domenica 9 gennaio 2022

POST 65 – IL ROMPICAPO DELLA CACCIA

Grazie alla competenza dell’assessore Giampiero Sammuri rivoluzionammo anche quel mondo, abituato ai suoi riti e ai suoi re. Nonostante le fucilate del controrivoluzionario Barbetti

La caccia per me era un problema, lo confesso, nonostante da bambino abbia avuto a casa mio zio Claudio, un cacciatore a 40 carati, che rientrava spesso con tasche piene di selvaggina e trascorso molti pomeriggi nel bar di mio zio Nazareno frequentato da cacciatori, specie fiorentini, che sparavano anche alle mosche.


In campagna elettorale avevo scritto una lettera ai cacciatori (è importante, mi fu detto) e con loro avevo preso l’impegno di seguire direttamente la spinosa questione. Ma la cosa mi preoccupava assai. Provvidenzialmente, una delle due candidature proposte dal Pds per gli assessorati era Giampiero Sammuri, laureato in scienze biologiche e dirigente delle risorse ambientali e faunistiche della provincia di Siena. Tirai un respiro di sollievo e lo incaricai di occuparsene. Quando scrissi ai cacciatori “me ne occuperò io” intendevo soprattutto dire che saremmo usciti dai rapporti privilegiati del passato, avremmo coinvolto la base e provocato cambiamenti. Erano le stesse intenzioni di Giampiero.

Le associazioni dei cacciatori di allora, Federcaccia, Liberacaccia, Italcaccia, Arci-caccia, con Roberto Barbetti, Paolo Isidori, Romano Fanciulli, Euro Rocchi erano molto attive. Specie Barbetti era un vero e proprio peperino. Credo che nel passato fosse stato abituato dall’amministrazione provinciale a rapporti privilegiati, quanto alle scelte di politica venatoria. Questi vertici rappresentavano una vera e propria casta e taluno di loro millantava capacità di orientare voti da una parte o dall’altra. Molte erano chiacchiere, ma un certo appeal lo avevano. Noi invece intendevamo trattare tutti allo stesso modo: rapporti privilegiati con nessuno, rispetto per tutti. Desideravamo condividere le decisioni, ma partendo dal rispetto delle regole. Le scelte poi le avremmo compiute nella sede deputata, il consiglio provinciale. Scegliemmo anche di coinvolgere la base dei cacciatori, allora stimabili in circa 11.000 persone, sia per sentire il loro parere sulle nostre proposte di cambiamento, sia – detto tra noi – per scavalcare la casta venatoria.

Della nostra politica venatoria se ne occupava Sammuri, ma io intervenni a dare il placet o il non placet nei momenti decisivi e in quelli delicati, nei quali la polemica si fece rovente. Presi parte a diversi incontri territoriali nei quali imparai a conoscere i cacciatori. Oltre ad essere il Presidente e, quindi, a dovermi assumere in primis le responsabilità delle scelte di fondo, non trascuravo minimamente il valore di questa attività e mi feci sempre più convinto di quanta importanza avesse per le persone che la praticavano. Ho visto cacciatori piangere e – come detto in un precedente post – ho ricevuto anche un avviso di garanzia per le boiate del responsabile di un’azienda venatoria.

• Ma cosa voleva dire che la Provincia si occupava di caccia? Molto di più di quanto si potesse pensare. Significava occuparsi della gestione faunistica del territorio, dell’attività di vigilanza, del miglioramento degli habitat e del ripopolamento della fauna selvatica. Tutto apparentemente semplice, ma in realtà complesso e delicato. Nei quattro anni elaborammo programmi per centinaia di milioni. Tanto per fare un esempio, perché ho ancora i dati, negli anni 1996 e 1997 presentammo progetti per 2 miliardi e 300 milioni di lire.

Per quello che riguardava la gestione faunistica decidemmo – come detto – di promuovere il cambiamento, adeguandoci intelligentemente alle leggi nazionali (157 del 1992 e 3 del 1994) e alla delibera della regione Toscana 292 del 1994.

