domenica 24 aprile 2022

POST 91 – LA QUESTIONE MORALE

Atteggiamento mai gridato né ostentato, si concretizzò in un ventaglio di iniziative e comportamenti

La questione morale c’è sempre stata e sempre ci sarà, perché riguarda noi, il nostro modo di essere e di relazionarci con gli altri (presenti e futuri) e con le cose.

Non riguarda tanto i singoli errori che tutti commettiamo, le sbavature, ma la nostra persona nel suo dinamismo esistenziale e la scelta di fondo, che Erich Fromm delineava in un suo ancora attualissimo saggio: ‘Avere o essere?’. È tornato di moda parlare di questione morale riferita alle forze politiche e alla gestione della cosa pubblica. È bene che se ne parli, si indaghino le cause del malcostume e si approntino adeguate terapie. Per quanto mi riguarda, posso ricordare che ne feci la stella polare della mia azione politica da Presidente della Provincia. E a conclusione di quell’esperienza breve, tracciando un bilancio sulla “Provincia Amica” (bilancio di parte perché fatto da me, ma onesto e sincero), dedicai l’inizio proprio alla questione morale (l’intero intervento è ancora oggi rintracciabile sul mio sito www.stefanogentili.it). Riporto la parte relativa alla questione morale.

“Uno dei capisaldi della nostra azione è sintetizzabile nella ‘questione morale’.

Atteggiamento mai gridato, né ostentato, si è concretizzato in un ventaglio di iniziative e di comportamenti.

• Innanzitutto in un grande sforzo di trasparenza e comunicazione, considerate entrambe presupposti e palestra del gioco democratico. Basti ricordare che il nostro Periodico ha avuto una tiratura complessiva di 129 mila copie; il Quotidiano ha diffuso oltre 6 mila notizie a quotidiani, istituzioni, associazioni, istituti di credito. Il nostro Sito Internet è stato visitato da oltre 30 mila persone; sono state distribuite circa 3 mila segnalazioni di programmi comunitari, notizie e iniziative europee e circa 1000 segnalazioni e commenti giuridici.

• Quindi, nell’accettazione reale della separazione dei ruoli tra amministratori e dirigenti e nella ricollocazione dei dipendenti tutti sullo stesso piano a prescindere dalle appartenenze.

• Poi, nelle pari opportunità effettivamente date a tutti coloro che si sono avvicinati ai concorsi promossi dall’Ente.

• Ma anche nel rifiuto motivato di offrire risposte alle particolari istanze di singoli cittadini e nel contestuale, forsennato impegno a lavorare per risposte di quadro all’interno delle quali potessero trovare soddisfazione il maggior numero di legittime esigenze.

• Particolare attenzione è stata inoltre posta nel posizionare corretta-mente l’istituzione Provincia nei confronti delle forze politiche, anche di maggioranza, e dei soggetti sociali. Perché la Provincia amica è amica di tutti e non di una sola parte, fosse anche quella che legittimamente ha vinto le elezioni (e che ha il diritto-dovere, di partecipare, nei modi istituzionalmente corretti, alla elaborazione delle grandi politiche dell’Ente)”.

Cose normali, ovvie, direte. Mica tanto. Tanto per fare qualche esempio, nel 1995 trovai una formazione professionale corsificio, un ufficio agricoltura caratterizzato da un’inutile pletora di dirigenti con tutte le farraginosità del caso, una politica dell’attività venatoria troppo contigua con ambienti esterni. Con riferimento al precedente modo di operare vi era ancora traccia di relazioni previsionali caratterizzate da politichese e impegni fumosi, di un ruolo preponderante degli amministratori nella gestione degli incarichi e addirittura, mi si diceva, anche nell’erogazione dei contributi. Si palesava una mancanza di trasparenza e di comunicazione.

Insieme ai più stretti collaboratori, provai a modificare quell’andazzo perché mi sembrava giusto ed anche per rimanere fedele all’impegno preso in campagna elettorale. E intravidi un piccolo segnale di riconoscenza in quel “Gentili lascia il palazzo che ha onorato” del giornalista Luciano Salvatore in un articolo di poco successivo all’elezione di Lio Scheggi (Presidente che va presidente che viene, La Nazione, 16.06.1999).

Più volte mi sono chiesto se il messaggio fosse stato inteso anche dai collaboratori, ad iniziare dai dirigenti (ma non solo), specie nella gestione degli incarichi che lasciai totalmente nelle loro mani, invitandoli a seguire il criterio della massima rotazione. Assegnazione d’incarichi che puntualmente pubblicavamo, per amor di trasparenza e di controllo. La riprova che forse l’indicazione era stata in buona parte compresa l’ebbi qualche anno dopo, quando in un negozio di Grosseto mi chiamò una persona che non conoscevo e mi disse: “grazie Presidente, perché durante la sua legislatura ho ricevuto anch’io alcuni incarichi professionali. Cosa che non era mai accaduta prima”.

Io sono una persona semplice e a noi semplici basta poco per farci contenti.













sabato 23 aprile 2022

POST 90 – CAMBIARE, INNOVARE, MODERNIZZARE

Dovevamo cambiare verso all’ente, farraginoso e chiuso in se stesso, fuori da qualsiasi processo innovativo. Al centro mettemmo i cittadini, con le loro attese, i bisogni, le giuste richieste da soddisfare. Cambiammo molto. Il caso del vincolo idrogeologico

Lo slogan della mia campagna elettorale era stato la “Provincia amica”, ma l’ente che mi trovai dinanzi nel 1995 rischiava di non poterlo essere: struttura non funzionale, sistemi informatici antidiluviani e non dialoganti, luoghi di lavoro inidonei, un servizio personale poco attivo, il personale demotivato, soprattutto una totale assenza di processi innovativi. Ecco perché mi impegnai con dedizione, insieme all’assessore Sammuri, nella modernizzazione della struttura e dell’organizzazione della Provincia. Per chi stava fuori poteva apparire una cosa da poco, per noi che eravamo dentro costituiva l’elemento centrale del cambiamento. Avevamo bisogno di un ente che cambiasse verso: al centro dovevano esserci i cittadini, con le loro attese, i bisogni, le richieste da soddisfare. E poi c’era da galoppare perché il nostro verbo preferito era fare.

L’azione partì subito e, nel giro di un anno, approvammo una nuova struttura organizzativa con una sensibile riduzione di figure apicali e di punti di responsabilità. Avevo ereditato un foglietto contenente una proposta di riorganizzazione con 20 figure apicali e sfornammo una struttura con 5 posizioni orizzontali (sviluppo e tutela del territorio, sviluppo rurale, sviluppo strutture e infrastrutture, promozione economica e attività formative, promozione culturale, attività sociali, pubblica istruzione) e 2 di staff (modernizzazione e riqualificazione, gestione delle risorse finanziarie e patrimoniali). Vorrei far notare la prima parola di ogni ufficio – sviluppo, sviluppo, sviluppo, promozione, promozione, modernizzazione, gestione – perché per me le parole hanno sempre avuto un profondo significato.

