lunedì 10 gennaio 2022

POST 66 – FRATELLI DI CHI SOFFRE

Sciagure nazionali e sofferenze di altri popoli ci trovarono al pezzo. Dalla Versilia e la Garfagnana al terremoto umbro-marchigiano, passando per il popolo Saharawi, la Bolivia e Mostar in Bosnia-Erzegovina

Purtroppo il quotidiano rischiava di schiacciare la nostra azione solo e soltanto entro i nostri ristretti confini. Ma oltre noi c’era il mondo. Il mondo ci riguardava e ci interessava, come cittadini e come istituzioni. Ma il mondo non era in pace perché non si muoveva sulla linea dell’autentico sviluppo e in larga parte non si sviluppava perché non era in pace. Lo statuto del nostro Ente – oltre alle tipiche attività – dichiarava che “la Provincia promuove e sostiene ogni iniziativa ed azione che tenda ad un concreto conseguimento dei valori fondamentali della pace, della solidarietà, della democrazia e della libertà, sui quali sui basa il rispetto della persona umana”. (art. 1 comma 1). C’erano anche le alluvioni e i terremoti che di tanto in tanto devastavano la nostra Penisola. Non eravamo certo la Farnesina, la Protezione Civile o la Croce Rossa. Potevamo però portare il nostro piccolo mattone alla costruzione di una umanità meno dolente e più solidale. E provammo a farlo. Tra queste iniziative ricordo l’aiuto alle popolazioni della Versilia e della Garfagnana, il nostro intervento dopo il terremoto nell’Umbria e nelle Marche, il patto di amicizia e gemellaggio con il popolo Saharawi, il sostegno alla missione della diocesi di Grosseto in Bolivia, la partecipazione alla cooperazione con l’area di Mostar in Bosnia.

• Seguendo l’iniziativa promossa dall’Unione delle province Tosca-ne partecipammo a due progetti per la ricostruzione di alcune zone della Versilia e della Garfagnana alluvionate nel giugno 1996. Mettemmo 100 milioni che furono utilizzati a Fornovolasco, una frazione di Vergemoli in Garfagnana e nell’abitato di Cardoso, nel comune di Sant’Anna di Stazzema (in entrambi i casi servirono per la ricostruzione di ponti).

 

• Nel settembre 1997 un forte sisma interessò l’Umbria e le Marche. Raccogliemmo quel grido di dolore nel modo più semplice e concreto possibile: attraverso una serie di interventi secondo le necessità e le richieste avanzate dai responsabili dell’emergenza e delle istituzioni di quelle zone. Poche ore dopo il sisma eravamo sul posto con i nostri uomini per realizzare l’urbanizzazione di un’area. Stanziammo fondi per l’emergenza e in particolare ci preoccupammo di far ripartire la didattica in alcuni paesi dove erano state danneggiate le scuole. I nostri tecnici si occuparono di fare sopralluoghi nelle case del comune di Foligno, poi l’intera squadra si trattenne per due mesi a fare interventi a Nocera Umbra, Isola, Collecroce, Colfiorito. Li voglio citare, perché ne vado ancora fiero: gli ingegneri Massimo Luschi e Carlo Bocci; i geometri Mauro Bindi, Danilo Corridori, Massimo Bartalucci, Tiziano Romualdi, Carlo Massetti, Enrico Pasquini, Lorella Santori; gli operatori Romolo Bacci, Renzo Landeschi, Aldo Raffi, Danilo Rossi, Roberto Cosimi.

Non solo. Avviammo anche una campagna di sensibilizzazione e di sottoscrizione con lo slogan, Non solo Giotto, che accompagnò per tre mesi la vita dei grossetani e si propagò in tutte le località della provincia: manifesti, lettere ad associazioni e cittadini, inserzioni su quotidiani e periodici, spot televisivi e radiofonici. C’eravamo assunti la responsabilità morale e istituzionale di fare una raccolta fondi sull’intero territorio provinciale. Iniziativa che volli con tutte le mie forze, anche se a taluno non sembrava propria di un Ente. Non ricordo quanto alla fine si riuscì a raccogliere (30 milioni circa?), ma più di tutti contava il messaggio: “ci metto del mio per aiutare persone in difficoltà”.

Ai soldi raccolti aggiungemmo 100 milioni di lire e dopo accordi con la Provincia di Perugia e il comune di Nocera Umbra li destinammo alla realizzazione di una scuola prefabbricata (17 moduli per ospitare 10 aule per gli alunni, 2 aule per i laboratori, 2 per la segreteria e la presidenza, 2 box per i servizi igienici) dove temporaneamente spostare l’Istituto professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato di Nocera Umbra. 160 studenti che, dopo tre mesi – unici delle superiori in quel comune – poterono usufruire di una scuola e iniziare di nuovo le lezioni.