① L’ABACUS SULLE TRACCE DELLE ABITUDINI DEI CACCIATORI. Lo facemmo intanto andando a saggiare le opinioni della base dei cacciatori, visto che le litanie dei vertici le conoscevamo anche troppo bene. Commissionammo un’indagine alla società Abacus sui comportamenti di caccia e sulle opinioni relative ad alcune proposte di modifica delle modalità di caccia dei cacciatori grossetani. Furono intervistati 1.000 cacciatori, selezionati tra un elenco di 14.000. Avevamo bisogno di giungere ad una programmazione dell’attività venatoria che tendesse ad una diversa distribuzione dei cacciatori sul territorio, in modo da limitare il nomadismo e riequilibrare la pressione venatoria tra i vari territori. Ricevemmo risposte confortanti.


② IL TERRITORIO SUDDIVISO IN TRE ATC. La nostra prima mossa riguardò gli ATC. Dopo una seria concertazione con le associazioni venatorie suddividemmo il territorio in 3 Ambiti Territoriali di Caccia (ATC) che finanziammo regolarmente tutti gli anni. Per ciascuno di questi nominammo un comitato di gestione formato dai rappresentanti delle associazioni dei cacciatori, degli agricoltori, delle associazioni ambientaliste e della Provincia. Fu un’operazione sensata ed equilibrata e nonostante ciò scatenò le contrarietà di qualche associazione venatoria e le ire di alcuni cacciatori che giunsero addirittura – come ho già detto – a minacciare me e la mia famiglia. Roba da matti.

③ LE NUOVE REGOLE PER LA CREAZIONE E LA GESTIONE DEGLI ISTITUTI FAUNISTICI. La seconda mossa riguardava la definizione di nuove regole per la creazione e la gestione degli istituti faunistici sia pubblici che privati. Le nuove regole erano necessarie nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione perché, sino ad allora, nelle materie che riguardavano le Zone di Ripopolamento e Cattura della fauna selvatica (Zrc), le Aziende Faunistico Venatorie (Afv) e le Aziende Agrituristico (o turistico) Venatorie (Atv) della provincia di Grosseto, molto era stato lasciato alla discrezionalità degli amministratori. Cioè, poche assolvevano alle indicazioni previste dalla delibera regionale 292 del 1994 e noi non potevamo, né volevamo, far finta di niente, anche perché la situazione era veramente confusa se non vicina allo sfascio. I precedenti amministratori a circa un anno dalle elezioni, non avevano avuto il fegato di toccare la caccia. La questione era, però, delicata anche perché andavamo a toccare interessi economici di tutto rilievo. Circolavano dati (approssimativi) sull’attività delle aziende private: dicevano che in esse trovavano accoglienza circa 25.000 presenze di cacciatori, con un fatturato presumibile di oltre 3 miliardi annui e decine di posti di lavoro. Senza considerare l’indotto: ristorazione, permanenza nelle aziende agrituristiche e acquisto dei prodotti della terra.

La non facile operazione di cambiamento la preparammo in modo certosino e culminò nel seminario del 5 novembre 1996 al Granduca, con la presenza dei dirigenti regionali delle organizzazioni venatorie (Massimo Cucchi, Massimo Logi, Leo Francini, Graziano Meoni), di quelle agricole (Maria Pia Mancini, Massimo Pacetti, Francesco Pastorino), di quelle ambientaliste (Fulvio Fraticelli, Armando Garibaldi, Susanna D’Antoni). Per l’università erano presenti i professori Massimo Tocchini, Sandro Lovari, Luigi Boitani. Invitammo quel livello di persone anche perché limitandoci ai responsabili locali il dibattito sarebbe stato asfittico e poco costruttivo. Tutti, anche i responsabili del mondo venatorio, espressero un giudizio positivo sia sul merito delle nostre proposte che sul metodo, sollecitando solo di apportare alcune modifiche per rendere i Regolamenti più efficaci nell’applicazione e gestione.