Il processo di cambiamento si basò su quattro fondamentali linee di azione: introduzione di strumenti gestionali innovativi; revisione dei sistemi informativi e investimento in tecnologia informatica; evoluzione della cultura organizzativa del personale e dei dirigenti; avvio di nuove modalità di relazioni con il pubblico e con l’utenza.

Ricordo ancora bene quel processo: – un forte investimento in tecnologia informatica, che condusse alla completa automazione dell’ente ed alla creazione di intranet; – l’individuazione di una posizione organizzativa (il settore Modernizzazione e riqualificazione) cui affidare la direzione complessiva dei processi innovativi; – l’introduzione di sistemi di programmazione e controllo, a partire dai tradizionali strumenti di programmazione finanziaria previsti dal nuovo ordinamento contabile degli enti locali (relazione previsionale e programmatica e Piano Esecutivo di Gestione); – l’introduzione di sistemi premianti e di responsabilizzazione collegati ai sistemi di programmazione e controllo, in una logica di direzione e gestione per obiettivi; – l’avvio di un programma di formazione manageriale che coinvolse soprattutto i dirigenti e il personale con funzioni di responsabilità.

Introducemmo anche un nuovo orario di servizio con due rientri settimanali e un nuovo regolamento di organizzazione interno a garanzia della funzionalità e dello snellimento delle procedure nei confronti dei cittadini.  Particolare attenzione la dedicammo alla riorganizzazione di due aree, per così dire, delicate: lo Sviluppo Rurale e la Formazione Professionale. Puntavamo anche molto su un rinnovato decentramento territoriale, ma ci rallentò non poco l’evoluzione normativa in atto.

Sul fronte del personale basta ricordare qualche dato: – dal 1996 al 1998 facemmo 70 nuove assunzioni; il Piano per il 1999 ne prevedeva altre 36; – sempre nello stesso periodo favorimmo 37 progressioni di carriera; il Piano per il 1999 ne prevedeva altre 20 (come termine di paragone, nello stesso periodo, la Provincia di Siena ne aveva effettuate 15, quella di Pisa 4, quella di Pistoia 1). Mi piace anche ricordare il rilevante salto di qualità fatto nel comfort, nello spazio, nella salubrità dei luoghi di lavoro (anche se qualche ufficio periferico rimase in sofferenza) e nella modernità e sicurezza dei mezzi di lavoro, per il rinnovo dei quali investimmo diversi miliardi.

Quanto detto può apparire come un’azione a risvolto esclusivamente interno, ma non è così. Una provincia più efficiente offriva migliori risposte ai cittadini. Cito, a mo’ d’esempio, quanto fu importante lo snellimento delle procedure per il cosiddetto Vincolo Idrogeologico che, nel 1995, aveva una marea di pratiche non evase. Attraverso l’approvazione di un nuovo Regolamento e il potenziamento dell’Ufficio, avvenuti tra maggio e luglio del 1997, riuscimmo ad evadere tutte le pratiche arretrate e soprattutto a stare al passo con le nuove. Dal gennaio 1998 al marzo 1999 evademmo 4.119 pratiche. A parte quelle dove avevamo introdotto il principio del silenzio-assenso, il tempo medio per la formulazione del parere era giunto a circa 45 giorni. Lasso che poteva essere ancora migliorato, ma incomparabilmente inferiore agli 8-12 mesi del 1995. La questione la chiudemmo definitivamente poco prima della fine della nostra legislatura, riperimetrando lo stesso vincolo idrogeologico, facendolo passare dal 79% al 32% del nostro territorio, dando il “benvenuto al vincolo idrogeologo dal volto umano”, come lo definì M.F. (Massimiliano Frascino) in un articolo su L’Unità toscana del 2 giugno 1999. E rendendo, rispetto al passato, “molto più semplice edificare o impiantare attività produttive”.

Più organizzazione efficiente, meno burocrazia asfissiante, uguale lavoro e vita.










venerdì 22 aprile 2022

POST 89 – LA STELLA POLARE: IL LAVORO

La situazione provinciale nel 1995 era molto difficile. L’occupazione non era il primo compito dell’ente Provincia, ma per me fu il primo assillo, doloroso ed esaltante. Alcune azioni riuscimmo a metterle in campo

La stella polare della nostra azione in Provincia è stata la volontà di contribuire alla creazione di un contesto nel quale l’uomo potesse vivere, gli uomini di allora e le generazioni future. Normalmente questo concetto veniva esemplificato dal principio dello sviluppo sostenibile. A me piaceva chiamarlo: “sviluppo capace di futuro”. In concreto si traduceva nell’assillo degli assilli: il lavoro.  Quando entrai in Provincia, nel 1995, il rallentamento del ciclo economico e dei consumi aveva aggravato l’economia reale e la disoccupazione. Le persone in cerca di occupazione nel 1995 erano circa 22.000 (14-15%), mentre nel 1991 erano state poco oltre 10.000.

Ci domandavamo, pertanto, come mantenere il lavoro che c’era e come far nascere quello che non c’era. Non era il compito proprio della provincia, ma per me fu la preoccupazione prima, dolorosa ed esaltante. Non eravamo un’azienda, non battevamo moneta, non potevamo attivare lavori socialmente utili a gogò, la possibilità di assunzioni dirette era assai limitata e contingentata. Che potevamo fare? 

Azioni dirette e indirette. Ne ricordo alcune.

•Il Patto Territoriale (dai 600 agli 800 occupati, più l’occupazione di cantiere), •le Iniziative Locali sull’Occupazione (che hanno prodotto 85 nuovi occupati), •la definizione teorica e l’inizio dell’organizzazione pratica del Distretto Rurale d’Europa che ha aperto interessanti prospettive di sviluppo e di lavoro nel territorio provinciale (unitamente ai 158 miliardi di contributi erogati al mondo dell’agricoltura che hanno mosso investimenti per 238 miliardi di lire), per il quale non sono in grado di dare dati occupazionali. Poi •la Formazione Professionale collocata realmente a servizio dell’occupazione antica e nuova che – insieme •alla Formazione Integrata Superiore, ai Post-diploma e alla Scuola dell’autonomia – la consideravamo come il miglior passaporto per il futuro dei nostri giovani. Come pure la promozione dei •Nuovi Bacini Occupazionali quali l’ambiente, i servizi alla persona e alla vita quotidiana, la cultura. Per quest’ultima, tengo a segnalare anche •gli interventi messi in piedi nel campo dei beni culturali. Come pure •i 40 miliardi investiti nelle strade provinciali. Particolare attenzione abbiamo voluto riservare al •Lavoro femminile attraverso progetti specifici anche dell’Unione Europea, incontri e l’attivazione di risorse nazionali per le imprenditrici.

Se il nostro operato ha contribuito alla “riscossa rosa” (La Nazione, 10.3.1999), cioè ad una diminuzione della disoccupazione femminile del 4% in provincia di Grosseto, ne sono profondamente lieto. E se tutte le azioni citate, più altre poste in essere sul terreno della Promozione Economica dal nostro Ente (a proposito voglio ricordare che i contributi complessivi sotto questa voce sono stati nella nostra legislatura di 195 miliardi, per investimenti pari a 663 miliardi di lire) hanno contribuito al “calo del tasso di disoccupazione provinciale complessivo”, dimezzato nel 2002, quando gli effetti della nostra azione possono avere avuto un primo reale effetto – come ricordato nell’articolo La Maremma è un miracolo. La disoccupazione è dimezzata (La Nazione, 3.03.2002) – sono strafelice.

