Il 5 settembre 2013 è morto padre Vincenzo D’Ascenzi. Dal giorno successivo riposa in pace nella sua Valentano.
Mentre partecipavo al suo funerale ripensavo alla
sua persona, ai vari incontri avuti con lui, all’affetto durato nel tempo tra
me, Rossella e lui che, di tanto in tanto, si concretizzava in e-mail,
telefonate e qualche fugace incontro: l’ultimo all’Isola del Giglio prima del
tremendo incidente, dal quale è poi riuscito solo parzialmente a riprendersi.
Altrimenti avrebbe superato di gran lunga gli 85 anni.
Che bella persona è stato. Che bel prete.
Nel ripercorrerne alcuni tratti, mi sono reso conto
ancor di più dell’attualità di alcune sue intuizioni. Dello spirito di
animazione e creatività proprio della sua natura. Del suo essere un leader.
E del suo posizionarsi sempre in avanscoperta, sulla
linea del fronte, come un autentico gesuita.
→ Tra le
sue svariate pubblicazioni ce n’è una (del 1998) che nel titolo lo rappresenta
meglio: “Vincenzo D’Ascenzi. Un prete, un
uomo" (tutti i virgolettati del mio ricordo sono presi da
lì). Consiglio di leggerlo o rileggerlo per chi lo ha già fatto.
Specialmente ai sacerdoti.
Se ripenso al gesuita Padre Vincenzo, ricordo
appunto il prete e ricordo l’uomo. Proprio su questi due tratti egli si
sofferma nella premessa del libro, parlando della curiosità della gente sulla
vita del prete. “C’è chi lo vuole vedere
sulla vetrina dell’altare del Signore e c’è chi lo vuol vedere uomo fra gli
uomini, in piazza, senza tonaca e mescolato alla vita comune a tutti. Chi
radicalizza queste aspettative, secondo me, sbaglia perché dimezza la
dimensione propria di un prete che è portavoce di Dio e, nello stesso tempo,
portavoce dell’uomo, con tutti i problemi che gli uomini e le donne portano con
sé.”
E’ possibile realizzare questa duplice dimensione
nell’esistenza di un prete – si domandava?
“Questa
è stata la grande scommessa della mia vocazione di sacerdote e gesuita della
Compagnia di Gesù. Dico la verità, io mi sento pienamente uomo e…spero, con
l’aiuto di Dio, veramente prete”.
→ Padre
Vincenzo INCROCIÒ LA NOSTRA DIOCESI IL 20 SETTEMBRE 1980, quando, a bordo di
una 750 lasciò Ferrara e si diresse ad Orbetello, inviatovi dai suoi superiori,
dove tra l’altro era vescovo il fratello Giovanni.
Vi si trattenne fino al 1 luglio 1983 quando, sempre
i suoi superiori, lo destinarono alla parrocchia dell’Addolorata di Grosseto.
Il mio primo ricordo risale ai primi mesi del 1981,
allorché eravamo fortemente impegnati nella battaglia referendaria per
l’abolizione della legge sull’aborto.
E precisamente, ad un dibattito al teatro Salvini di
Pitigliano a rappresentare la parte nostra, quella di chi voleva la vita del
feto-bambino difesa ad ogni costo e rammento che rappresentò le ragioni della
vita in modo asciutto, argomentato, chiaro e scientificamente ineccepibile. Non
era facile in un periodo nel quale la foga social-comunista e radical-femminista
facevano la voce grossa, dopo la vittoria sul divorzio e l’ascesa elettorale.
→ Ma lui
c’era abituato essendo stato per 16 anni a Ferrara, regione rossa a tutto
tondo, occupandosi della questione operaia e marxista, partecipando a dibattiti
con pezzi da novanta come Lucio Lombardo Radice, matematico, pedagogista e
dirigente comunista e Aldo Tortorella, responsabile delle politiche per la
cultura della segretaria nazionale del PCI.
E vivendo a stretto contatto con quella cultura, che
tutto inglobava, controllava e di tutto si occupava, ‘dalla culla alla tomba’,
come si diceva.
