martedì 19 aprile 2022

POST 83 – CHI PAGA IL CONTO? LA GRAVE QUESTIONE DELLE BONIFICHE

La cosa era serissima e insieme all’assessore Daniele Morandi la seguimmo con grande attenzione. A freddo nel 2000, Roberto Barocci nel suo “ArsENIco” annoverava me, Morandi, Pettini e l’intera giunta tra gli amministratori pubblici distratti e disonesti che per qualche privilegio o vanità avevano contribuito ad avvelenare la Maremma. Una vigliaccata e una falsità

Le miniere avevano lasciato profonde cicatrici sul territorio delle Colline Metallifere (resti di edifici, cumuli di scarti prodotti dalla lavorazione del rame e della pirite, i rosticci con il loro aspetto lunare, ecc.) ed anche la nascita dell’industria chimica, tanto reclamata, aveva presentato il suo conto, fatto di ceneri e fanghi.

① CENERE SIETE…E FANGHI PURE. Dentro il padule di Scarlino c’erano le ceneri di pirite, prodotte nel tempo dalla Società Montecatini, poi Montedison, poi Solmine e Nuova Solmine, determinando il cosiddetto panettone di circa un milione e mezzo di metri cubi, e non era possibile farle scomparire con un colpo di bacchetta magica. L’unica cosa seria da fare era quella di collocarle adeguatamente perché non creassero danni all’ambiente. La Giunta della Regione Toscana aveva deliberato, alla fine degli anni ’80, che quelle ceneri di pirite, quale scarto di lavorazione per la produzione di acido solforico, potevano essere considerate materiali riutilizzabili per il riempimento dei vuoti di miniera. La Nuova Solmine aveva chiesto e ottenuto di realizzare discariche dei rosticci prodotti nel limitrofo padule di Scarlino e in alcuni pozzi di acqua non più potabile. Tra la fine del 1997 e l’inizio del 1998 si seppe che quei rifiuti erano tossici e nocivi. Il problema dei reflui della Sol.Mar. (società che nel 1997 prese il posto della Nuova Solmine) era dunque vecchio e le ceneri – che si erano solidificate, diventando dure come rocce – dovevano essere portate altrove o mantenute in sicurezza. Mi pare di ricordare che l’amministratore delegato, Luigi Mansi, più volte ebbe a dire che aveva contratti con paesi stranieri dove li avrebbe condotti perché fossero impiegati nella produzione di cemento e in tal senso, mi sembra di ricordare, fu definito un accordo.
C’era poi la Tioxide – che per ogni quintale di biossido di titanio produceva nove quintali di reflui, fanghi trasformati in gessi attraverso il processo di neutralizzazione con la marmettola di Massa Carrara (o altro prodotto basico) che se messi a terra si ossidano diventando rossi, invece se lavorati diventano gessi bianchi per l’edilizia – la quale ottenne di poterli impiegare nei ripristini ambientali, sia nella bonifica della cava di Montioni che nei terreni paludosi intorno allo stabilimento. Non va dimenticato che sino a metà anni ’80 il materiale di scarto finiva direttamente in alto mare, vicino alla Corsica. A differenza delle vecchie ceneri di pirite, i gessi dello stabilimento Tioxide, considerati rifiuti speciali non tossici e nocivi, venivano prodotti di continuo e andarono nel tempo a formare le cosiddette collinette di materiale. 
Della Tioxide ricordo che aveva un ottimo amministratore delegato, Luigi Cutrone e che, a fine ’96, i nostri uffici gli dettero l’autorizzazione per aumentare il volume delle collinette di tre metri, dietro l’impegno dell’azienda ad operare per giungere alla chiusura del ciclo di produzione, trasformando i gessi rossi in gessi bianchi per un loro riutilizzo in attività varie determinando, quindi, un loro spostamento dal Padule di Scarlino. Ricordo anche che, pochi mesi prima della conclusione della nostra legislatura, Cutrone venne in Provincia a presentare il progetto per il nuovo impianto di produzione di gessi bianchi, che andava a sostituire quello sperimentale. Undici miliardi di lire e rotti per la realizzazione del nuovo impianto (che sarebbe dovuto sorgere a fine 2000), creando anche una decina di posti di lavoro e che avrebbe permesso di aumentare la produzione di gessi bianchi diminuendo di 50 mila tonnellate annue quella dei gessi rossi (Gessi bianchi, un maxinvestimento, Il Tirreno, 29.05.1999). 