• Le Zone di Ripopolamento e Cattura erano strutture pubbliche finalizzate alla riproduzione di alcune specie selvatiche (lepre, starna, pernice rossa e fagiano) che venivano poi catturate e reimmesse nel territorio a disposizione dei cacciatori. Noi intendevamo favorire la costituzione di queste zone, puntando alla loro massima qualificazione, anche attraverso interventi di ripristino ambientale. Secondo le nuove regole ogni Zrc (ne esistevano 42) avrebbe dovuto avere una superficie minima di 600 ettari (500 in collina) e per la nuova istituzione e il rinnovo di quelle esistenti si prevedevano una serie di caratteristiche ambientali vincolanti. Non potevano inoltre essere istituite in zone che la Regione definiva vocate al cinghiale. Tra le attenzioni del nostro regolamento c’era l’opera di salvaguardia delle produzioni agricole anche attraverso il controllo della fauna selvatica in eccesso.

• Le Aziende Faunistico Venatorie erano 27 e avevano le stesse finalità della Zrc, ma erano strutture private, gestite dal concessionario, nelle quali era consentita anche la caccia. Qui oltre alle specie producibili previste per le Zrc, trovavano spazio anche la lepre, il capriolo e il muflone, là dove esisteva. Le Afv avrebbero dovuto avere una superficie minima di 400 ettari (1000 se era prevista la produzione di ungulati) e, per ottenere la concessione, gli interessati avrebbero dovuto presentare un piano di gestione ambientale dettagliato, con tanto di cartografia tematica, descrizione delle caratteristiche territoriali, scelta delle specie di indirizzo, valutazione della presenza delle specie riproducibili. Ed anche un progetto di recupero e valorizzazione ambientale. Per i concessionari delle Afv, come per le Zrc, erano previsti particolari incentivi relativi ad interventi per fini naturalistici. I finanziamenti sarebbero stati concessi ai proprietari o ai conduttori dei fondi all’interno dei quali fosse stata accertata la presenza di mammiferi o uccelli appartenenti a specie protette o inserite negli appositi elenchi europei.

• Le 11 Aziende Turistico o Agrituristico Venatorie erano strutture private con una superficie che poteva andare dai 200 ai 500 ettari, consentite dalla legge con finalità di recupero e di valorizzazione di imprese agricole situate in aree svantaggiate o dichiarate marginali ai sensi degli interventi comunitari. Qui la caccia entrava a far parte dell’attività agrituristica, con un vantaggio economico immediato per i concessionari. Nessuna finalità naturalistica dunque, ma solo la possibilità di aumentare la redditività di alcune aziende agricole. Infatti chiedemmo, per la concessione delle licenze, un ritorno in termini occupazionali (l’occupazione, il nostro costante assillo).

Intendevamo valorizzare le produzioni di fauna selvatica di qualità che si riproducesse in libertà e non negli allevamenti. E i problemi principali delle Zrc e delle Afv erano l’ubicazione, che spesso interessava territori non idonei, e l’eccessiva burocratizzazione della loro gestione che noi volevamo snellire. Insomma, eravamo intenzionati ad esaltare l’immagine di una provincia dal territorio sano, anche attraverso la regolamentazione delle attività faunistico venatorie. Se quindi le strutture faunistico venatorie ci qualificavano, allora – come diceva Sammuri – occorreva che le regole fossero chiare.