Li avviò un lavoro veramente pionieristico, quasi di
frontiera: L’APERTURA DI UN DIALOGO CON IL MONDO DELLE SINISTRE, “un dialogo culturale, non partitico”,
ma che contribuirà all’apertura di un nuovo dibattito (eravamo in quella fase
nazionale che culminerà nel compromesso storico). Lavoro che lo vide spesso in
prima linea e da solo, e gli creò non poche critiche da parte di chi non
condivideva la sua scelta di lasciare, comunque, aperto uno spiraglio, per
avviare un dialogo con quel mondo.
Ciò non gli impediva di criticare fortemente il
materialismo dialettico marxista, che per lui non si poteva conciliare con la
fede cristiana, e di avanzare anche vere e proprie accuse, come quella che egli
rivolgeva ai comunisti,”di tradire le
attese del popolo poiché esso non era a favore di una legge sull’aborto ma fu
spinto verso questa scelta da una ragione di opportunismo politico per
aumentare il blocco compatto della sinistra e del fronte laico, per indebolire
la Democrazia Cristiana”.
Più flessibile era sul materialismo storico “non come unica spiegazione della dinamica
della storia, ma come componente da considerare”.
Soprattutto in Chiesa, durante le omelie, non si metteva mai
ad usare parole dure e polemiche contro i comunisti (a differenza della
stragrande maggioranza dei parroci di allora), perché quei pochi comunisti-cattolici
che avevano il coraggio di superare il sagrato, non vi avrebbero più fatto
capolino.
La sua preoccupazione, infatti, oltre ad essere
culturale, era pastorale. Diceva: “Questo
fronte della mediazione tra la fede e il costume, fra la cultura e le abitudini
e i modi di pensare della gente è una mia costante preoccupazione. Sono
convinto che i ‘lontani’ vadano avvicinati con umanità, senza giudicarli, senza
spirito di condanna”.
Ma sempre avendo lo zaino carico “di preparazione culturale e di sicurezza
della propria identità”.
→ Insomma
in quel 1981 di fuoco la sua persona competente a ricca di esperienza ci fu di
grande aiuto in quella battaglia di civiltà.
Poi lo incroceremo molte altre volte in piccole e
grandi iniziative diocesane. La sua attenzione al mondo giovanile (sul quale
aveva terminato di scrivere un libro proprio in quagli anni: “La questione giovanile negli anni 1968-1978”) ed alla dimensione
sociale fu molto preziosa anche per noi. Ma, come solito, poco capita e
valorizzata.
→ In
diocesi FU DESTINATO AD ORBETELLO, dove ha insegnato religione al classico ed
ha favorito l’apertura del centro culturale Tre Fontane presso il palazzo
abbaziale dotandolo di una biblioteca. Il centro promuoveva incontri culturali,
iniziative sociali, come doposcuola, e animazione teatrale. Ha avviato la
fondazione della parrocchia nella periferia di Neghelli mentre con il titolo di
‘facente funzione di parroco’ celebrava in un prefabbricato e successivamente
in una scuola.
Durante quei tre anni viveva per cinque giorni alla
settimana al Palazzo Abbaziale e due giorni doveva recarsi nella comunità dei
Gesuiti di Grosseto o di Follonica.
Tre anni di permanenza nella diocesi che Padre
Vincenzo ricorda (nel suo libro) come periodo di sicuro arricchimento, specie
su due fronti: “quello di collaborare coi
preti diocesani e quello di avere avuto come vescovo un fratello di sangue” (Giovanni
D’Ascenzi).
Riguardo ai preti diocesani dice, nel libro autobiografico,
di aver potuto conoscere meglio la loro vita, “le loro difficoltà, il loro isolamento, il loro spirito di sacrifico,
ma anche, a volte, la loro inerzia, dovuta anche alla vita di tutti i giorni,
con scarsità di stimoli. La loro solitudine, dovuta anche ad ambienti
diffidenti, politicamente e culturalmente, in paesini isolati, dove fuori del
bar o dell’osteria – in sui si discute di sport e di caccia – ben poco si
trova. Ho conosciuto anche dei preti generosi, dinamici, che, nel loro piccolo
paese, rappresentavano tutto per la gente”.