Comunque sia, tutte le problematiche delle miniere e degli stabilimenti – declinate con la locuzione BONIFICHE – erano serissime e noi, da giugno ’95 a maggio ’99, le seguimmo con attenzione anche se la Provincia aveva poche competenze al riguardo, facendo queste prevalentemente capo alla Regione Toscana e all’ARPAT, al Distretto Minerario di Grosseto e ai Comuni, per di più in presenza di alcune incertezze normative.
È probabilmente vero che ogni periodo ha i suoi problemi, ma noi ne trovammo molti, perbacco! 
② La questione delle bonifiche era in una fase molto calda e GLI INTERLOCUTORI ASSAI VARIEGATI. 
• C’erano gli “esasperati” come il Comitato di Boccheggiano che si costituì nell’aprile 1996 con la raccolta di oltre 600 firme degli abitanti dei paesi che gravitavano nell’area dell’ultima miniera aperta, quella di Campiano, nel comune di Montieri. Chiedevano che fosse evitato l’allagamento e la chiusura di quella miniera, la più grande e tecnologicamente avanzata d’Europa, peraltro già avviato dal Distretto Minerario di Grosseto. I comitati, come noto, durano poco. Infatti si dissolse quando nel 1997 si insediò a Boccheggiano la Michelini, industria meccanica piemontese con una storia cinquantennale, che iniziò a produrre manufatti in metallo e alluminio per alcune case automobilistiche (fra le quali Ferrari, Maserati e Fiat) con 16 ex minatori riconvertiti come operai specializzati.
• C’erano gli “sfuggenti” come alcuni responsabili dell’ENI che provavano a ridurre al minimo gli oneri delle bonifiche di loro spettanza. Ciurlando nel manico tentavano anche di vendere a terzi porzioni di territorio interessate dalle indagini dell’Arpat. Le spese di bonifica erano per legge a completo carico del soggetto che aveva provocato l’inquinamento, del proprietario e dell’usufruttuario del fondo ma, se non ricordo male, ci potevano essere anche espedienti per renderle spese inesigibili. Bisognava stare con gli occhi aperti perché se fossero riusciti in operazioni del genere avrebbero aggirato la legge 29 del 1993, ottenendo la dismissione delle concessioni minerarie senza pagare l’onere delle bonifiche, con danni economici e ambientali insopportabili. Per fortuna vi erano anche persone serie che erano pronte ad assumersi gli oneri di competenza.
• Poi c’erano gli “istituzionali” come il Distretto delle Miniere di Grosseto che agiva seguendo le sue logiche di messa in sicurezza, intesa però solo da un punto di vista statico e non secondo le nuove normative sull’inquinamento, non sempre, quindi, condivisibili e l’ARPAT, l’agenzia regionale per la protezione ambientale, che aveva il compito di monitorare ed individuare i siti destinati alla bonifica. Tra questi c’erano anche i Comuni con competenze in fase di transizione, la Comunità Montana (che proponeva la realizzazione di un progetto di valorizzazione del demanio pubblico che includesse anche il patrimonio della Nuova Solmine, proponendo addirittura la creazione di una società mista ENI-Enti Locali); poi la Regione Toscana talvolta solidale con noi, talaltra più recalcitrante, forse risucchiata dal fatto di avere con ENI aperte più d’una partita. A tal riguardo ricordo uno scontro piuttosto acceso con l’assessore regionale Paolo Fontanelli a dicembre 1996 (presenti, a Firenze, Gennai e Pettini), al quale sembrò arrogante la mia rivendicazione circa i diritti della zona nord, in specie riguardo alla questione delle bonifiche che, dicevo, dovevano essere eseguite e pagate dell’ENI (Sviluppo. La Provincia ha puntato sulle Colline Metallifere, La Nazione, 20.12.1996).
La problematica era assai delicata e andava trattata con il giusto equilibrio. Se, infatti, volevamo portare a casa risultati, dovevamo lavorare alacremente ma anche evitare di schiacciarci su tesi precostituite difficilmente dimostrabili. Infatti, ci sforzammo di far comprendere come fosse dannoso adoperare a sostegno di buone ragioni, false o dubbie argomentazioni, perché il rischio era quello di offrire alla controparte (l’ENI) l’occasione per contestare anche i giusti argomenti mentre demoliva, con prove evidenti, tutto ciò che risultava pretestuoso. Ad esempio, ostinarsi a non voler riconoscere che oltre all’inquinamento procurato dall’attività industriale (che non poteva non esserci), risultava comunque evidente una presenza ubiquitaria (così si dice) dell’arsenico in tutta la valle del Pecora, determinata dalla natura geologica stessa dei terreni sedimentati per l’azione di quel fiume, era difficilmente sostenibile. Naturalmente, queste risposte non spettavano alla parte politica, ma a quella tecnica.