Non avevamo ancora definitivamente approvato le nuove norme, che già iniziarono a fischiare pallottole. Tra le associazioni venatorie avemmo il plauso dell’Arci-Caccia e la contrarietà delle altre associazioni. “Sulla caccia è guerra aperta” titolava Il Tirreno del 31 dicembre 1996 e continuava con il presidente Rocchi che diceva “Siamo sulla buona strada” e i responsabili grossetani di Federcaccia, Liberacaccia e Italcaccia che invece parlavano di “Novità contestabili”. Addirittura, secondo la triplice, con i nostri Regolamenti saremmo andati oltre la legge nazionale e la delibera regionale. Opinioni tutte opinabili, ma che a ben vedere, risentivano in parte della collocazione politica dei responsabili delle associazioni e del fatto che qualcuno non era più considerato il principe del foro. Ci attaccò pure il cosiddetto consigliere verde Guido Ceccolini, che di lì a poco sarebbe uscito dalla nostra maggioranza (anche per divergenze sulla Diaccia Botrona e praticamente su tutto), secondo il quale con la nostra riforma avremmo danneggiato l’ambiente e addirittura avrebbero dovuto chiudere un sacco di Aziende Faunistico Venatorie. Il tempo ha poi dimostrato l’inconsistenza di quella contestazione, anche se molte di queste dovettero adeguarsi, come era giusto e doveroso, alle nuove regole, ciò a dire alla legge nazionale e regionale.

④ LA CACCIA DI SELEZIONE. Mentre nelle passate stagioni venatorie il contenimento delle varie specie di fauna selvatica avveniva con l’aiuto di cacciatori indicati dai proprietari o dai conduttori dei terreni, noi decidemmo di formare direttamente i cacciatori.

Realizzammo corsi per la preparazione dei cacciatori alle azioni di contenimento della fauna in eccesso (cinghiale, volpe, storno, nutria, passeri, corvidi) e per gli interventi di caccia di selezione al capriolo e al daino. Coinvolsero un migliaio di cacciatori abilitati a svolgere un servizio necessario a mantenere un buon equilibrio di fauna selvatica nel nostro territorio, sotto il controllo delle guardie provinciali (1270 cacciatori fecero domanda e gli abilitati furono 900 per la caccia di contenimento e 99 per la caccia di selezione).  Per agevolare i cacciatori abilitati, eliminammo i tempi burocratici attivando un nuovo sistema di teleprenotazione degli interventi di abbattimento. Si passò dai 15-30 giorni del passato ad un preavviso di 48 ore.

Anche su questo ricevemmo le critiche dell’amico verde Ceccolini che parlava un po’ confusamente di caccia in estate, di strage dei nidi, di interventi di contenimento con le gabbie Larsen, del rischio di colpire gufi e rapaci diurni. Gli rispose Sammuri con un intervento pepato ne La Nazione del 23 giugno 1997, ricordando che: “quella estiva non era caccia ma contenimento della fauna selvatica in eccesso”, i cui piani “richiedono il parere dell’Istituto Nazionale della Fauna selvatica di Bologna alle cui indicazioni la Provincia di Grosseto si è uniformata”. Inoltre che “gli interventi proposti sono altamente selettivi e l’intervento ai nidi è solo residuale”. Quanto alla cattura con le gabbie Larsen, essa “non offre risultati soddisfacenti”. Riguardo al rischio di colpire involontariamente altre specie, “esiste nel disciplinare autorizzato la prescrizione di accertarsi visivamente della specie presente nel nido”. Ricordò infine che i piani di contenimento riguardavano solo le Zone di Ripopolamento e Cattura che coprivano il 7% del territorio provinciale.

⑤ LE AREE VOCATE E I CORSI DI ABILITAZIONE ALLA CACCIA AL CINGHIALE. Iniziammo anche a rivedere le aree vocate alla caccia al cinghiale, per riportarle entro i parametri indicati negli indirizzi regionali di programmazione faunistico venatoria. Predisponemmo il programma didattico dei corsi di formazione e specializzazione per l’abilitazione alla caccia al cinghiale in battuta. Provvedemmo, nel primo periodo, anche all’assegnazione dei territori di caccia al cinghiale alle squadre che ne avevano fatto domanda, chiedendo alla regione Toscana una deroga per l’iscrizione di squadre composte da un numero di cacciatori inferiore a 40 prevista dal Regolamento, per poter ridurre tale limite a 25 cacciatori. Il numero totale dei cacciatori di cinghiale era di 8.000, un esercito.