La collaborazione ravvicinata con il fratello gli ha
fatto comprendere, fra l’altro, “la
fatica dei vescovi nel governare una diocesi, nel dover lavorare ‘con i buoi
che sono in stalla’, come suol dirsi; ha potuto “vedere da vicino come si lavora e come si può operare realizzando
progetti pastorali diocesani per sviluppare quella unione e quella concordia
che non sono così facili da realizzare anche fra il clero”.
Si sente tutta l’ansia del gesuita, rigoroso nella
comprensione dei fenomeni nuovi, mai domo dinanzi alle inerzie e abituato ad
una vita di comunità che indubbiamente aiuta a sviluppare unione e concordia.
→ Non
dobbiamo infatti mai dimenticare, parlando di padre Vincenzo D’Ascenzi, che
egli ERA UN GESUITA.
Ultimo di sei fratelli, ha potuto conoscerne solo
tre perché i primi due erano morti prima della sua nascita. Alla sorella Teresa
era molto legato e la considerava come una madre; il fratello Giovanni fu
sicuramente colui che incise di più sulla sua formazione giovanile “per il suo senso di disciplina,
l’applicazione allo studio, la coerenza, la puntualità nell’ottemperare gli
impegni assunti nella vocazione sacerdotale” (tutte doti che gli rimarranno
anche da Vescovo e che posso testimoniare).
Nato nel 1928 a Valentano, formalizzò la decisione di
entrare nel noviziato dei Gesuiti il 21 ottobre 1945.
Era giovane e di quel periodo ricorda come
fondamentale per la sua formazione la figura del Padre Maestro Adolfo Bachelet,
fratello di Vittorio, che sarà ucciso dalla Brigate Rosse. La chiarezza
straordinaria di Padre Paolo Dezza, la grande sensibilità del belga Padre Giorgio
Delannoye al quale, annota, “devo la
scoperta del senso dell’analogia, contro l’univocità”.
Ultimati gli studi teologici e filosofici maturava
il desiderio di andare in Missione, oltre oceano, ma la salute cagionevole
indusse i superiori a dis-orientarlo da quella direzione.
Fu così che nacque l’orientamento verso un
apostolato di tipo sociale che – ricorda – “mi
faceva sentire un po’ missionario”. E i superiori glielo concessero.
Nello stesso periodo si verificava quello che lui
chiama “l’evento fondamentale, che da
anni attendevo, il coronamento di anni di attesa, di studio e di preparazione
interiore”: la sua ordinazione sacerdotale e la prima Messa celebrata il 5
luglio 1959, nella Basilica di S. Maria Maggiore, in Roma.
→ LA SUA
FORMAZIONE DURÒ UN PERIODO PIUTTOSTO LUNGO, in tutto 16 anni, dai 17 ai 32. Un
percorso assai impegnativo composto da 2 anni di noviziato, 3 di studi
umanistici, 3 di studi filosofici all’Università Gregoriana, 3 di Magistero, 4
di Teologia e 1 Terzo anno di probazione (un terzo anno di noviziato al termine
del quale, dopo aver trascorso dieci anni nella Compagnia, il candidato viene
ammesso per fare la professione solenne dei tre voti finali di povertà,
obbedienza e castità e di un quarto voto solenne, specifico dei gesuiti, di
speciale obbedienza al Papa).
Nel periodo di Magistero, tra i 24 e i 27 anni fece
l’esperienza come educatore, un anno in Romagna, a Cesena e due anni a Frascati
ed anche nella parrocchia romana di San Roberto Bellarmino. Durante i 5 anni di
teologia ebbe a frequentare il carcere per minorenni a Porta Portese. Li
conobbe mons. Agostino Casaroli, futuro segretario di stato vaticano, che “una o due volte alla settimana passava
molto tempo con i ragazzi”.