Andiamo con ordine.
③ IL NOSTRO IMPEGNO E LE ‘BAROCCIATE’. Per parlare della nostra azione su quel campo, seguita in primo luogo dall’ottimo assessore Daniele Morandi, persona seria e competente, insieme ai nostri capaci funzionari Pettini e Talocchini, faccio una cosa strana. Prendo a riferimento le accuse che il consigliere provinciale, Roberto Barocci, ci ha rivolto a freddo (perché io e Morandi non eravamo più in Provincia) nel 2000 all’interno del suo pamphlet, ArsENIco. Come avvelenare la maremma fino alla catastrofe ambientale (Ed. Stampa Alternativa). Ovviamente parla di molti altri responsabili dello scempio e non solo di noi. Però a me interessa difendere il nostro impegno, magari costellato anche di errori, ma vissuto con dedizione, buona fede, equilibrio, senso di responsabilità.
Premetto che il mio rapporto con il consigliere Roberto Barocci fu altalenante, come lo fu da parte sua e si inquadrò all’interno di una grande parentesi apertasi con la sua astensione e quella del suo gruppo (quindi non con il voto contrario) alla mia introduzione al primo nostro bilancio (Consiglio Provinciale del 21 febbraio 1996) e conclusosi con un aperitivo (insieme agli altri consiglieri) dopo l’ultimo consiglio provinciale (7 aprile 1999) nel quale mi disse grosso modo le seguenti parole: “Sono quasi sempre stato contrario alle cose che avete fatto, ma tu sei una brava persona”. All’interno di questa parentesi svolse la sua azione di opposizione, anche molto forte, nei miei confronti e della mia giunta, nonostante che, paradossalmente, Rifondazione Comunista avesse votato la maggior parte delle nostre deliberazioni consiliari. Non ho i dati di fine legislatura, ma in un articolo del 1996 (Gentili: “Ceccolini. Ritratti oppure si dimetta”, Il Tirreno 6.10.1996), ricordavo come in quell’anno su 41 provvedimenti presentati dalla mia maggioranza e adottati dal Consiglio Provinciale, Rifondazione Comunista aveva votato a favore 38 volte, una si era astenuto e 2 aveva votato contro. E negli anni successivi la cosa non cambiò di molto. Per questo l’ho sempre rispettato e anche apprezzato, quantunque non poche volte ci avesse rivolto accuse infondate e vicino alla calunnia, rapito com’era dall’ideologia ambientalista che aveva parzialmente sostituito a quella comunista-trotskista. La sua feroce opposizione a parole faceva parte della dura dialettica politica. Infatti, quando il sindaco di Scarlino, Alduvinca Meozzi, ritenendo di essere stata calunniata presentò querela, questa venne archiviata dal GIP, perché il sostituto procuratore della repubblica, Vincenzo Pedone, sostenne che Barocci si era limitato “ad esporre i fatti e a trarne conseguenze che, pur sostanziandosi in critiche molto sostenute, non possono in alcun modo assumere rilievo penale” (vedere sia ArsENIco, pag. 30 che il secondo pamphlet di Barocci dal titolo, “Arsenico e scellerati progetti. Cronaca di abusi ed omissioni a danno delle fonti d’acqua potabile”, Stampa Alternativa – Strade Bianche, 2012, pag. 155). Sono anche disposto a riconoscere che, essendo come un cane da tartufi, possa avere annusato qualche corpo fruttifero ipogeo, smascherato alcune ipocrisie, intuito alcune questioni con esattezza.
Però, dico la verità, non mi aspettavo di essere annoverato (insieme a Morandi, Pettini e l’intera Giunta) tra quegli “amministratori pubblici un po’ distratti” e disonesti che hanno contribuito ad “avvelenare la Maremma sino alla catastrofe ambientale”, o che addirittura “consapevoli del loro ruolo di comparse, preferiscono sorvolare sulle decisioni importanti che riguardano le risorse strategiche, dalla salute alle risorse idriche, al lavoro, alla qualità dell’ambiente, in cambio di qualche piccolo privilegio di carriera politica o di qualche concessione alla propria vanità” (ArsENIco, pag. 3).