⑥ I DIVIETI DI CACCIA. Nel 1997 sottoponemmo a verifica gli istituti dei divieti di caccia (28 in quell’anno). Analizzammo caso per caso gli istituti (per loro natura temporanei) e, ove possibile, li trasformammo in altri istituti duraturi (Oasi, Area protetta, Zrc). Dove non fu possibile, liberalizzammo l’attività venatoria.

⑦ LA LIQUIDAZIONE DEI DANNI ALLE PRODUZIONI AGRICOLE. La giustificata lamentela degli agricoltori giungeva spesso alle nostre orecchie e noi, tutti gli anni, provvedemmo ad accertare i danni arrecati dalla selvaggina ed a liquidare il dovuto, in percentuale del 90% rispetto all’accertato.

 

⑧ IL CENTRO DI RIPRODUZIONE DELLA SELVAGGINA E DI ALLEVAMENTO DELLE LEPRI. Attivammo progetti pilota per la produzione e il ripopolamento della selvaggina offrendo certezza gestionale e sviluppo al Centro per la riproduzione della selvaggina di Scarlino e aiuti al nostro Centro di allevamento delle lepri a Civitella Paganico. Con il primo progetto ci proponevamo di ricostruire una popolazione vitale di pernice rossa nel nostro territorio. Con il secondo fu avviato uno studio relativo alle tecniche di alimentazione e di allevamento della Lepre di Montalto.

⑨ I NIDI DI ALBANELLA MINORE. Con il progetto di salvaguardia e censimento dei nidi di albanella minore, puntammo a tutelare un rapace la cui permanenza nel nostro territorio era considerata molto importante nel quadro dell’avifauna locale.

⑩ IL CENTRO RECUPERO ANIMALI SELVATICI DI SEMPRONIANO. In collaborazione con il WWF creammo a Semproniano un Centro di ricerca e di monitoraggio sulla fauna, il Centro Recupero Animali Selvatici della Maremma (Crasm). Nacque con il riutilizzo di voliere in pieno stato di abbandono, convertite in aree di accoglienza per la fauna soccorsa dai cittadini (compresi i mammiferi). Centro importante anche per l’azione di monitoraggio e di prevenzione sanitaria di malattie che si sviluppano in animali selvatici e possono diffondersi con facilità (in collaborazione con le Università di Perugia e Pisa). Ed anche perché divenne la sede di un importante progetto finalizzato alla reintroduzione del capovaccaio, una particolare specie di avvoltoio dal piumaggio bianco, rarissimo in Italia.

⑪ LA RIFORMA DEL CORPO DI POLIZIA PROVINCIALE E L’ESPANSIONE DEL CORPO DI VIGILANZA VOLONTARIA. Il nostro corpo di Polizia, pur essendo limitato nel numero, operava costantemente a tutela del patrimonio faunistico. In particolare, nell’ambito di operazioni di bracconaggio riuscì a concludere positivamente diverse azioni, anche in collaborazione con le guardie venatorie volontarie. Io espressi a più riprese la necessità di riorganizzare il nostro corpo e la struttura Sviluppo e tutela del territorio della Provincia provvide ad una riforma che andava nella giusta direzione, per la quale il consigliere di minoranza, Gino Maccioni, fece le sue rimostranze e chiese spiegazioni, lasciando intendere, tra l’altro, che avevamo provveduto ad alcuni trasferimenti punitivi nei confronti di due vigili perché avevano partecipato insieme alla Procura ad indagini che avevano condotto alla sospensione temporanea di concessioni ad alcune aziende faunistico venatorie. Una stupidaggine naturalmente. In quella circostanza colsi l’occasione per precisare che le 15 sospensioni delle concessioni dal ’95 a quel momento erano state tutte emesse in seguito a segnalazioni fatte proprio dal nostro servizio Conservazione della natura (La Nazione, 1.12.1997). Ricordo anche che quando si indisse il concorso per l’assunzione di nuove guardie questo ebbe un iter a dir poco travagliato: l’infortunio di una candidata, la malattia di un commissario, ricorsi al Tar, un franco tiratore che accusava gli uffici della Provincia di aver fornito elenchi incompleti e diversi sui testi da studiare ed altro ancora (Il Tirreno, 6.05.1997). Sembrava di essere su Scherzi a parte.