Tutto questo ha rappresentato lo zoccolo duro della
sua preparazione, agganciata alla seria e metodica conduzione degli studi e
incamminatasi sulla visione aristotelico - tomistica della filosofia, che ha
potuto utilizzare come metro di giudizio critico verso altre filosofie con cui
si è confrontato, senza chiusure o tabù.
La sua preparazione fu arricchita da un interesse
nel settore biblico, mediante l’analisi di alcuni testi di san Paolo (sul quale
scrisse, sotto forma di dispense, prendendo in esame la Lettera ai Corinzi: Paolo di Tarso ai cristiani di oggi), e
da tre autori cristiani che egli riteneva sue “guide nella ricerca di una mediazione nel mondo sociale, politico e
culturale”: don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani e Padre Pierre Teilhard
de Chardin. Tre giganti del pensiero cristiano del ‘900 e ancora poco compresi
e valorizzati.
Le sue letture preferite spaziavano dai classici
russi come Dostoevskij ad autori inglesi quali Bruce Marshall, Graham Green,
Cronin. Oltre a Le Costituzioni e gli
Esercizi Spirituali di Ignazio di
Loyola, La vie spiritelle di
Lallemand e Les écrit spirituels di Padre
Leonce de Grand-Maison. Oltre naturalmente ad Umanesimo Integrale di Jacques Maritain.
→ La molta
farina del suo sacco la utilizzò a Ferrara nella scuola (15 anni al Liceo
classico Ariosto), nella predicazione in
Duomo alla messa di mezzogiorno, nella direzione dell’Istituto di cultura
religiosa della Casa Giorgio Cini, nell’assistenza spirituale ad un gruppo di
docenti universitari, che sviluppavano le tematiche di frontiera, tra scienza e
fede; nel rapporto con i giovani fatto di iniziative, di attività spirituali,
formative, sportive, campeggi estivi ed invernali. E, come detto, nell’apertura
del dialogo col mondo marxista.
Anche se nel 1978 accettò di fondare una parrocchia,
dedicata a San Giuseppe lavoratore, nella zona più rossa della città, vicino
alle fabbriche della Montedison, di fatto, SINO AL 1980 IL SUO LAVORO SI
ORIENTÒ PRINCIPALMENTE NELLA DIREZIONE DEL FRONTE GIOVANILE, CULTURALE E DELLA
SCUOLA.
Tutto questo sicuramente lo realizzò ma lo provò
anche fisicamente, tanto che i suoi superiori ben pensarono di direzionarlo
verso zone più aperte al sole, come appunto la Maremma. Dapprima nella diocesi
di Pitigliano-Sovana-Orbetello, con il principale scopo di alimentare
iniziative di tipo culturale, ma dedicandosi anche ad una comunità parrocchiale
in formazione, poi a Grosseto nel 1983 proprio come parroco. In seguito a
Pescara dove concluderà la sua vita pastorale, per rientrate nella comunità dei
Gesuiti di Ariccia dedicandosi agli esercizi spirituali ed alla elaborazione di
scritti molto interessanti.
→ La VITA
DA PARROCO nel triangolo Orbetello-Grosseto-Pescara APRIRÀ LA SECONDA FASE
DELLA SUA VITA SACERDOTALE. Per la verità la sua esperienza da parroco a tempo
pieno inizierà veramente solo nel 1983 a Grosseto.
E a 50 anni, da parroco, incontra tutte le fasce
sociali che compongono il tessuto della parrocchia e con esse istaura un
dialogo fatto di affetto, condivisione, amicizia. Ad iniziare dai bambini. “L’affetto di cui mi circondavano –
considerandomi un po’ il loro babbo – era un dono gratuito, spontaneo e, per
me, del tutto nuovo”.
Continuando, con rinnovato vigore, il contatto con i
giovani. Ribadiva infatti che: “è
fondamentale che il prete si occupi dei giovani, prima di tutto perché il loro
mondo è sicuramente più pulito di quello degli adulti e anche perché
rappresentano il futuro dell’umanità”.