Chi ha letto il suo pamphlet del 2000 senza conoscere quella storia realmente e da vicino può rimanere turbato. Vi sono contenute affermazioni che danzano tra verità largamente condivise e fantasie utilizzate per rafforzare le ragioni di uno scontro che pretende di opporre alla propria parte un nemico che sia, possibilmente, grande, grosso e prepotente: David contro Golia. I toni sono romantici: un popolo in marcia per contrastare i soprusi dei cattivi che utilizzano servi sciocchi e mariuoli per impedire il trionfo della verità e della legalità. Una fesseria. La sua teoria è che il potere economico dell’ENI abbia comprato tutti: politici, amministratori regionali, provinciali, comunali, responsabili di uffici pubblici e perfino parte della magistratura, salvo i pochissimi che la pensavano come lui o dei quali verificava personalmente la correttezza del loro operato. Manco fosse il padreterno. Mi fa ancora oggi venire in mente un brano della canzone di De André, ‘Un giudice’, ispirata all’ Antologia di Spoon River: “Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami, diventai procuratore per imboccar la strada che dalle panche d’una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d’un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male”.
Naturalmente, la sua teoria è una stupidaggine, generata da una mente complottista e ideologizzata. Ciò non toglie che qualche prezzolato o soggetto attento alla propria carriera politica o professionale possa esservi stato, ma di queste cose si parla solo se si è in grado di dire con precisione chi è stato, quali sono le prove e quali vantaggi ne ha tratto. Non parlo naturalmente delle interrogazioni, interpellanze, mozioni fatte in consiglio provinciale, del suo sposare le cause di comitati a destra e a manca, del suo sostenere la presenza di inquinamento nelle falde acquifere e la tossicità delle ceneri di pirite e via dicendo. No, no. Tutto legittimo, anzi un utile stimolo per tutti. Parlo della teoria prima citata, perché deve dire con precisione certosina chi non ha svolto il proprio dovere istituzionale “in cambio di qualche piccolo privilegio di carriera politica o di qualche concessione alla propria vanità”. Altrimenti è un parolaio. Per quanto riguarda me e Morandi, sa dirmi il parolaio, quale è stato il privilegio di carriera politica o di vanità di cui ci saremmo avvantaggiati? E questo vale anche per i funzionari della Provincia.
Barocci, tecnicamente lo considero un irresponsabile. Non nel senso che normalmente si intende, ma per dire che non ha mai ricoperto ruoli di responsabilità politico-istituzionale. È sempre rimasto fuori (o ce l’hanno tenuto i suoi) per poter sparare a pallettoni contro tutti. O meglio, non proprio contro tutti. Certo, con noi era all’opposizione, ma perché il suo partito – che nel 1999 pretese la mia defenestrazione, mise veti su una riproposizione di Daniele Morandi e credo anche su Sammuri (trovando, sia chiaro, praterie aperte negli altri soggetti seduti al tavolo della trattativa politica) – non impose lui per fare l’assessore nella giunta Scheggi? Perché? Così, dalla stanza dei bottoni dove si potevano decidere i destini del mondo, come un redivivo Mago Zurlì, avrebbe potuto con un colpo di bacchetta magica sistemare tutto e subito. In realtà lo ritengo irresponsabile anche per un altro motivo: pretendeva che i nostri uffici facessero cose che non erano di loro competenza (con ciò abusando del loro ufficio), e che non dessero autorizzazioni amministrative quando non potevano far altro che darle, vista la correttezza formale e tecnica delle proposte avanzate, nel rispetto delle leggi nazionali e regionali, degli atti presentati dai soggetti interessati, che avrebbero potuto intentare nei riguardi dei nostri dirigenti azioni di risarcimento milionarie in sede civile. Già, il sederino non era il suo.
Prima di entrare nel merito delle questioni sollevate (che affronterò nel prossimo post), preciso che non ho nulla di personale con Roberto Barocci e che, nelle mie critiche alle sue critiche, mi riferisco esclusivamente al periodo maggio 1995-maggio 1999 e con riferimento alle cose che ha detto sulle bonifiche e via dicendo come consigliere provinciale. Non prima, né dopo. Anche se il suo ArsENIco è del 2000.


Se ripenso a quelle accuse, sentenziate a freddo, ancora oggi mi prendono conati di vomito.












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