Nonostante i nostri sforzi il corpo di polizia provinciale non poteva essere sufficiente a svolgere il delicato compito di tutela. Per questo, dopo accurato lavoro, il 19 giugno 1998 siglammo una convenzione con le associazioni venatorie, della pesca e dell’ambiente per un coordinamento provinciale delle Guardie Volontarie. Fu un’autentica pietra miliare per il controllo e la tutela del nostro territorio. Alcune di queste (le guardie ecologiche volontarie) furono assegnate ai vari ATC ed ai bacini idrici della provincia, con gli importanti compiti di fornire consulenze per la previsione dei rischi ambientali, per la salvaguardia del territorio e della salute pubblica, oltre ad informare sulla legislazione allora vigente in materia di tutela della fauna, della natura, del paesaggio e dell’ambiente. Non solo quindi repressione, ma soprattutto prevenzione in particolare rivolta a chi per trascuratezza, incuria e non conoscenza poteva compiere o compiva atti contro la natura. Era un “esercito di 254 guardie volontarie”, come titolava La Nazione del 20.06.1998.

 

⑫ BARBETTI SUONA LA TROMBA. Ruggini sulla caccia rimasero con il presidente della Federcaccia, Roberto Barbetti, che utilizzava ogni occasione per parlare male di me, Sammuri, della Provincia. Il 30 agosto 1998, denunciò “l’ennesima delusione sulla gestione del calendario venatorio nei tre anni di presidenza”. Partì da alcune questioni merito, “la chiusura al fagiano il 31 dicembre, l’apertura al colombo il 2 settembre, la chiusura al 29 dicembre, la discordanza sull’apertura della caccia al capriolo e al daino previste per il 1 agosto” per poi giungere al suo vero obiettivo. Siccome a suo dire l’amministrazione da me presieduta non aveva tenuto conto della volontà della maggioranza dei cacciatori (gli iscritti alla sua organizzazione) mi accusava di “una gestione verticistica della cosa pubblica”. “Prendiamo atto di ciò, augurandoci di discutere il prossimo calendario venatorio, il nuovo piano faunistico compresa la riduzione a due Atc, con nuovi amministratori, essendo vicino il rinnovo del consiglio provinciale”, nel corso del quale “sicuramente ci misureremo col consenso popolare, ritenendo di avere le carte in regola per partecipare alla gestione della cosa pubblica attraverso l’assemblea elettiva” (La Nazione, 3.08.1998).

Come è facile intuire, la mia risposta non fu meno polemica (Il Tirreno, 9.08.1998), anche se volta in primis a precisare le molte inesattezze contenute nell’intervista di Barbetti. La prima “falsità” era che la Provincia volesse ridimensionare la Federcaccia. Ma chi se ne fregava della ripartizione dei cacciatori tra le varie associazioni. Il calendario venatorio, poi, l’avevamo steso dopo aver consultato “una ventina di soggetti tra associazioni ed enti”. Inoltre non c’era nessuna apertura al colombaccio il 2 settembre, né la chiusura il 29 dicembre e l’apertura ritardata della caccia di selezione al capriolo dipendeva esclusivamente da un ritardo dell’efficacia della legge regionale. L’unica differenza di opinione riguardava “la chiusura della caccia al fagiano al 31 dicembre invece che al 31 gennaio” e su questo punto ricordai che, nel dicembre 1997, il 67% dei cacciatori grossetani e il 68% di quelli iscritti alla Federcaccia erano favorevoli alla chiusura della caccia al fagiano il 31 dicembre (utilizzando la ricerca Abacus).