Scopre anche il valore delle devozioni popolari, per
le quali nutriva più di qualche diffidenza, visto il sottile confine con il
fanatismo e le feste del Patrono, grazie alle quali poteva avvicinare persone
che non andavano mai in chiesa.
Anche nell’ambito della vita da parroco ha sempre
portato lo spirito di animazione, di creatività e soprattutto ha cercato di
trascinare il popolo a lui affidato come il pastore fa con le sue pecore.
Questa immagine del ‘pastore’ la assumeva volentieri
perché – diceva – “come da ragazzo ho
anche badato alle pecore, con un bastone in mano, occupandomi sia della
mungitura, sia del pascolo, da adulto mi sono trovato a condurre tanti gruppi
giovanili, in campeggio facendo il capocordata, o comunque, il capofila dei
sentieri di montagna”.
Questa caratteristica del condottiero che trascina è
un aspetto che si è consolidato nel corso della sua vita. “Il parroco – affermava infatti – deve essere un animatore e un pastore e quindi a suo modo è anche lui
una guida”.
Una guida che sa lasciarsi coinvolgere dalla vita
della gente. “Se il prete vuole veramente
entrare in relazione con le persone che gli ruotano accanto o che incontra
casualmente – diceva - deve realmente ‘mettersi nei panni’ dei suoi
interlocutori, altrimenti rischia di rimanere semplicemente un osservatore
asettico. Facendo una scelta di ‘immersione’, però, il prete deve avere il
coraggio di uscire dalle sue sicurezza, uscire dalla prospettiva canonica e
mettersi sull’uscio della chiesa, all’aperto, lì dove palpita l’umanità e
rischiare, sulla sua pelle, anche di beccarsi il fatidico ‘colpo d’aria’, cosa
che, certamente, non può capitare a chi resta barricato in sacrestia. Sono
pienamente convinto che per capire la gente, è quanto mai necessario uscire dal
proprio mondo, un po’ ovattato e, perciò, tranquillo e rasserenante, per entrare
in quello degli altri”.
E proprio lui - che aveva giocato la prima parte
della sua vita sulla cultura come terreno di confronto con i lontani o come
veicolo per un approccio, nei confronti di chi cerca la fede – aggiungeva: “nella mia esperienza di parroco ho scoperto
che le persone nel prete non cercano tanto l’uomo di scienza, quanto l’umanità,
la capacità di ascoltare, di penetrare i cuori, la bontà e la disponibilità”.
Nelle omelie si imponeva di parlare in modo che
chiunque entrasse in chiesa fosse stimolato ad ascoltare. Tendeva ad evitare i
discorsi abituali di chiesa, discorsi ripetitivi, che lasciano un po’ tutti
indifferenti, perché ascoltati troppe volte.
L’impegno a tradurre concetti, dogmi e verità in un linguaggio
corretto ma al contempo accessibile, con l’utilizzo di categorie e codici
propri della gente comune,
è stato un obiettivo costante della sua attività sin
dagli anni giovanili. “E’ inutile che io
parli – si ripeteva – se non sono
capito”.
A Grosseto riuscì a realizzare la sua mai sopita
passione missionaria avviando l’iniziativa di un gemellaggio con una missione
operante nel Kerala, a Sud dell’India, e qui contribuendo a realizzare la
costruzione di un villaggio con 110 casette, la chiesa, il dispensario medico,
la scuola materna e la casa delle suore.
La realizzazione, rendicontata sino all’ultima lira
(mi sembra di vederlo!), si concluse nel giro di tre anni e gli permise, parole
sue, “di toccare la generosità della
gente nei confronti delle missioni” e di scoprire in Maremma “la forza di un popolo, un popolo generoso
in tutte le occasioni”. E di allargare il fronte missionario in Brasile, Madagascar,
Filippine, Sri Lanka, Africa, dove ebbe l’opportunità di avere uno
straordinario incontro con Madre Teresa di Calcutta.
L’ansia evangelizzatrice lo spingeva a sperimentare
soluzioni nuove come gli esercizi spirituali nella vita corrente realizzati a
Grosseto. Si trattava di veri e propri esercizi spirituali, di taglio
ignaziano, realizzati però intorno ad un tema o ad un personaggio, “utilizzato come paradigma della nostra vita
interiore”. Un esperienza da vivere nell’arco di tempo di cinque giorni,
con un impegno quotidiano di due ore, in cui seguire le proposte di
riflessione, facendo il ‘deserto del cuore’, da riprendere nelle restanti ore
del giorno, senza trascurare le normali attività lavorative e familiari,
evitando però accuratamente occasioni distruttive inutili (telefono,
televisione…) per favorire altri momenti di concentrazione interiore.
→ Nel suo
modo di essere prete risaltava IL SUO ESSERE PIENAMENTE UOMO, a tutto tondo. “Lei, prima di essere un prete è ‘n omo, per
questo si va d’accordo”, gli diceva la proprietaria della Tenuta grossetana
‘La Trappola’, Giuliana Ponticelli, persona schietta e splendida, che ho avuto
anche io l’onore di incrociare.
• Uomo ad iniziare dall’attaccamento orgoglioso alle
sue radici. Diceva: “Quando mi chiedono
‘Di dove sei?’. Con un tono, tra il serio e il l’ironico, rispondo che sono
etrusco. Lo faccio per destare meraviglia è vero, ma anche perché mi sento
fiero delle origini della mia terra antica…Mi si perdoni questo orgoglio:
l’attaccamento alle mie radici mediato dalla famiglia, dal territorio, dalle
piante, dai panorami e dalle pietre”.
• Uomo nel suo godere delle bellezze naturali. Ha
sempre avuto bisogno di contatto con la natura: dalle scalate verso le alte
vette alle lunghe camminate sui sentieri impervi, dalla cura dell’orto, del
giardino, del pollaio al legame col cane (Boss) e il gatto.
La montagna è stata una passione che ha coltivato
per tutta la vita. “Per me la montagna è
sport, rifugio per disintossicarmi dalle fatiche, dalle tensioni e dalla
confusione. Ha rappresentato una scuola di vita e di carattere e mi ha allenato
a superare molte difficoltà…E’ anche un’occasione preziosa per far conoscere ai
giovani le bellezze della natura…e può educare alla contemplazione a rientrare
in se stessi”.
• Uomo nel suo essere profondo amante della libertà.
La passione che nutriva sin da piccolo per i cavalli dice, lui stesso, essere
stata legata al fatto che gli “comunicavano il senso della libertà e
dell’avventura”. Come quella per quell’indipendente del gatto, “che dà retta al padrone, ma fino ad un
certo punto”.
Siffatto suo modo di essere lo ha portato a
rifiutare qualsiasi situazione che potesse limitarla, sia in campo sociale che
ecclesiale. In quest’ultimo non era catalogabile vicino a nessuna associazione
o movimento (che penso ritenesse abbastanza chiusi e talvolta settari) fatta,
forse, eccezione per gli scout che apprezzava per il loro particolare legame
con la natura.
• Uomo nel vivere (per condividere) la vita in tutti
i suoi aspetti.
Padre D’Ascenzi riteneva che il prete dovesse essere
una persona normale in tutti gli aspetti della vita, anche in quelli che a
prima vista meno vengono accostati alla sua figura, come gli affetti e il
rapporto con il mondo femminile.
Il prete “è un
uomo che prova dei sentimenti, quindi se viene lasciato affettivamente solo, se
non si sente amato e stimato da nessuno, può cadere in una forma depressiva. Un
prete solo non può essere un prete felice”.
“Amate i
sacerdoti – diceva –
comprendeteli, correggeteli e, infine, avete misericordia per i loro errori; in
fondo sono uomini”.