E se con quei risultati la nostra azione non c’entra nulla, posso comunque assicurare che il nostro impegno per l’occupazione è stato costante. Assillante direi.  












POST 88 – IL PIANO PROVINCIALE DEI RIFIUTI

Dal superamento delle 16 discariche a cielo aperto all’avvio della differenziata. Puntavamo all’autosufficienza provinciale e a tariffe socialmente sostenibili. Non tutto filò liscio

ll Piano provinciale dei rifiuti lo approvammo poco dopo il mio insediamento, nel 1995. Io lo ereditai e fatte una serie di verifiche e modifiche lo deliberammo. Fu seguito con grande attenzione e competenza dal vice-presidente Giampiero Sammuri. I precedenti amministratori avevano cincischiato, forse con un occhio attento al cogeneratore di Scarlino in preparazione. Qualche saputello in seguito ha detto che allora era già vecchio. Può darsi, ma anche no. Un certo fascino, però, l’aveva. 

Di discariche a cielo aperto ne trovammo 16. In un lasso di tempo di 8-10 anni la nostra doveva essere tra le prime province italiane a non averne neppure una. Buona cosa in sé e bel biglietto da visita, che si inseriva coerentemente con l’idea di Maremma che avevamo. 

Era naturalmente prevista una fase transitoria che prevedeva al Tafone (Manciano) il conferimento soltanto di rifiuti sistemati alla Torba con un impianto di compattazione; alle Strillaie (la discarica del capoluogo) i rifiuti dovevano invece essere compattati in loco. Alla vecchia discarica di Semproniano i rifiuti sarebbero stati compattati in loco e poi stoccati. L’inceneritore di Valpiana (Massa Marittima) avrebbe continuato a funzionare sino a che non sarebbe stato trasformato in cogeneratore destinato a trattare unicamente i rifiuti solidi urbani della provincia. Ogni anno nella provincia venivano prodotte 110 mila tonnellate di rifiuti e noi prevedevamo un termovalorizzatore dimensionato a 80-90, proprio perché l’obiettivo del progetto era quello di massimizzare il recupero dei materiali. E mentre in passato avevano esportato i nostri rifiuti, noi prevedevamo di non esportarli, né di importarli. Era l’autosufficienza provinciale. I rifiuti dovevano essere trasformati in biogas e in ammendante per recuperare siti degradati come le cave. Sarebbero state recuperate le materie prime e secondarie come l’alluminio e il vetro e prodotto l’Rdf, combustibile da inviare a Valpiana che, una volta modificato in cogeneratore, lo avrebbe trasformato in energia elettrica. Ad ottobre dell’anno successivo (1996) il nostro Piano fu definitivamente approvato dalla Regione Toscana. 

Probabilmente io ero piuttosto ingenuo, ma il superamento delle discariche a cielo aperto, tariffe socialmente sostenibili e l’autosufficienza del bacino provinciale mi sembravano importanti obiettivi da raggiungere, tra l’altro, perfettamente in linea con il decreto Ronchi. Il nostro Piano, in un convegno regionale di approfondimento tenutosi a Rispescia l’11 aprile 1997, presente lo stesso ministro, fu elogiato e considerato perfettamente coerente e per certi versi anticipatore del decreto dello stesso ministro. Il capo dell’ufficio legislativo del ministro, Monticelli, che aveva curato il testo e l’iter di approvazione del decreto ministeriale, parlò di noi come di “un’sola felice” (Posti di lavoro dai rifiuti. Ronchi ha presentato il decreto, Il Tirreno, 12.04.1997). 

Una pianificazione provinciale che prevedeva l’organizzazione della raccolta differenziata (il piano provinciale l’approvammo nel consiglio del 14 maggio 1998) e la sua valorizzazione, comune per comune, la realizzazione di un impianto di riciclaggio di rifiuti solidi urbani e l’adeguamento tecnologico dell’impianto esistente, ritenevo e ritenevamo fosse la strada migliore da seguire. Tra l’altro i nostri esperti ci segnalavano anche la possibilità di incrementi occupazionali, il ricavo di 35 milioni di kWh annue, con un introito di circa 10 miliardi di lire che avrebbe potuto ammortizzare l’investimento di ristrutturazione e determinare condizioni tariffarie più accettabili per i cittadini. 

Purtroppo non andò tutto come sperato, anche per alcuni ostacoli che vi si frapposero. Il più rilevante fu il tormentone del cogeneratore Eni di Scarlino che, se partito, avrebbe messo in crisi la realizzazione di quello di Valpiana. E ce lo mise anche partendo a singhiozzo. Ma a me non andò giù neppure la nomina del commissario ad acta per la sua realizzazione. Non ce n’era bisogno, ma i pidiessini dovevano pur dare una ricompensa al vecchio presidente Ciani non ripresentato, che peraltro pressava insistentemente. Non con me perché sapeva come gli avrei risposto. Ventisei dei ventotto comuni della provincia, guidati dalla sinistra o dalla sinistra centro, con l’eccezione dei destri Semproniano e Civitella Paganico, furono invitati a chiedere alla regione di nominare un commissario per gestire la fase transitoria e la realizzazione dell’impianto del Poponaio. E così la Regione fece, con mio disappunto. Poi ci si mise anche il comune di Grosseto, guidato dalla nuova destra, a creare problemi di localizzazione. Che a me non interessavano, ma certamente ritardarono l’esecuzione. Ed anche i comuni si dimostrarono piuttosto restii a far partire la raccolta differenziata, per il salto culturale che richiedeva nella mente degli amministratori e nel comportamento dei cittadini.

Per questo, e altro, alcuni nostri obiettivi rimasero nel cassetto dei sogni. Noi, che avevamo in testa la Maremma bella, comunque ci provammo. 











giovedì 21 aprile 2022

POST 87 – CHE SPETTACOLO

Sostenemmo molte manifestazioni di teatro, musica, cinema. Dal circuito provinciale per il teatro amatoriale e il sostegno di iniziative cinematografiche di spessore agli spettacoli di musica corale e classica

L’azione della provincia da me presieduta e con il fondamentale impulso prima di Mariella, poi di Moreno Canuti, dette molta importanza allo spettacolo. Attingendo alle nostre risorse, unite a quelle messe a disposizione da leggi regionali (la 11/80 e la 14/95), sostenemmo molte manifestazioni di teatro, musica, cinema. Erano prevalentemente azioni di supporto ad iniziative che nascevano dai mondi vitali (associazioni, compagnie, gruppi, laboratori, accademie, ecc.) e che trovavano in prima istanza la sensibilità e l’appoggio dei Comuni e delle Comunità Montane. Non eravamo marchettari, ma profondamente convinti che lo spettacolo fosse molto di più di un passatempo: era ed è un insieme di forme espressive che incidono profondamente sul costume. Una società pluralistica, infatti, ha bisogno dell’incontro dialettico fra diverse forme espressive, affinché i cittadini abbiano la possibilità di mettere a confronto le idee e sviluppare il loro spirito critico. Il confronto di idee è particolarmente vivo nello spettacolo, inteso nelle sue molteplici manifestazioni. Chi considera lo spettacolo nel suo complesso come la professione di pochi ed il passatempo di molti, coglie il segno soltanto in modesta misura.

