ebraico che non avevo studiato a ragioneria. Poi fui inviato in seminario ad Arezzo a seguire 5 anni di teologia, terminati con la vestizione a Pitigliano. Il percorso si concluse con l’ordinazione del 17 gennaio 1970, celebrata ad Alberese ad opera del Vescovo ausiliare Renato Spallanzani, insieme al parroco don Filippo Cornali. E la prima messa il giorno dopo l’andai a celebrare a Collevalenza.

A proposito di Collevalenza. Perché questo suo rapporto così viscerale con Madre Speranza di Gesù e i Figli dell’Amore misericordioso?

Avevo sentito parlare di lei e del suo carisma e andai ad affidargli mamma Rosa gravemente malata. Promise una intensa preghiera per lei, ma mi disse che non sarebbe guarita. Tornai da lei dopo la morte della mamma e Madre Speranza mi disse che mamma Rosa era in paradiso. Tempo dopo quando la mia salute cominciava ed essere accidentata sono stato di nuovo da lei e Madre Speranza mi disse che mia mamma stava cercando preghiere per me. Addirittura era andata anche da lei a cercare preghiere. Sono rimasto molto legato alla Congregazione anche dopo la morte di Madre Speranza e c’ho portato tantissime persone. Il suo messaggio che Dio è misericordioso è stupendo e può aprire i cuori di tutti.

Facciamo un passo in dietro, perché dunque decise per la strada del sacerdozio?

Perché secondo me rispondeva ai problemi della vita in modo più totale ed esauriente.

E uno avanti: dove ha esercitato l’attività pastorale?

Va precisato che le mie condizioni di salute non mi hanno mai consentito di seguire da solo una parrocchia. Ho iniziato a collaborare con don Francesco Mascalzi a Scansano, dopo di che un collasso mi costrinse a sospendere, per poi riprendere in seguito a Manciano con don Fosco Bindi. In seguito sono stato per diversi anni con don Enzo Baccioli di Sorano occupandomi di Montebuono, Elmo, San Valentino e Pratolungo. Sono stati periodi entusiasmanti e porto nel cuore tante persone.

Gli anni della sua formazione sacerdotale sono stati tra il pre-concilio e il concilio. E come sacerdote ha dovuto attuarlo. Cosa pensa del Concilio Vaticano II?

È stato una grazia, ma la sua interpretazione non è sempre stata corretta. E soprattutto alla gente comune è giunto secondo i commenti dei mezzi d’informazione, senza una vera analisi dello spirito e della lettera del Concilio, a cominciare dai documenti, perlopiù sconosciuti.

Se io le dico grazia, peccato, preghiera, lei cosa mi risponde?

Che senza la grazia di Dio alimentata dalla preghiera e dai sacramenti il cristiano perde tutte le forze. Che ormai da tempo si è smarrito il senso del peccato perché si è perso il metro dei comandamenti e delle beatitudini. Soprattutto è venuta a mancare la fede in Dio e di conseguenza il senso del peccato, trasformato al più in una colpa sociale. È invece dal cuore che nasce il peccato ed è lì che bisogna agire. Infine che la preghiera deve essere pane quotidiano, specie di noi sacerdoti. Sia la preghiera comandata che la vita donata fatta preghiera.

Che consigli darebbe ai giovani sacerdoti?

Siate umili; confrontatevi anche con i sacerdoti più anziani; non abbiate fretta e prestate attenzione alle persone; avvicinatevi spesso alla Parola di Dio, per poterla poi spezzare sapientemente alla mensa domenicale.

Senta don Leopoldo, una curiosità: perché non ha mai smesso di portare la “tonacona”?

Devo ammettere di avere assorbito quel modo di vestire pre-conciliare e non ho mai voluto cambiarlo.

Sono testimone della sua attenzione pastorale specie verso i giovani, ai quali spesso ha parlato o ha fatto parlare della sessualità. Perché questa insistenza? Anche in questo caso non posso negare l’influsso della mentalità del prete di un tempo che mi ha sempre accompagnato. In seguito ho compreso che la questione va affrontata con modalità un po’ differenti. Ma ciò non toglie la straordinaria importanza di questa dimensione nella vita delle persone e specie dei giovani ai quali è bene annunciare anche oggi la morale cristiana in questo campo.

Lei si è spesso recato, ha accompagnato e invitato ad andare a Medjugorje. Cosa ci trova?

Ho verificato che fanno sul serio. C’è tanta gente che prega, molti giovani. E il messaggio che non è possibile costruire un mondo nuovo, che renda felici, senza Dio, mi sembra assai importante.

Mi ricorda una cosa bella?

Avere incontrato in anzianità l’infermiere Jose Joyesh che mi è stato molto vicino.

Per quale squadra di calcio tifa?

Il Torino. Il grande Torino.

Ecco alcuni aspetti della ricca personalità di don Leopoldo Genovesi, don Poldo o Poldino come lo chiamavano da bambino ad Alberese. Un sacerdote che è scolpito nel mio cuore.



2016 Alberese



 

Nessun commento: