lunedì 13 dicembre 2021

POST 46 – LA NOMINA DELLA GIUNTA PROVINCIALE

Una delle prime scelte cui dovetti dedicarmi fu la nomina di quattro assessori. Scelsi quattro scoiattoli: Giampiero Sammuri, Mariella Gennai, Renato De Carlo, Alessandro Pacciani. Come mi comportai

I punti cardinali della mia bussola furono rispetto e competenze.

Rispetto, innanzi tutto, dei cittadini che mi avevano eletto e ai quali dovevo presentare una giunta di qualità. Poi dell’impegno preso con le forze politiche che mi avevano sostenuto. Questo contemplava che due assessori fossero di espressione PDS, uno PRI e uno Patto Segni. Prevedeva, inoltre, la presentazione al presidente di candidature plurime, all’interno delle quali potessi scegliere liberamente. Avevo, a suo tempo, anche parlato della necessità di caratterizzare la giunta da una totale discontinuità rispetto al passato e di evitare di presentarmi persone che stessero svolgendo ruoli politici provinciali di primo piano nelle rispettive aggregazioni partitiche. Ricordo che era il 1995, e la repulsione dei cittadini verso tutte le forze politiche che fino ad allora erano state sulla scena, anzi verso la stessa forma partito, aveva superato grandemente la linea di guardia.

Cosa poi volessero dire le competenze è di tutta evidenza. Aggiungerei solo che le competenze dei singoli dovevano essere adeguate alle aree di competenza della provincia. Insomma, l’ingegnere-astronauta Samantha Cristoforetti sarebbe stata sicuramente competente, ma non a svolgere i compiti che la provincia doveva assolvere anche se, in qualche caso, mi sarebbe servita per togliermi dal quotidiano e accompagnarmi nello spazio. Esigenza che si era in me ancor più rafforzata, dopo la presa d’atto dettagliata dei compiti e dei gravi problemi che la Provincia aveva dinnanzi. Dopo tutto, pensavo con i teorici di Spencer & Spencer che “è possibile insegnare ad un tacchino ad arrampicarsi su un albero, ma è meglio assumere uno scoiattolo”. Ed io 4 scoiattoli cercai.

A distanza di 20 anni posso dire come andò.

Partiamo dai candidati di area PDS. Dialogai molto (e soltanto) con il segretario di quel partito, Palmiero Ferretti, al quale ribadii tutti i miei punti di vista, che lui già conosceva: nessuna figura troppo politica, nessuna persona che avesse già svolto ruoli di rilievo provinciali, persone giovani, volitive e soprattutto competenti. Una delle due doveva essere donna. Lui più volte mi ebbe a dire: “tranquillo, Stefano, che ti faccio due proposte che ti piaceranno molto”. Preciso, disse tranquillo, non sereno. Non escludo che, anche per questioni interne al suo partito, le mie posizioni gli fossero funzionali a promuovere alcuni e bocciare altri. Ma la cosa non mi riguardava. Dopo diversi incontri mi propose Giampiero Sammuri e Mariella Gennai. Feci delle verifiche e rimasi soddisfatto di quelle proposte. Quindi, tecnicamente non vi fu la presentazione di una rosa di candidati, come volle sostenere l’apparentemente informato Luciano Salvatore su La Nazione del 21 maggio (“l’astuzia del Pds: quattro nomi ma in realtà due solo per fare numero”), ma dopo 5-6 incontri di vagliatura, emersero 2 candidature secche.

Quanto al candidato di area PRI, la cosa fu più rapida. Il segretario Giampiero Pieraccini entrò una mattina nella mia stanza e mi passò un foglio con i nomi proposti dal partito repubblicano. Mi disse: “queste sono le nostre indicazioni, fai tu” e mi salutò. Lessi il testo, vi erano indicati 5 nomi e un nome era sottolineato (questa volta il buon Salvatore aveva azzeccato il numero, ma toppato sul “però senza preferenze”). Verificai i profili e le competenze di ciascun candidato. E, dopo accurata riflessione, scelsi Renato De Carlo. Non era il sottolineato, ma le sue competenze erano di tutto rispetto e funzionali all’organizzazione delle deleghe provinciali che avevo in mente.

Quanto al membro della giunta che doveva esprimere il PATTO

SEGNI, la cosa si complicò immediatamente. Mi fu presentato un solo nome, quello di Roberto Valente. Non avevo nulla da eccepire sulla sua persona, ma non mi potevano mettere dinanzi ad una sola proposta, quando avevamo parlato di rose; poi un geometra non era quello che andavo cercando. Nelle caselle delle deleghe, oltre quelle che avevo già in mente di assegnare a Sammuri, Gennai e De Carlo, mi rimaneva scoperto tutto il fronte economico e agricolo. Cosa potevo farci con un geometra. Più volte invitai colui che faceva da tramite con me per quel movimento ad avanzare proposte diverse e che fossero in grado di assolvere al ruolo che avevo in mente. Ma non ci fu verso. Ebbi molta pazienza, e fu questo il motivo del ritardo di 4-5 giorni sulla tabella di marcia che mi ero proposto.

Però, c’era un però. Se i pattisti non mi portavano nomi convincenti, come mi sarei potuto comportare, come individuare una figura all’altezza delle mie aspettative? Era un bel rovello.

La cosa mi preoccupava molto e occupava costantemente i miei pensieri, mentre intanto dovevo seguire le cose ordinarie della Provincia. Poi, non so come avvenne, ebbi quasi un’illuminazione. Mi tornò alla mente una persona che avevo incrociato in un ristorante insieme ad un gruppo di suoi amici della Coldiretti, un professore universitario, esperto di questioni agricole. Provai a fare delle verifiche: si chiamava Alessandro Pacciani. “Pacciani”!!! “Sarà mica parente del mostro di Firenze?”, scherzai con un amico. Poi verificai le sue competenze: di altissimo livello e soprattutto adeguate alle materie da coprire per il bene della provincia. Intesa come ente e come territorio. Professore ordinario di economia politica agraria alla Facoltà di Economia di Firenze e direttore dell’osservatorio dell’economia agraria della Toscana.

Non ci pensai molto. Lo contattai. Era disponile. Mi disse che era particolarmente legato al nostro territorio e lo conosceva a fondo, specie sul fronte agricolo, sin dai tempi della sua giovinezza. Ottimo. Era la persona che cercavo. Non gli chiesi la sua appartenenza politica, né le esperienze politiche che aveva vissuto. Appresi solo dopo, dalla stampa, che l’anno precedente era stato candidato dal Patto per l’Italia nel collegio senatoriale 14. E probabilmente era iscritto al PPI. Cose che non mi interessavano, anche perché se fossero state le ragioni della mia scelta, avrei tradito il patto con gli alleati. Ma lo scelsi unicamente per le sue competenze tecniche, specie sul fronte agricolo, che mi preoccupava moltissimo.

Sciolsi la riserva e convocai, uno o due giorni dopo, la conferenza stampa di presentazione della giunta provinciale.

Nel frattempo dovetti registrare qualche mugugno, in casa PDS, sulla scelta di De Carlo. Credo dipendesse da alcuni amiatini, che lo avevano conosciuto come esageratamente rigido nel ruolo di amministratore straordinario dell’USL 32 (e forse da qualche repubblicano che si era recato a lamentarsi in casa Pds). Motivo del mugugno che riuscì solo a confermarmi la bontà della scelta. E annotai molte sorprese per la scelta di Pacciani. Meglio.

La conferenza del 20 maggio, 11 giorni dopo l’elezione, fu presentata dalla stampa, il 21, nel modo seguente: “Ecco gli assessori provinciali. Non ci sono grossetani. Il Patto grande escluso” (Il Tirreno) e “Gentili non si piega. Fuori i pattisti, preferito il tecnico del PPI Pacciani” (La Nazione).

Luciano Salvatore ebbe a dire che non mi ero spiegato e parlò di una “reticenza-stampa”, per non avergli risposto chiaramente che “chi non aveva compreso lo sforzo di usare un metodo innovativo” erano stati i pattisti, ma anche alcune frange del Pds e qualche repubblicano. Ma dovette anche riconoscere che non mi ero neppure piegato, lodando appunto “il coraggio dimostrato nel non piegarsi ai pattisti che avevano indicato il loro coordinatore Roberto Valente come candidato unico”.

Naturalmente il coordinatore del Patto andò su tutte le furie, affermando anche cose non vere e, soprattutto, dicendo che “il Patto non appoggerà questo presidente”. Nonostante scorribande sui giornali anche nei giorni successivi, il non appoggio fu un nulla di fatto, perché l’unico pattista (per così dire) in consiglio provinciale, Giampiero Pacchiarotti, dichiarò pubblicamente il suo pieno appoggio a me e alla giunta e votò tranquillamente la fiducia nel primo consiglio provinciale. Certo, la cosa gli rimase legata al dito e la avrebbe fatta valere più avanti. Sarà, infatti, nel 1999 al tavolo di quelli che decideranno la mia defenestrazione.

Le reazioni alle mie scelte furono, ovviamente, variegate. Alcune furono espresse in modo riservato (direttamente a me o indirettamente) e altre furono pubbliche. Tra queste ho recuperato quella di un partito e di una associazione.

Il Partito popolare di Buttiglione, che aveva appoggiato Tamburro, criticò il metodo e le scelte che avevo usato e sostenne una cosa che non stava in cielo né in terra. Secondo loro, con la scelta del professor Alessandro Pacciani, residente a Sesto Fiorentino, avrei “ribadito la sudditanza economica, politica e culturale verso Firenze, esattamente come le amministrazioni precedenti”. Come a dire che il professore mi era stato imposto da qualche potente fiorentino. Una corbelleria.

Di parere opposto erano le ACLI, il cui presidente Luciano Migliorini volle esprimere apprezzamento per la mia persona proprio “per aver difeso la sua autonomia istituzionale nel designare i propri collaboratori, evitando la vecchia regola dell’interdizione e della convenienza”. Nell’accettare con favore “l’affermazione di questo nuovo metodo”, mi stimolava ad affrontare i gravi problemi della provincia, perché la Acli “giudicheranno le capacità operative della nuova giunta provinciale, in base ai segnali di novità che saprà dare alla società civile”, considerando come prioritarie le azioni “in favore del mondo del lavoro e del settore imprenditoriale”.

Paradossalmente l’elogio di Migliorini fu più pungente dei giudizi negativi dei popolari di destra, di Valente e di altri. Pungente perché mi ricordava, qualora ne avessi bisogno, che la sfida da vincere era quella dei progetti da mettere in campo per affrontare le urgenze provinciali.

Il fatto che non vi fossero grossetani fu in parte una casualità e in parte una mia scelta. Volevo segnalare la centralità delle periferie e, detto tra noi, mi fidavo poco del trasversalismo, loggesco e no, di alcuni di loro.

Proprio pensando a tutto quello che avremmo dovuto affrontare, ripartii le deleghe legandole esclusivamente alle competenze dei 4 nuovi scoiattoli. Non parlai con nessuno, né contattai alcun partito per l’assegnazione degli incarichi. E ricordo bene anche la velocità con la quale esaurimmo la questione: seduti sul divanetto e le due poltrone della sala di Giunta, comunicai la proposta e nessuno ebbe qualcosa da eccepire. Quindici minuti e le deleghe furono assegnate. Non so come erano abituati in precedenza e in quali luoghi si decidevano queste cose. Con me si fece così.

 

A Giampiero Sammuri, oltre la vicepresidenza, per le sue competenze (laureato in scienze biologiche e dirigente delle risorse ambientali e faunistiche della provincia di Siena), potei affidare l’assetto del territorio (ambiente e territorio, bonifica, vincolo idrogeologico, caccia e pesca) e l’innovazione organizzativa (personale, sistemi informatici e telematici).

Ad Alessandro Pacciani, per le sue competenze (già dette in precedenza), affidai le attività economiche e produttive che comprendevano lo sviluppo economico, l’agricoltura, le attività produttive e il turismo.

A Renato De Carlo, per le sue competenze (laureato in economia e commercio con corsi di specializzazione in Libano e in USA, già dirigente di industria ed ex amministratore straordinario della Usl amiatina), detti la programmazione e la gestione delle risorse economiche (bilancio, finanze, patrimonio), i lavori pubblici (viabilità, edilizia, idraulica) e i trasporti.

A Mariella Gennai (che diventerà la “mia cara Mariella” e che facevo arrabbiare quando le dicevo di essere “la migliore donna della mia giunta”) per le sue competenze (laureata in pedagogia con corso superiore di museologia, educatrice nei centri specializzati per l’adolescenza e presidente della Biblioteca comunale di Massa Marittima) potei affidare la formazione e la qualità della vita (cultura, pubblica istruzione, politiche sociali, formazione professionale, osservatorio sul mondo del lavoro, sport, pari opportunità).

Poi c’ero io che – oltre ad avere lo sguardo su tutto – mi ero lasciato la programmazione economica e le politiche comunitarie, i rapporti istituzionali, i servizi agli enti locali, la comunicazione, i servizi al cittadino.

Ma quale erano le competenze del professorino di religione? Non ero architetto, né avvocato, né commercialista, anche se ero diplomato in ragioneria e avrei potuto insegnare diritto ed economia.

Ero laureato in scienze politiche e quella facoltà abilitava ad avere “la conoscenza del funzionamento delle organizzazioni pubbliche, private e del territorio nelle sue componenti storiche, sociali, istituzionali ed economiche”. Conoscenze che si coniugavano con “lo sviluppo di abilità che riguardano la programmazione e l’attivazione di politiche pubbliche, la capacità di operare nelle amministrazioni pubbliche e private e nelle organizzazioni no profit, l’utilizzazione di metodi e tecniche della ricerca sociale, la capacità di gestire, organizzare, analizzare e comunicare dati, la capacità di individuare soluzioni a problemi sociali e istituzionali con approccio interdisciplinare” (questo diceva il dépliant universitario che mi invogliò a quella scelta).

Forse erano proprio adatte al ruolo di presidente, che deve appunto operare in una pubblica amministrazione mettendo a fuoco politiche pubbliche generali, analizzare la realtà, individuare soluzioni a problemi sociali e istituzionali e porre in atto politiche concrete, tenendo conto dei contributi provenienti dalle diverse competenze e discipline.

Esperienzialmente portavo nel mio bagaglio la presidenza di organizzazioni sociali come l’azione cattolica, la croce rossa, un ufficio di curia, un centro studi. Potevano apparire episodi modesti, ma non era così. Anzi, mi avevano insegnato la capacità di mettere insieme i diversi, organizzarli secondo una o più linee strategiche. Soprattutto avevo compreso che, per raggiungere risultati importanti, era sempre opportuno contornarmi di persone più brave di me e che, se chiamato a presiederle, dovevo valorizzarle al massimo. Senza temere che mi facessero ombra.

E i miei assessori, nelle loro rispettive materie, erano più bravi di me.

Io dovevo organizzarli armonicamente, offrendo a ciascuno il proprio spazio, e dirigerli lungo percorsi discussi e condivisi, esercitando le soft skills (competenze morbide), consistenti nell’avere una visione sistemica, pianificare, organizzare e gestire il tempo e le priorità, prendere decisioni, avere capacità di leadership, gestire, motivare i collaboratori e orientarli al risultato.

Naturalmente sulle questioni di fondo, mi riservavo l’ultima parola. Dopo tutto, l’eletto dal popolo ero io.

(la foto che segue comprende anche gli altri due assessori, Moreno Canuti e Daniele Morandi, che nominai in un secondo momento) 

                                        








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