Ad esempio, sostenere il TEATRO era un fatto di grande importanza, anche per i suoi profondi risvolti educativi. Promuovere nelle nostre città, nei paesi, dentro le scuole occasioni che consentissero di maturare una diversa espressività artistica e attitudini a vivere la comunicazione non attraverso gli schemi della dipendenza passiva dalla cultura dei media, ma in termini di continuo accrescimento e di riappropriazione responsabile della parola e dell’immagine era un fatto di civiltà. Come pure di grande valore era la possibilità che il teatro ci offriva di riappropriarci delle nostre radici culturali che sono anche popolari, folcloristiche e che potevano riconsegnarci uno spaccato della nostra identità perduta. Con questa attenzione la nostra Amministrazione Provinciale sostenne una serie di iniziative e promosse il Circuito provinciale per il teatro amatoriale con l’intento di valorizzare il lavoro delle compagnie esistenti ed operanti nella provincia.

La MUSICA non solo eleva l’uomo, ma è necessaria all’uomo. Le è necessaria anche per dare ali nuove alla società, rafforzando il senso della socialità e della comunicativa. Per questo sostenemmo iniziative di indubbio livello, collaborammo al programma di musica colta promosso dalla Regione Toscana e sostenemmo 50 spettacoli di musica corale e classica effettuati dalle associazioni musicali e dalle corali operanti sul territorio provinciale. 

Il CINEMA è parte integrante della cultura contemporanea, oltre ad essere un grande mezzo di comunicazione con precise responsabilità, specie quando si fa veicolo di idee e principi. In sintonia con i Comuni interessati sostenemmo iniziative di grande spessore artistico.

Il nostro impegno ebbe anche qualche riconoscimento pubblico, cosa più unica che rara, specie rivolto all’assessore Canuti. Infatti, dopo l’elezione di Scheggi alla presidenza della provincia, una parte del mondo della cultura inviò al neo presidente una lettera aperta nella quale chiedeva la riconferma di Moreno: “Riteniamo che l’alto livello qualitativo e operativo raggiunto dall’amministrazione Gentili, si sia bene espresso nella figura davvero rappresentativa dell’assessore Canuti che, pur nel breve periodo del suo mandato, ha profuso impegno professionale e personale, configurandosi come punto di riferimento affidabile e competente” (Il mondo della cultura vuole Canuti assessore, Il Tirreno, 28.06.1999). Ma figurati. 









mercoledì 20 aprile 2022

POST 86 – GOVERNARE IL TERRITORIO PERCHÉ LA VITA VIVA E L’UOMO VIVA: IL PTC

Deliberammo l’atto programmatorio per eccellenza, il Piano Territoriale di Coordinamento, il 6 novembre 1998, dopo un meticoloso lavoro e un percorso ampiamente condiviso. Le mie parole d’ordine erano: condividere, conoscere, custodire, coltivare. Ne uscì fuori uno strumento profondamente innovativo. Una pietra miliare

Dopo la pausa referendaria, torno di nuovo con la mia storia, promettendo di non superare complessivamente i 100 post. Ma altre due o tre cose debbo dirle. Sono ancora sul mio impegno in provincia e intendo parlare del principale strumento programmatorio del nostro ente. Perché, oltre alle azioni visibili su strade, scuole, beni culturali e via dicendo, la vocazione prima della Provincia riguardava attività meno visibili, ma importanti come le prime. Le attività programmatorie su una serie di questioni, quali rifiuti, trasporti, rete scolastica, attività venatoria.

• E, dubbio non v’è, che la madre di tutte le programmazioni aveva un nome ben preciso: PIANO TERRITORIALE DI COORDINAMENTO. Con esso si governavano le politiche del territorio quanto ad ambiente, infrastrutture, insediamenti. Cioè, cose serie, non robetta.

Dopo un meticoloso lavoro e un percorso condiviso, ricordo che a fine ’98, precisamente nel consiglio provinciale del 6 novembre, si approvò il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Grosseto, siglato con l’acronimo PTC. Fu un impegno faticoso anche da un punto di vista politico perché la nostra maggioranza era presa a tenaglia tra i verdi rifondaioli e i rossi verdi per i quali esisteva solo la tutela assoluta, ingessata, ideologica e la retorica di destra, allora molto in voga anche nei giornali locali, che ci accusava a vanvera di ingessare il territorio e mortificare lo sviluppo.

Ricordo la premessa del mio intervento che era intitolata, non a caso, Un PTC per la vita.

“Gli intenti che hanno animato l’elaborazione del PTC, sono quelli che abbiamo sempre cercato di porre alla guida della nostra attività amministrativa. Governare il territorio perché la vita viva e l’uomo viva: gli uomini di oggi e le generazioni future. Governarlo, integrando sapientemente i valori e le sensibilità con gli interessi legittimi, per raggiungere il bene comune storicamente possibile. Governarlo insieme perché società civile, politica e mondi vitali hanno il diritto e il dovere di costruire una buona società nella quale vivere. Da questi intenti sono scaturiti una serie di atteggiamenti che vorrei descrivere scomodando i 4 verbi che utilizzai nella Prima Conferenza del 11.04.1996. 

CONDIVIDERE: che in questo caso vuol dire codecidere, mettere insieme le conoscenze, attivare la concertazione continuata. 

CONOSCERE: cioè individuare le risorse presenti e la loro disponibilità, valutare i rischi che le azioni sul territorio comportano e la loro compatibilità, censire le attività presenti e la loro correlazione con il territorio. 

CUSTODIRE: perché noi siamo custodi, non proprietari, del suolo, dell’aria, dell’acqua e dell’identità storica, culturale, insediativa della provincia. La custodia implica il riconoscimento che queste cose sono patrimonio comune, anche delle future generazioni e postula la restituzione. È in quest’ottica che si colloca la necessità della tutela, la sua eticità.

 COLTIVARE: cioè creare le condizioni perché l’uomo tragga i frutti della sua opera sull’ambiente, godendo degli interessi del capitale senza intaccare il patrimonio. E in questa prospettiva la stessa tutela deve trasformarsi in risorsa”.

• Ne uscì fuori, a mio modo di vedere, uno strumento PROFONDAMENTE INNOVATIVO. Perché innovativo? 

Perché prendeva le mosse da un’attenta analisi conoscitiva del territorio provinciale, non più considerato come un indistinto, ma come un’area vasta articolata al suo interno, dove le “diversità” erano riconosciute e inserite in un “sistema di complementarietà”. Perché organizzava una conseguente programmazione in grado di tenere conto dell’identità territoriale della Provincia, cioè delle tipicità storiche, culturali, ambientali che la caratterizzavano e delle risorse che possedeva. Perché consentiva, pertanto, il passaggio da un “sistema di vincoli” rigidi e generalizzati sul territorio ad un “pacchetto di regole” adeguato alle diversità e animato dalla filosofia della “fattibilità compatibile”. In Provincia di Grosseto da quel momento “si poteva fare tutto” (il bello, il buono, il lecito e l’utile); il PTC diceva “dove” e “come”. Ad esempio, se un comune voleva prevedere un insediamento urbano nel proprio piano strutturale, doveva dimostrare di avere a disposizione la risorsa idrica necessaria.

Perché superava tutti gli atti regionali di tipo settoriale, quali, ad esempio, la più o meno famosa 296/88 (che poneva vincoli generalizzati sul territorio). Perché puntava su uno “sviluppo capace di futuro”, in grado di integrare la salvaguardia del “capitale fisso sociale” (il territorio), con la “crescita ben temperata” delle infrastrutture, delle attività economiche e delle politiche di coesione sociale. Perché favoriva uno sviluppo complessivo, integrato ed equilibrato articolando azioni tendenti a modificare la realtà della “provincia a due velocità”, puntando ad una valorizzazione delle “economie interne” e ad una “qualificazione complessiva” del territorio provinciale. Perché immaginava attori sociali e individuali disponibili a farsi carico della salvaguardia e della valorizzazione del capitale fisso sociale. Perché faceva proprio il principio di “equiordinamento dei poteri elettivi” e il riconoscimento che a ciascuno dei livelli di governo del territorio dovevano essere garantiti pari dignità e poteri (superando quindi la cosiddetta “pianificazione a cascata” e la subordinazione dei livelli inferiori a quello superiore). Pertanto l’azione provinciale si incentrava su un efficace coordinamento tra i diversi centri di pianificazione, a cui forniva sia “scenari di riferimento sovracomunali” che un “tavolo permanente di confronto” al fine di attuare una programmazione integrata e individuare le priorità d’intervento.

Insomma un PTC che cercava di integrare sapientemente i valori e le sensibilità con gli interessi legittimi per raggiungere il “bene comune storicamente possibile” e con l’intento di governare il territorio perché la vita vivesse e vivessero gli uomini: quelli di allora e le generazioni future. 

• In concreto prevedeva oltre 150 INTERVENTI STRATEGICI raggruppati in: INFRASTRUTTURE STRADALI (corridoio tirrenico, due mari e potenziamento degli assi traversali, come la S.S. 74 Maremmana), AEROPORTO (scalo civile di Grosseto), AVIOSUPERFICI (Albinia, Santa Rita Cinigiano, Pitigliano, Gavorrano), PORTI E APPRODI TURISTICI (realizzazione dei nuovi porti turistici al Puntone di Scarlino e a Marina di Grosseto; il potenziamento del porto turistico di Talamone e di Giglio Porto, il mantenimento del porto commerciale e il potenziamento di quello turistico a P.S. Stefano; la riqualificazione dei porti di Castiglione della Pescaia e di Porto Ercole), PUNTI DI ATTRACCO (Giannutri), CENTRO INTERMODALE (Braccagni Grosseto), NODI SCAMBIATORI (Orbetello Scalo e Civitella Paganico), IMPIANTI TECNOLOGICI (Grosseto: impianto di selezione e riciclaggio rifiuti; Massa Marittima: cogeneratore di Valpiana; Monte Argentario: impianto di Terrarossa per il trattamento delle acque; piattaforme di trasferimento di La Torba, Valpiana, Aiaccia-Semproniano; impianto di smaltimento dei rifiuti speciali di Monterotondo Marittimo), IMPIANTI ENERGETICI (per la geotermia e il teleriscaldamento: Monterotondo, Montieri, Santa Fiora; per il fotovoltaico: Isola del Giglio; per le biomasse: Grosseto, Manciano, Scansano; per l’eolico: Scansano e Semproniano), DIGHE E INVASI (Milia a Massa Marittima, Roccastrada, Gretano a Civitella, Castiglione della Pescaia, Alma a Scarlino, Camerone a Manciano), LABORATORI SCIENTIFICI E AMBIENTALI (Orbetello Scalo e Scarlino), AGROALIMENTARE (Braccagni e Albinia), MATTAZIONE (Grosseto, Massa Marittima, Castel del Piano, Pitigliano), POLO DEL CAVALLO (Grosseto, Azienda Agricola di Alberese), CENTRO FIERE (Madonnino, Grosseto), CENTRI ESPOSITIVI (Valpiana, Castel del Piano, Pitigliano-Pantano), IPERMERCATI (Grosseto-Casalone), RICETTIVITÀ RURALE (un numero consistente, da Massa Marittima a Manciano, passando per Pitigliano, La Triana e via dicendo), CENTRO CONGRESSI (Castiglione della Pescaia), STRUTTURE SPORTIVE (sono molte e suddivise in impianti e percorsi fuori strada, campi da golf a 18 buche, ippodromi), STRUTTURE CULTURALI (Grosseto, Massa Marittima, Follonica, Arcidosso, Orbetello, Monte Argentario, Manciano, Pitigliano, Sorano, Capalbio-Giardino dei Tarocchi, Seggiano-Giardino di Daniel Spoerry), UNIVERSITÀ (Grosseto), SEDI SANITARIE (ospedali di Grosseto, Massa Marittima, Orbetello, Pitigliano, Castel Del Piano; socio sanitario di Follonica, riabilitativo di Manciano, geriatrico di Roccastrada; RSA).

Il Piano, come previsto, ha in seguito avuto aggiustamenti dettati dall’esperienza concreta, ma nella sostanza e nella quasi totalità della forma è rimasto quello di allora. Con uno slogan non bellissimo, ma chiaro, “né ingessati, né sciancati, ma incamminati verso il futuro”, chiusi l’intervento introduttivo al consiglio del 6 novembre ’98. Nel quale naturalmente ringraziai i protagonisti primi di quel lavoro: i nostri architetti Pietro Pettini e Lucia Gracili, l’assessore allo sviluppo e tutela del territorio, Giampiero Sammuri, i professionisti esterni che collaborarono.

Ritengo ancora oggi quello strumento un’autentica pietra miliare nella costruzione di una Provincia amica.






POST 85 – NO AL COGENERATORE DI SCARLINO

La mia contrarietà fu sempre forte e chiara, senza titubanze o ripensamenti

Il mio primo approccio con il cogeneratore di Scarlino fu nel marzo-aprile 1995, durante la campagna elettorale. Non ricordo con esattezza se a Scarlino, Monterotondo Marittimo o forse Massa. E lo rammento come questione da affrontare, insieme al Piano provinciale dei rifiuti. Poi me lo trovai tra le gambe come Presidente della Provincia. Come ho già avuto modo di dire, a Scarlino fu attuato il processo per lo sfruttamento integrale della pirite con la produzione di acido solforico, pellets di ferro ed energia elettrica. Il calore avanzato dall’arrostimento delle piriti veniva trasformato in vapore e quindi in energia elettrica che utilizzavano per i propri bisogni e in parte vendevano all’Enel. Nacque così la centrale termoelettrica, credo costruita dopo il 1983 e che nell’ottobre 1990 fu gravemente danneggiata da un incendio. Nel tempo le cose si modificarono: l’acido solforico si iniziò a fare in un altro modo, il pellets di ferro non serviva più alle acciaierie di Piombino ed ENI Ambiente pensò di impiegare i forni a letto fluido, che non erano più usati per l’arrostimento della pirite, per l’incenerimento dei rifiuti.