Il prete, per lui, avrebbe dovuto almeno una volta
nella vita fare addirittura l’esperienza
dell’innamoramento e comunque vivere la dimensione paterna e quella, per così
dire, nunziale. Quest’ultima nel senso di avere la capacità di maturare
l’educazione a vivere “un rapporto di
vera e fraterna amicizia con donne di qualsiasi età”.
Ricordava, infatti, che “la donna possiede una forza di pazienza, di coraggio, di generosità e
di dedizione, che noi uomini neppure ci sogniamo. La donna può costituire un
‘tu’ di dialogo e di verifica che ti aiuta anche a conoscere te stesso e le tue
potenzialità nascoste”.
La donna “ti
può incoraggiare quando lasceresti perdere, quando sei scarico, ti può mostrare
comprensione quando sei incompreso e solo. Con la sua intuizione, può aprirti
nuove strade a cui da solo non arriveresti. Può sostenerti negli stessi
progetti apostolici che magari da solo non avresti coraggio ad intraprendere”.
Insomma “può
costituire un punto di forza psicologico formidabile che dà la carica e la
spinta anche a un prete” che – per Padre Vincenzo – “sia chiaro, prima di tutto trae forza dalla fede nel suo Signore che è
insostituibile”; ma che è pur sempre un essere umano “che ha bisogno di quel lubrificante che viene da un affetto puro e
limpido d’una cara amica”.
Insomma, secondo il suo pensiero, le donne nella
vita di un prete sono importanti, ma è essenziale “che rispettino la tua vocazione-destinazione-consacrazione al Signore
lasciandoci il cuore libero per tutti”.
E non pensava minimamente alla moglie del prete;
anzi, riteneva che almeno nel nostro contesto culturale, la gente preferisca un
prete celibe.
Ma, aggiungeva, “capace
ad esprimere anche i sentimenti della paternità
della nuzialità su un piano diverso rispetto agli altri uomini, per così
dire libero”.
Che franchezza, che libertà, che bellezza!
• Uomo capace di vivere e talvolta esprimere i
sentimenti positivi e negativi che si provano nella vita.
Da quelli di gioia e soddisfazione, come “restituire pace e serenità ai cuori, provare
la gioia per la nascita e il battesimo di un bambino, essere felice nel vedere
la crescita di bambini, adolescenti, adulti che, pur avendo avuto la loro crisi
in campo religioso, le hanno superate”.
Ai dolori e alle tragedie, come quella volta che ha “celebrato il funerale di quattro giovani, dai
20 ai 23 anni, che erano deceduti in un incidente stradale, sull’Aurelia”.
Fu difficile “anzi impossibile celebrare
senza piangere”. Ma anche il dispiacere per le ingratitudini e per
l’indifferenza “che è peggiore dell’odio”.
A cui aggiungeva “lo spirito settario, lo
spirito della conventicola, di chi vuole farsi un guscio, un circolo chiuso di
amici scelti”.
→ Una
volta lasciato il servizio pastorale, per raggiunti limiti d’età, HA VISSUTO UN
ALTRO TEMPO DELLA SUA VITA NELLA CASA DI SPIRITUALITÀ DEI GESUITI AD ARICCIA,
vicino Roma.
Lì ha tenuto varie volte corsi di esercizi
spirituali e si è potuto dedicare di nuovo a mettere per iscritto riflessioni
maturate nel tempo e che sono un vero scrigno prezioso da cui continuare ad
attingere, che qui riporto con una breve recensione.
Lui, che in larga parte della sua vita ha insegnato,
può continuare a farlo con gli scritti che ci ha lasciato.
Ecco le ultime pubblicazioni.
ALDO
GIACHI UN MISSIONARIO GESUITA IN CARROZZELLA (2006)
Il volume
fa conoscere a tutti uno straordinario gesuita, Aldo Giachi, disabile ma grande
uomo d'azione e pieno d'energie.
