sabato 4 dicembre 2021

POST 36 – TRA UNA DESTRA IN ASCESA E UNA SINISTRA DIVISA, IL PDS SCEGLIE STEFANO GENTILI

La destra poteva vincere le elezioni per la Provincia e si presentava unita dietro un candidato di grande spessore, Giovanni Tamburro. Ciani, fatto fuori, si candidava autonomamente. Rifondazione, sempre più in forma, presentava il grintoso Roberto Barocci. Il Pds e il tavolo provinciale, a sorpresa, proposero la mia candidatura. I miei primi passi e la prima battaglia interna ed esterna.

Le elezioni provinciali del 23 aprile 1995 si collocarono dunque nello scenario politico ricordato. La provincia di Grosseto non solo era diventata la meno rossa della Toscana, ma anche l’elettorato era sempre più orientato a valutare le candidature che si mettevano in campo. C’era soprattutto una sfrenata voglia di cambiamento rispetto a ciò che era sempre stato.

I rapporti politici del passato erano poi saltati quasi tutti: socialisti e comunisti non si potevano più sopportare, sia per questioni nazionali che per quelle locali (specie dopo le elezioni comunali di Grosseto del 1993, ma anche in altri comuni della provincia). Il PDS aveva rotto in modo irrevocabile con gli ex-compagni di Rifondazione Comunista. Vecchi accordi si scomponevano e nuove alleanze andavano costruendosi: la maggior parte degli elettori democristiani e socialisti erano direttamente confluiti in Forza Italia e in Alleanza Nazionale; il PDS era attraente (e attratto) per (e da) alcuni tradizionali amici (Pri e Verdi), le nuove formazioni nate negli ultimi anni (Patto Segni, Alleanza Democratica) e lo stesso PPI.

Tangentopoli aveva raggiunto il suo apice e la questione morale era diventata l’elemento discriminante di parte delle stesse alleanze. La critica alla partitocrazia era al culmine.

La legge Ciaffi del 1993, infine – come recentemente ricordato dal prof. Roberto D’Alimonte – aveva introdotto nei comuni e nelle province un modello di governo originale (già sperimento per il comune di Grosseto). Il Presidente della Provincia (come il Sindaco) era direttamente eletto dai cittadini in uno o due turni. Grazie a un sistema elettorale con premio, aveva in consiglio una maggioranza garantita, ma poteva essere sfiduciato con contestuale scioglimento del consiglio ed elezioni anticipate.

Trovare qualcuno al di fuori dei giochi di palazzo, non iscritto ad alcun partito, proveniente dalla cosiddetta società civile e magari dal mondo cattolico (in alcune sue componenti piuttosto effervescente), che in qualche modo fosse riconoscibile per la questione morale, poteva essere la giusta opzione.

Non ero l’unico a corrispondere a quella biografia, per cui non so dire perché la scelta cadde su di me. Forse altri non se la sentirono di accettare. O forse perché avevo raggiunto una certa notorietà politica per le battaglie congressuali (perse) nella Dc dalla quale ero poi uscito senza iscrivermi al PPI, che pure avevo votato nel 1994. Sulla questione morale ero almeno noto al mondo politico per avere, in un altro ruolo, invitato a Pitigliano nel 1990 il sindaco anti-mafia Leoluca Orlando e sul fronte delle alleanze per aver teorizzato, sempre dallo stesso anno, l’opportunità di un nuovo rapporto tra la tradizione cattolico democratica e quella comunista.

Ciò che mi appare certo è che la mia candidatura nacque in sede PDS, dopo che – per dirla con l’articolista de La Nazione del 22 marzo 1995 – quella di Ciani era stata considerata “una candidatura non unitaria così come non unitarie erano anche altre: Schiano, Matrisciano, Bastianini, troppo popolari per guidare lo schieramento progressista, o quella del segretario della Uil Walter Lunardi, mentre il Pds non avrebbe nemmeno pronunciato il nome che molti si aspettavano, quello di Maurizio Chielli”. Ma non saprei dire chi consigliò l’allora segretario provinciale Palmiero Ferretti.

Piuttosto incoscientemente accettai la proposta e mi trovai subito nel campo di battaglia. Battaglia interna ed esterna.

La prima, quella interna, per far comprendere che bisognava offrire segni reali di discontinuità con il passato: non per rinnegarlo del tutto, ma perché era crollato il mondo e prevalentemente erano rimaste macerie. Non pochi dei miei interlocutori, con i gomiti appoggiati sul lungo tavolo di via Ximenes a Grosseto, sbiancarono quando dissi che avrei accettato di correre solo se avessi potuto scegliere in modo sufficientemente libero i collaboratori di Giunta. Proposi le rose e la cosa dopo non pochi mugugni passò: magari pensando che i petali messi in prima fila sarebbero stati, solo per questo, da me scelti.

In verità, le indicazioni erano ancora più stringenti e le ho ritrovate su un foglio del mio schedario. Le mie proposte furono le seguenti:  volevo  poter scegliere assessori tendenzialmente non segretari di partito o leader di movimenti politici, con un alto grado di competenza e professionalità specifica, che non fossero iscritti alla massoneria, che fossero esperti e nuovi nello stesso tempo; inoltre, che si potesse garantire rappresentanza territoriale alla provincia, che vi fosse almeno una donna, che si escludessero coloro che, messi in lista, non venivano eletti e che avessero relazioni personali, di azienda o di altro con l’ente provincia.

Il secondo campo di battaglia era esterno.

Intanto, perché la nostra vittoria non era per nulla scontata. Io ero un candidato debole e gli sfidanti erano di tutto riguardo. Il centrodestra presentava un candidato che quanto a conoscenza del tessuto provinciale e dei meandri della burocrazia era cento passi più avanti di me: Giovanni Tamburro, direttore dell’Associazione Industriali di Grosseto, che specie nel capoluogo, ma non solo, era conosciutissimo (e la cosa, dico la verità, mi intimorì assai). Il nuovo centro-sinistra stava solo allora sperimentando lo stare insieme e nonostante la nostra lista ante-Ulivo dei Democratici Insieme (che includeva PDS, Patto Segni, PRI, Popolari, Lega Nord, Testimonianza per la Città, Verdi, Socialisti Italiani, Alleanza democratica), si presentava alquanto frastagliato. Rifondazione Comunista aveva deciso o era stata costretta a decidere di andare per conto proprio e presentava un candidato assi grintoso, Roberto Barocci. I Laburisti di Ciani presentavano Lamberto Ciani, perché Ciani non era stato candidato per il dopo-Ciani (era infatti il Presidente uscente): sgradito ospite in quel caso, con tutte le relazioni che era riuscito a costruire durante il suo mandato. C’era poi una lista Pannella capeggiata dall’estroso Antonio Schiaretti, e un’altra guidata da Giancarlo Galli per il Mat (Movimento Autonomista Toscano).

L’ostacolo più duro in realtà era rappresentato da Giovanni Tamburro e lo schieramento di destra. Come sosteneva Fernando Marioni su L’Alcione n. 7 del 31 marzo 1995, “la coalizione delle destre è compatta come non si era mai visto, l’uomo è quello giusto, una persona di grande prestigio, gli avversari sono divisi, l’ultima consultazione provinciale (europee del 1994) è stata favorevole alle destre. Ci sono tutti i presupposti perché si verifichi, dopo 50 anni di storia democratica, il cambio della guardia alla Provincia di Grosseto”. Per questo si affidava “alla maturità politica dei cittadini elettori. Ci sembra impossibile infatti che i maremmani non si siano stancati delle solite facce e che non abbiano il desiderio di qualcosa di nuovo”.

Chi erano le forze che sostenevano Giovanni Tamburro? Lo ricordava sempre Marioni: “Tamburro è portato da Forza Italia, Alleanza nazionale, Centro Cristiano Democratico (segretario Andrei), Popolari di Buttiglione, So.L.E. (ex Psdi e liberali), Leghisti (di Negri, anche se è difficile specificare), oltre al neonato ma vitale Nuovo Millennio, il circolo politico-culturale fondato da Riccardo Paolini”. La lista aveva un nome, Vivi e un simbolo, il gabbiano sul profilo della Provincia.

Continuava il Marioni definendo Tamburro “la persona giusta al posto giusto”. Infatti, “l’incarico di direttore degli industriali maremmani, unitamente all’impegno e direi anche alla passione con cui lo ha svolto e continua a svolgerlo, gli hanno consentito di acquisire una esperienza e una conoscenza della situazione economica e politica, oltre che dei problemi sociali della nostra Provincia che difficilmente si potrebbe riscontrare in un’altra persona”.

Al di là di una discreta dose di propaganda, specie nella terza parte dell’intervento, relativo ad alcune delle “sue idee sullo sviluppo della Maremma”, infarcite di luoghi comuni e senza nulla di realmente decisivo per il decollo della nostra terra, il Marioni diceva giustamente due cose: il vento elettorale poteva condurre la destra alla vittoria e Giovanni Tamburro era un ottimo candidato.

Dinanzi a tanta potenza c’ero io che, sempre il 22 marzo 1995, questa volta su Il Tirreno, ero così presentato: “Stefano Gentili, 37 anni, pitiglianese, laureato in scienze politiche, è professore di religione all’Itc di Pitigliano. Indipendente cattolico, il neo candidato è stato in passato iscritto alla Democrazia cristiana. È consigliere comunale uscente di Pitigliano, per 9 anni ha ricoperto la carica di presidente dell’Azione Cattolica di Pitigliano e Sovana”.

Lo scontro sembrava impari: il forte direttore degli industriali di Grosseto contro il giovane insegnante di religione di Pitigliano. La destra unita e in forte ascesa contro una sinistra frastagliata e in grave difficoltà. Chi avrebbe vinto? Gli inglesi, che scommettono su tutto, non avrebbero avuto dubbi.









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