Pochi giorni prima del Natale 1997, insieme all’assessore Renato De Carlo, ai nostri uomini che avevano operato ed alle autorità locali, partecipai al taglio del nastro dell’inaugurazione della nuova scuola. Fu un’emozione unica. Come ricordava Giancarlo Capecchi, in un articolo su La Nazione del 23.12.1997, ricevetti dal sindaco di Nocera la loro massima onorificenza, il Giglio d’oro, e gli studenti ci dedicarono “uno spettacolo, fatto di canti e letture sulla tragica vicenda vissuta”. Capecchi ricorda anche le poche parole che dissi nel saluto: “Sono lieto di poter essere felice con chi ha tanto sofferto e continuerà a soffrire. Voglio trasmettervi la stessa speranza che alla nostra gente fu trasmessa il 4 novembre del 1966 quando Grosseto fu travolta e stravolta da un’incredibile alluvione. La nostra presenza, il nostro lavoro sono anche la testimonianza che l’Italia c’è, che non siamo tribù, ma una nazione, una Patria: tutte sensazioni che voglio segnalare perché ci devono fare sentire il gusto di essere italiani”. Rispose il Presidente della Provincia di Perugia: “Siamo certi che i nostri ragazzi capiranno il valore aggiunto che c’è in queste strutture, che è fatto di solidarietà, organizzata ed efficiente e di volontà”. Su sollecitazione della Provincia di Macerata erogammo un altro finanziamento di 80 milioni di lire al comune di Serravalle del Chienti per realizzare una struttura prefabbricata di circa 140 mq, costituita da 4 box con ingressi indipendenti, da utilizzare come negozi: struttura completa di infissi, impianto elettrico e riscaldamento.

• Un pezzetto di Maremma, dal 1995, aveva scelto l’emisfero sud per vivere e lavorare. Un gruppo di volontari composto da un sacerdote della diocesi di Grosseto (padre Claudio Piccinini) e due laici (la famiglia Ferrara) viveva a stretto contatto con i poveri e gli emarginati di Santa Cruz de la Sierra nella Missione San Lorenzo (patrono di entrambe le città), collaborando a diversi progetti. Riuscimmo a trovare motivazioni e risorse per contribuire al sostegno di alcune di queste attività, la più importante delle quali fu la costruzione del Giardino d’Infanzia San Lorenzo nell’area amministrata da padre Claudio.

 

• Dall’estate 1996 e da un incontro con una delegazione di 30 bambini del popolo Saharawi e i loro accompagnatori (ospiti a Follonica dell’Associazione di Solidarietà con la Repubblica Democratica Araba del Saharawi) nacque un’occasione di solidarietà con un popolo – circa 160 mila persone – che dalla metà degli anni ’70 viveva in esilio nei campi profughi del deserto algerino, ultima vittima del sistema coloniale. Nel marzo 1997 stipulammo un patto di amicizia con questo popolo, rappresentato nell’occasione dalla provincia-tendopoli di Smara. Il patto impegnava noi e loro ad intraprendere iniziative di cooperazione, favorendo scambi sociali, culturali ed economici finalizzati al raggiungimento della pace.

 

• Nella seduta congiunta dei Consigli Comunale e Provinciale del 19.07.95 ci impegnammo a promuovere e a partecipare ad iniziative per ogni forma di solidarietà ed aiuti umanitari in favore della popolazione della ex Jugoslavia. In tal senso la Provincia intervenne in un progetto per la vita di un popolo, per la pace e per la cultura. Mostar era una città divisa. Fino alla tarda primavera del 1994, musulmani e croati si erano combattuti porta a porta. La frattura rappresentata fisicamente dalla distruzione del ponte Stari Most (il Ponte Vecchio costruito con 465 blocchi di pietra bianca sin dal 1557) era il segno tangibile di una separazione culturale profonda. La via della pace e dell’unità, della solidarietà tra popoli di etnie diverse, ulteriormente divisi dalla guerra, dai ricordi di violenza, poteva essere percorsa attraverso un processo di recupero di una cultura della convivenza che partisse dai giovani. A Mostar est erano poche le strutture scolastiche operanti, quasi tutte di livello inferiore. La ricostruzione della società civile stava nel recupero, nello scambio e nella crescita culturale dei giovani. Una giovane insegnante, Jelka Kebo, si era battuta per l’apertura di un grande Centro Giovanile polivalente a Mostar Est ospitato in una struttura ultimata grazie ad un finanziamento dell’Unione Europea.