In campagna elettorale mi ero preso l’impegno di approvare quanto prima il Piano provinciale dei rifiuti, già portato a buon punto, ma non approvato. Di questo si discuteva da anni e noi, dopo alcune verifiche e modifiche lo approvammo entro il 1995, ma su questo mi soffermerò più avanti. Lo cito però perché il nostro piano prevedeva che l’esistente inceneritore di Valpiana si trasformasse in cogeneratore accogliendo l’RDF prodotto dai rifiuti provinciali, trasformandolo in energia elettrica. E il tentativo di far uscire di scena Valpiana, per farci entrare il cogeneratore ENI di Scarlino, fu promosso con insistenza periodica e sempre più pressante. Ma io non ho mai ceduto.

Torniamo al cogeneratore di Scarlino.

• Noi eravamo contrari alla sua attivazione ed io più di tutti. Follonica lo vedeva come il fumo negli occhi; gli altri comuni del comprensorio erano contrari, sia pure con qualche distinguo. La maggior parte delle associazioni di categoria sparavano a zero. Favorevoli pubblicamente erano solo i sindacati che non volevano perdere i circa 60 lavoratori impiegati nello stabilimento. Dico con franchezza che, laicamente, si può discutere di inceneritori e cogeneratori, ma non in quelle condizioni. Non con l’arroganza dei responsabili ENI, né con la contrarietà della stragrande maggioranza delle popolazioni. La questione non era tecnica, anche se problemi tecnico-ambientali c’erano. Ma politica, di più ‘psico-politica’. E quando le situazioni diventano psico-politiche non si possono gestire con il ragionamento e il compromesso. Richiedono solo decisioni: o sì oppure no. E noi eravamo per il no: almeno io, Sammuri e Gennai, che seguimmo la vicenda da vicino ed anche pressoché tutti i consiglieri provinciali. Anche perché – come detto – ci faceva saltare il Piano provinciale dei rifiuti.

L’Ente di Stato che, per decenni, aveva fatto sul territorio dell’alta Maremma il bello e il cattivo tempo, prima di andarsene, tramite la sua subordinata ENI Ambiente, aveva deciso per tutti quello che si doveva fare. Chiuse le miniere, ridimensionato il polo chimico del Casone, messo in mobilità qualche centinaio di dipendenti, cosa proponeva? Un impianto per produrre energia elettrica bruciando negli ex forni Solmine una massa ingente di rifiuti industriali, detti machiavellisticamente “combustibili non convenzionali”, che sarebbero giunti al Casone con un quotidiano convoglio di camion provenienti dai luoghi più disparati. Era veramente troppo. Eppure, con quell’arroganza che faceva proprio imbestialire, a natale del 1996 ci fece lo sgradito regalo. In barba all’invito rivolto dal ministro dell’Industria e in assoluto dispregio verso il parere contrario degli Enti Locali (comuni, provincia, regione) e della grande maggioranza della popolazione, Eni Ambiente accese l’inceneritore del Casone. L’impianto dopo essere stato riscaldato e messo a punto, partì alimentato proprio con i combustibili non convenzionali che, nello specifico, erano costituiti dagli scarti derivanti dalla lavorazione di legno, carta e stoffa.

Il 24 dicembre la mia assessora, Mariella Gennai, dopo che un ennesimo incontro a Firenze si era risolto con un nulla di fatto, anche a nome della regione e dei comuni interessati dichiarò quanto segue: “Ci troviamo di fronte a interessi diametralmente contrapposti. Eni Ambiente ha giustificato (se è possibile giustificare un’azione che sin dall’inizio è stata nettamente contrastata dalle popolazioni interessate) la necessità di avviare l’impianto prima del 31 dicembre poiché, in caso contrario sarebbe saltata la convenzione riguardante la fornitura di energia elettrica stipulata con Enel. Le prove dovrebbero proseguire per 40-50 giorni dopo di che, se le risultanti tecniche saranno positive, aprire una fase sperimentale di 18 mesi preludio alla effettiva entrata in funzione di tutto il complesso. I dirigenti Eni, forti delle autorizzazioni ministeriali ricevute, si sentono praticamente in una botte di ferro e, come hanno sempre fatto, non tengono in alcun conto le ripetute e documentate riserve socio-economiche avanzate dagli Enti locali, né la dura contrarietà espressa dalle popolazioni. A questo punto, come Regione, Provincia e Comuni non ci resta che chiamare direttamente in causa il ministro dell’Industria Bersani, al quale già ci siamo ripetutamente rivolti, autoconvocandoci, se non otterremo risposta, a Roma per discutere in sede politica tutta la questione. Questo è quello che faremo fin da subito” (Inceneritore: regalo sgradito. Gennai: ci appelliamo a Bersani, Il Tirreno, 27.12.1996).

• Io non avevo dubbi, Mariella neppure. Nel nostro campo, i dubbi risiedevano prevalentemente all’interno del partitone della sinistra, in profonda trasformazione. Ricordo di aver partecipato ad un incontro nella sede dei DS di Follonica nel quale emersero con chiarezza posizioni contrastanti, sia pure con una prevalenza di contrarietà al cogeneratore (dopo tutto eravamo a Follonica). Probabilmente sul finire del 1997 la Quercia sciolse i suoi nodi: no ai gruppi pro Eni ad essa interni, no all’ala cigiellina, no ad alcune frange del suo vecchio apparato; sì all’emergente gruppo filo ambientalista, ai fautori del turismo e del terziario come motori trainanti dell’economia della zona. Il requiem al primo gruppo fu recitato da Fabio Mussi e Flavio Tattarini, insieme ad altri tre deputati meno noti in Maremma (Vigni, Campatelli e Brunale) in una mozione presentata alla Commissione Ambiente e Lavoro della Camera del giugno 1997, nella quale si chiedeva alla stessa di impegnare il governo a “mettere in atto ogni iniziativa utile, compresa la revoca delle autorizzazioni concesse dal Ministero dell’Ambiente e dell’Industria, a rimuovere con il progetto di cogenerazione l’atteggiamento dell’Eni…” (La Nazione, 4.07.1997).

• Questa volta non voglio dilungarmi troppo nel ricordare la mia azione nei confronti del cogeneratore di Scarlino. La mia posizione, come detto, era chiaramente contraria e lo ripetei in tutte le salse. Partecipai, quasi sempre con Mariella Gennai, a molti incontri locali e regionali con comuni, sindacati, lavoratori, comitati. Rammento un incontro a Firenze a fine maggio 1997, dopo che il Consiglio di Stato aveva annullato la sentenza del Tar con cui veniva bloccata la sperimentazione al cogeneratore e l’ENI aveva confermato la volontà di riattivare rapidamente i forni. In quell’occasione, tra l’altro, segnalammo come il Ministro Bersani e il sottosegretario Carpi avessero di fatto ignorato le richieste avanzate dagli enti locali in un incontro del 13 marzo (Inceneritore. No degli enti locali alla ripresa dei test dell’ENI, La Nazione, 27.05.1997). Ricordo di aver partecipato ad una manifestazione a Follonica nell’aprile 1998 (Mussi: ‘Il cogeneratore non s’ha da fare’, La Nazione, 21.04.1998). Inoltre, appoggiammo il ricorso al Tar contro il ministero dell’Industria, precisando che “non ci sono né ci saranno atti persecutori nei confronti dei lavoratori da parte della Provincia” (Cogeneratore, Gentili e Gennai in difesa dell’occupazione, Il Tirreno, 22.10.1997). Facemmo quella precisazione perché il ricorso lo avevamo inviato per conoscenza anche agli operai di ENI Ambiente in quanto coinvolti e non perché avevano presentato un ricorso contro il Comitato del No in favore del Cogeneratore, come qualcuno malignamente andava dicendo. Anzi, ribadimmo il nostro impegno per i problemi occupazionali di quell’area, invitando i lavoratori ad un incontro, che poi ci fu presso il loro stabilimento. Incontro schietto, per certi versi duro ma rispettoso, nel quale però non potei far altro che ribadire la nostra contrarietà al cogeneratore. Tra l’altro ebbi l’occasione di incontrare dopo tanto tempo un mio compagno di scuola che era proprio tra quegli operai. E questo rese ancor più faticoso il mio no. Ma non vedevo alternative.

Finché ho presieduto la Provincia ho sempre tenuto lontano l’inceneritore e i suoi uomini dal Piano provinciale dei rifiuti e ho sempre manifestato la mia netta contrarietà alla sua attivazione. Chissà che qualcuno non l’abbia ricordato a chi di dovere quando, a fine legislatura, si trattò di decidere se ripresentarmi alle elezioni del maggio 1999. Dopo tutto si trattava di dire SI o NO a Gentili. E fu detto NO. Stranamente somigliane al mio NO al cogeneratore di Scarlino.

Lo so, ho pensato male e quindi ho fatto peccato, ma come diceva Andreotti…










martedì 19 aprile 2022

POST 84 – IL NOSTRO IMPEGNO PER LE BONIFICHE

Rivendico la serietà e la concretezza della nostra azione politico-amministrativa tesa a far decollare le bonifiche dei siti inquinati delle colline metallifere mettendole in carico a chi aveva provocato l’inquinamento. Anche in risposta al grande inquisitore. Le sue accuse e la nostra risposta

Come detto nel precedente post, per dire le cose da noi fatte riguardo alle problematiche ambientali delle Colline Metallifere legate alle miniere e all’industria chimica, prendo a riferimento le accuse sulle cose non fatte che il consigliere provinciale, Roberto Barocci, ci ha rivolto ‘a freddo’ nel 2000 all’interno del suo pamphlet, ArsENIco. Andiamo, dunque, a vedere le cose di cui ci accusava e ci accusa nel suo pamphlet.

① DOVE ERANO FINITE LE TONNELLATE DI MERCURIO DEL CASONE DI SCARLINO PRESENTI NELLE PIRITI? La prima accusa riguardava la nostra presunta tiepidezza o inadempienza nel verificare le responsabilità dello stabilimento del Casone di Scarlino circa la presenza di mercurio in alcune falde idriche. A tal riguardo Barocci dice nel suo ArsENIco: di aver chiesto “invano ai responsabili provinciali del controllo sui rifiuti, anche con interrogazioni, dove fossero finite le tonnellate di mercurio” (pag. 35) presenti nelle piriti trattate nello stabilimento del Casone di Scarlino tra il 1982 e il 1994. Quesiti a cui volevamo rispondere anche noi, ma la cui risposta non era semplice e non poteva essere inficiata da tesi precostituite. Per questo favorimmo la costituzione di un Comitato Tecnico Scientifico al quale affidare il compito di individuare proprio le cause che avevano determinato la presenza anomala di mercurio in alcune falde idriche della nostra provincia. Tra l’altro, come ebbe a dire l’assessore Daniele Morandi nel Consiglio provinciale del 16 settembre 1998, i quesiti posti dal Barocci furono trasmessi al comitato stesso, tanto che il consigliere di rifondazione si dichiarò soddisfatto della risposta (cosa più unica che rara). Inoltre, sempre Barocci, aggiungeva di aver constato “l’inesistenza dell’incarico”, deciso dalla giunta Provinciale, di dar vita ad un Comitato scientifico proprio per verificare la presenza di mercurio nelle acque (nota 49, pag. 62). Naturalmente il Comitato esisteva, ed era dimostrato dal fatto che si era riunito, aveva prodotto decisioni e affidato incarichi operativi. La Provincia – che insieme alla Regione e altre autorità e aziende aveva costituito un Gruppo di Azione Locale – per lo studio sull’arsenico era addirittura l’unica che aveva messo risorse proprie. E, nella riunione del 28 maggio 1998, era stato stabilito di inserite nel Comitato 15 professionisti di alto valore scientifico tra ingegneri, architetti e professori universitari.

Riguardo alla sostanza della questione inquinamento da mercurio, Barocci – se non ricordo male – sosteneva che la presenza di mercurio nelle falde acquifere della costa follonichese fosse esclusivamente dovuta all’ambiente acido determinato dalle produzioni del Casone di Scarlino. La maggioranza dei tecnici invece sosteneva – sempre se la memoria non mi inganna – che il mercurio si può diffondere nell’acqua in presenza di un ambiente basico e allora, forse, una causa del fenomeno poteva essere l’intrusione e la diffusione del cuneo salino determinata dagli eccessivi pompaggi di acqua dolce e, nel caso, la responsabilità si sarebbe spostata su altri soggetti. Cosa che invece altri tecnici escludevano. E poi, come ricordava Morandi a gennaio 1999, “l’inquinamento di mercurio, purtroppo, non interessa solo l’acqua di alcuni pozzi della piana tra Scarlino e Follonica e nel comune di Orbetello. Il fenomeno è stato rilevato anche nel comune di Castiglione della Pescaia”. Comunque, era stato commissionato “uno studio per determinare le cause naturali e antropiche della eccessiva presenza di mercurio nelle acque da Follonica a Capalbio” (Morandi: ‘Un problema per tutta la provincia’, La Nazione, 22.01.1999).

La nostra attenzione nel comprendere quel grave fenomeno, come pure verso la realizzazione delle bonifiche minerarie, fu testimoniata sino alla fine della legislatura breve con l’organizzazione, il 19 febbraio 1999, dell’eloquente seminario su Bonifiche minerarie e presenza dell’arsenico negli acquiferi. 