Il motivo reale della nota di Barbetti era un altro: “Tutti i responsabili delle associazioni (agricole, ambientaliste e venatorie) sono uguali, ma uno, il presidente della Federcaccia, è più uguale degli altri, perché le sue posizioni sono ordini per le istituzioni e chi non s’adegua è un nemico da combattere”. E così conclusi: “Utilizzare il ruolo che si riveste per condurre battaglie che nulla hanno a che fare con quel ruolo, ma solo con ambizioni personali e di potere, è una cosa veramente disdicevole e, questa sì, da combattere duramente”. Amen. Come Piero Capponi, alle trombe di Barbetti-Carlo VIII opposi le nostre campane.

Ma non mi sfuggì che le campane stavano iniziando a suonare anche per me, e a morto. Infatti, la sproporzione della reazione del presidente della Federcaccia rispetto al banale punto di dissidio con noi, segnalava che era iniziata la guerra per la mia successione. Barbetti tutto era fuorché uno sprovveduto (a me stava anche simpatico ed era stato presente nella mia sede elettorale il giorno dello spoglio) anzi, era molto addentrato nella politica grossetana, specie nelle stanze sinistre. Quindi, o aveva carpito gli umori come un cane da tartufi o aveva avuto l’input da qualcuno di puntare la preda, come un cane da penna. E imbracciò il fucile. Poi si rese conto di averla fatta grossa e il 20 agosto, dopo aver detto che nelle loro stanze non si faceva politica, avanzò la proposta di costituire un tavolo di confronto tra le associazioni e la Provincia per discutere insieme i passaggi più importanti (Il Tirreno, 20.08.1998).

Ma il colpo era partito e si stava dirigendo verso di me per farmi fuori.

⑬ TUTELA, INCREMENTO E CONTROLLO DELL’ITTIOFAUNA. Ovviamente non c’era solo la caccia nei nostri interessi, ma anche la pesca, praticata da un discreto numero di persone nella provincia. Le esigenze di tutela dell’ittiofauna ci spinsero ad imporre i divieti di pesca in alcuni canali (collettore Molla) e fossi i cui corsi d’acqua si prestavano ottimamente, sia per condizioni ambientali che idrobiologiche, alla produzione di alcune specie ittiche come la Trota fario. Insieme al comune di Santa Fiora elaborammo e finanziammo, utilizzando fondi messi a disposizione dalla regione Toscana, un progetto volto alla reintroduzione della Trota macrostigma nella Peschiera e nell’alto bacino del Fiora, prevedendo anche un incubatoio per la sua riproduzione in cattività. Quella trota agiva da regolatore delle popolazioni di invertebrati nell’ecosistema acquatico ed era da sempre una delle prede più ambite dai pescatori sportivi.

Finanziammo importanti progetti. Ne cito alcuni: il progetto Ponte Tura nel comune di Grosseto; il Progetto Life per la progettazione ed esecuzione di interventi di ampliamento e gestione della parte salmastra della laguna di Orbetello; il progetto di studio sullo stato delle acque, la loro qualità, la presenza della fauna acquatica nei quattro principali fiumi della nostra provincia: Ombrone, Albegna, Farma, Merse. Oltre alla tutela, decidemmo anche di incrementare il patrimonio ittico delle acque interne che dal 1992 al 1994 era stato minacciato da lunghi periodi di siccità. Per questo acquistammo ingenti quantitativi di alcune specie ittiche (lucci, lucci adulti, trote piccole, trote adulte, barbi, eccetera) che immettemmo in acque pubbliche libere da pesca. 

La nostra Giunta deliberò la costituzione della nuova Consulta Provinciale della Pesca in acque pubbliche interne, con il compito di controllare e coordinare le azioni per la tutela della fauna ittica e la regolamentazione della pesca dilettantistica. Istituimmo anche un campo di gara permanente lungo il corso del fiume Albegna.

 

Sicuramente dimentico molte altre cose fatte durante la nostra legislatura (1995-1999), ma quelle dette mi sembrano più che sufficienti almeno per sostenere che ci impegnammo molto anche su questo fronte.















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