L’Arci aveva costruito intorno alla volontà dell’insegnante e dei giovani che già si incontravano nel centro, un progetto che non rendesse questo stabile una scatola vuota. Le esigenze espresse dai giovani del Centro andavano dall’allestimento di una stazione radio e di una redazione giornalistica di base, a quella di una sala proiezione. Noi decidemmo di entrare nel progetto intervenendo in una prima fase con 15 milioni di lire a condizione che divenissero subito operativi. Contribuimmo alla realizzazione di una sala video. Si trattava di acquistare poltroncine, un videoproiettore, uno schermo mobile e delle tende oscuranti. Un piccolo passo possibile e concreto. Non l’ultimo passo del nostro Ente nella ex Jugoslavia. L’inizio di un percorso di relazioni che portò, dal 25 al 29 settembre 1996, una delegazione della Provincia di Grosseto a Mostar Est (composta da Gloria Faragli e Manuela Bracciali) – insieme ad Alessandro Lotti per il comune di Grosseto e Roberto Mori per l’Arci – per verificare direttamente ciò che serviva, ma anche e soprattutto per aprire relazioni, scambi utili, nel loro piccolo, al difficile processo di democratizzazione del paese. Aderimmo anche al progetto di solidarietà Atlante delle Comunità Locali della Bosnia Erzegovina per la cooperazione decentrata per lo sviluppo umano in un contesto post-conflitto.

• Durante il consiglio provinciale congiunto con quello del comune di Grosseto del 19 luglio 1995, che – mi pare – si tenne all’aperto, pronunciai il seguente discorso. “Non ho mai vissuto la guerra direttamente, fortunatamente, come molti di coloro che sono qui. Vi vorrei chiedere, dunque, di smuovere la fantasia e di capire cosa significa essere cacciati, in una sera d’estate del 1995, dalle proprie case bruciate con gli uomini portati a destinazione sconosciuta e trovarsi in migliaia su un prato, sotto delle leggere tende bianche e blu. I fatti accadono a poche centinaia di chilometri di distanza, oltre il mare esplodono granate, cresce il filo spinato dei lager, fuggono e muoiono bambine, uomini e donne, città, paesi, case di campagna vengono trafitte, bruciate. Una reazione su tutte è quella di cancellare, di portare queste vicende di guerra a far parte della realtà virtuale che, ogni giorno in parte viviamo. Allora, solo così, Srebrenica e Sarajevo possono tornare lontane in uno spazio ed in un tempo illusorio, raccontato da un televisore, senza interferire con la normalità del quotidiano. Dieci anni fa sono andato a visitare, in silenzio e lacrime, il campo di concentramento di Dachau in Baviera. Mi si disse che all’arrivo degli Alleati le popolazioni dei paesi limitrofi si erano dette ignare dell’Olocausto che a pochi chilometri si consumava. Ne rimasi sconcertato. Noi oggi, che non possiamo far finta di non sapere, rischiamo l’assuefazione al male, la fuga nell’immaginario, l’annullamento dell’orrore con l’abitudine. Con un moto di sana reazione questa sera siamo invece in piazza per esprimere il tormento delle nostre coscienze, riacquistare la dignità dell’indignazione, dichiarare pubblicamente la normalità di provare orrore per ciò che accade in Bosnia (ma anche in Afghanistan, nel Kashmir, in parte della Cina e in altre zone del mondo dove non vi sono tante telecamere in azione).

Il silenzio e l’impotenza dei singoli ha fatto da sfondo al nazismo ed ha accompagnato l’instaurazione dei regimi dittatoriali. Il silenzio della maggioranza, il chiudere gli occhi per non vedere la realtà circostante ha alimentato la forza di una minoranza agguerrita, motivata ideologicamente. Ma attenzione: sarebbe errato ritenere soltanto una parte violenta e le altre solo vittime. Purtroppo quella bosniaca è una situazione orribile dove oggi spadroneggiano i signori della guerra. E purtroppo quella balcanica – nonostante le attuali atrocità serbe – ha più i tratti di una guerra civile (se mai una guerra in tal modo si possa chiamare), che quelli di una guerra di pura aggressione e ciò rende tutto più complicato: anche un eventuale intervento militare. Anzi parlare in tale contesto di soluzione militare è assurdo. Come ha detto qualche autorevole commentatore, se davvero volessimo imporre scelte con la forza, dovremmo rassegnarci ad occupare la Bosnia per decine di anni e affrontare un altissimo prezzo in vite umane. Ma ciò che sta accadendo in Bosnia esige l’impegno di ciascuno di noi. Chi può parlare parli, chi può gridare gridi, chi può pregare preghi, chi può operare operi. E uniamoci per spingere i singoli governi, l’ONU, la NATO a mettere in campo tutte le loro forze per fermare questa strage di innocenti, per permettere alla gente di Sarajevo, delle enclave musulmane assediate, di poter ricevere gli aiuti sufficienti per sopravvivere. Almeno questo: aiutarli a sopravvivere. È l’unico intervento a cui riesco a pensare. Non posso immaginare il sangue dei nostri figli bagnare i Balcani. Il muro che dobbiamo far crescere è quello dei medicinali, degli alimenti, del controllo rigoroso degli armamenti, il muro della pace”.

Piccole cose le nostre, ma che ci permettono ancora oggi di dire che noi c’eravamo.
















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