TEILHARD
DE CHARDIN A FRONTE DELLA GLOBALIZZAZIONE (2007)
Padre
Vincenzo presenta un Teilhard che può rispondere alle domande sul futuro della
nostra umanità, la quale si trova a fronteggiare problemi nuovi: la
salvaguardia dell'ambiente e dell'ecosistema, la conservazione dell'identità
delle culture in una società sempre più multietnica, la sfida della globalizzazione
in un mondo diventato villaggio globale. Su queste nuove frontiere il pensiero
di Teilhard si rivela sempre più profetico e carico di speranza e di ottimismo.
IL FASCINO
DEI MONTI. DALL'ALPINISMO AL TABOR (2007)
Qui Padre
Vincenzo offre una riflessione che lega una esperienza vissuta di camminatore e
guida alpina di tanti ragazzi con quella di sacerdote guida spirituale. Egli,
che per circa 40 anni ha guidato i giovani a scalare le montagne, suggerisce un
altro alpinismo: quello dello Spirito, ossia la scalata della montagna della
Vita, la montagna più difficile da scalare.
SIGNORE
INSEGNACI AD AMARE LA VITA (2009)
Qui sono
contenute una serie ordinata di meditazioni condotte sullo stile degli Esercizi
Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, trattando il tema dell’amore per la vita.
IGNAZIO
DI LOYOLA (2009)
Padre
D’Ascenzi descrive Ignazio di Loyola,
fondatore della Compagnia di Gesù, come uomo di frontiera tra la chiesa e il
mondo, che parte dalla riforma della coscienza come fondamento di tutte le
altre riforme, istituzionali, legislative, sociali.
SIGNORE
INSEGNACI A PERDONARE (2010)
In questo
saggio sono contenute una serie ordinata di meditazioni condotte sullo stile
degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, trattando il tema del
perdono.
FUGA
DALLA CASA DEL PADRE E IL CORAGGIO DI TORNARE (2011)
In questo
scritto padre D’Ascenzi prende spunto dall'accostamento delle Avventure di
Pinocchio e della parabola detta del Figliol prodigo, per porre il problema
della solitudine degli adolescenti e dei giovani di oggi. Sostiene che entrambe
le figure rappresentano una sorta di situazione senza tempo vissuta dai
ragazzi, quella fuga dalla famiglia pur necessaria per imparare a conoscere il
mondo. Tuttavia, si domanda: la famiglia di oggi, quale sostegno affettivo
reale e solidale dà ai figli? Quanto è capace di dare sicurezza a chi spicca il
volo, quanto invece prevale la sola cura materialistica che nasconde il vuoto
relazionale e morale?
Le
vicende di Pinocchio e del Figliol prodigo dicono che una riconciliazione è
possibile: è necessario da parte degli adulti ritrovare quella dimensione
attenta, affettivamente partecipe, pur nella giusta distanza al cammino dei
figli.
Come il
Padre della parabola lucana che ha seguito il principio dell'Amore e del
perdono per accogliere il figlio che ha trovato il coraggio di tornare e
riappacificarsi con la propria storia.
IL
FASCINO DELLA PERSONALITA' DI GESU' (2011)
Vestito
di un semplice mantello, Diogene andava cercando l'uomo con la lanterna in
pieno giorno per le vie di Atene. Cercava ovviamente l'uomo ideale, che nella
pratica non esisteva, perché tutti erano corrotti, venduti, ipocriti... Anche
noi – dice Padre D’Ascenzi - cerchiamo l'uomo: l'uomo vero, autentico, che
pensa con la sua testa, che è libero dall'assedio delle chiacchiere che
viaggiano alla velocità di internet per portarci a credere in false promesse.
Quest'uomo c'è: si chiama Gesù di Nazareth. È un uomo con una personalità
affascinante, che vale la pena di approfondire, riscoprire e imitare.
Io e Rossella siamo onorati di averlo incrociato
nella nostra vita, di aver fatto con lui un breve tratto di strada gomito a gomito, di
esserci rimasti in contatto sino ad oggi.
Continueremo ad esserlo in modo spirituale.
E’ stato bello…perché egli era una ‘bella persona’.
Stefano Gentili