② CHI DOVEVA ANALIZZARE LE CENERI E I FANGHI USATI PER RIEMPIRE LA MINIERA DI CAMPIANO? La seconda grave carenza di cui ci accusava era quella di non avere mai voluto procedere a fare analisi sulle ceneri ematitiche di pirite della Nuova Solmine e sui fanghi prodotti dall’impianto di epurazione delle acque, con cui era stato anche riempito, su disposizione del Distretto Minerario di Grosseto, il 45% dei vuoti sotterranei della miniera di Campiano. Dice infatti nel suo pamphlet: “Chiedemmo a Comuni, Provincia e Regione che fossero ripetute le analisi. Risposero che le ceneri erano state già analizzate e valutate” (pagg. 13 e 14). Intanto a noi non competeva fare quelle analisi, quindi la provincia non poteva farle; pertanto non eravamo noi il soggetto che poteva dire se quelle ceneri fossero nocive o meno. Inoltre, ci trovammo in presenza di un Distretto Minerario di Grosseto dal comportamento schizofrenico. All’inizio del 1997 comunicò all’Assessore regionale Claudio Del Lungo (per rispondere ad una interrogazione di tre consiglieri regionali di AN) che il materiale stoccato nella miniera di Campiano “non era tossico”. E lo disse basandosi su analisi effettuate dalla società Solmine e dall’Università di Pisa (Campiano, i fanghi nelle gallerie non sono tossici, La Nazione, 26.01.1997). Lo stesso Distretto Minerario, peraltro, nell’ottobre dello stesso anno rese note le analisi fatte su alcuni campioni di ceneri di pirite – prelevati nel lontano 1990 presso la Nuova Solmine ed elaborati nello stesso anno dalla USL di Piombino – che gli aveva inviato la Procura della Repubblica di Grosseto, segnalando che erano fuori norma per il contenuto in arsenico, per la cessione di elementi quali piombo, rame e cadmio e, pertanto, “erano da ritenersi tossiche e nocive”. Da diventare pazzi!

Continua Barocci: “Quando a fine ’97 e nei primi mesi del ’98 fu chiara l’entità del disastro ambientale, ritornammo a chiedere uno studio analitico sul territorio. L’Assessore provinciale all’Ambiente, Morandi, ci rispose nell’ottobre del ’97, dopo le segnalazioni ricevute dalla Magistratura, che non c’erano problemi, che il contenuto delle ceneri è da tempo noto e che la Regione Toscana le aveva testate e valutate” (pag. 25). Naturalmente Morandi non disse che non c’erano problemi, come dice falsamente il PM Barocci. Precisò, invece, che siccome le ceneri erano una realtà e non era dato farle scomparire, l’unica cosa seria da fare era quella di collocarle adeguatamente affinché non creassero danni all’ambiente. Poi ebbe a ricordare che lo stabilimento del Casone di Scarlino non produceva più ceneri di pirite e larga parte di quelle esistenti erano state stoccate, anni indietro, a piè di fabbrica, con un intervento per il quale fu presentato un progetto che doveva necessariamente certificare la conoscenza qualitativa del materiale – “dunque il loro contenuto è noto da tempo” – e prevedeva sistemi di controllo per monitorare eventuali effetti negativi sulle falde idriche e sull’ambiente in generale. “Quel progetto, approvato dalla Regione Toscana, competente per lo stoccaggio e lo smaltimento, fu eseguito dai proprietari della fabbrica, controllato nelle fasi di esecuzione da una apposita commissione e infine collaudato nel 1996, con prescrizione di ulteriori monitoraggi per i successivi 10 anni”. Infine aggiunse: “è giusto far sapere alla gente che altre ceneri presenti sul territorio sono oggetto di interventi di bonifica da realizzare in attuazione della legge regionale 29 del 1993 e su questo, Provincia e Comuni stanno assiduamente lavorando, pur nei limiti delle proprie competenze” (Morandi: ‘Ceneri, storia già sentita’, La Nazione, 26.10.1997).

Riguardo al materiale usato per riempire la Miniera di Campiano, la Provincia con il Gruppo di Lavoro Locale, istituito proprio per rendere operante il controllo della parte pubblica, aveva già richiesto dal 2 luglio 1998 l’adeguamento di un progetto preliminare d’indagine presentato dalla Mineraria Campiano e dettate le regole che potevano consentire di effettuare, da parte dell’Arpat, analisi in contradditorio dei campioni prelevati.  Ed anzi, fu sancito che “gli adeguamenti richiesti nel verbale di luglio avrebbero costituito la regola per l’attività successiva” (Consiglio provinciale del 16.09.1998). Tengo a segnalare che l’immediata attivazione del già citato Gruppo di Lavoro Locale fu anche la risposta con i fatti ai sindacati della FULC che, dopo la presentazione dei progetti da parte della Mineraria Campiano, avevano detto “a questo punto la palla passa agli enti territoriali” (La Campiano presenta 19 progetti per le bonifiche, La Nazione, 19.04.1998). Noi prendemmo la palla al balzo e volevamo fare goal.

③ LA NOSTRA PRESUNTA INAZIONE RITARDÒ L’AVVIO DELLE BONIFICHE? La precedente risposta di Morandi mi consente di entrare nella terza accusa che Barocci ci rivolgeva. Secondo l’inquisitore, con il nostro tergiversare e addirittura con una specie di azione di boicottaggio, avremmo anche noi contribuito a ritardare l’avvio delle bonifiche.

Nel solito pamphlet del 2000, dopo avere sbeffeggiato il sindaco di Massa Marittima, Luca Sani (utilizzando un intervento della segretaria del circolo di Massa del PRC probabilmente scritto da lui stesso), egli dice: “Altrettanto significativa di un atteggiamento che di fatto ritarda gli interventi di bonifica è la giustificazione data dall’Ass.re Morandi a nome della Giunta provinciale di Grosseto, in Consiglio Provinciale il 26 marzo scorso, quando ha sostenuto che l’art. 17 del recente Decreto Ronchi (22/97), che fissa i tempi di attivazione dei privati, obbligati alle bonifiche e le competenze dei sindaci che debbono diffidare i privati inadempienti e controllare che siano compiuti gli interventi urgenti, non sono applicabili…” (pag. 18). 

Il furbacchione per suffragare le sue tesi ha sempre teso a spezzettare le risposte altrui, mettendo i puntini di sospensione (…) dove più gli faceva comodo. Io non ho più il testo della risposta di Morandi, ma sicuramente il mio assessore gli avrà detto che la legge Ronchi, da poco approvata, non era ancora applicabile senza la traduzione normativa regionale.

In effetti il periodo in cui incappammo noi (specie dal 1997 al 1999) fu una fase di profonda evoluzione normativa: ci fu il decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 (decreto Ronchi) sui rifiuti, rifiuti pericolosi, imballaggi e poi, finalmente, la sua attuazione regionale con la legge della Regione Toscana n. 25 del 18 maggio 1998, che dettava norme in materia di gestione dei rifiuti e per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati.

L’evoluzione normativa finché non giunge al punto di caduta finale dà adito ad una molteplicità di interpretazioni su chi deve fare che cosa. E noi ci capitammo nel mezzo, giungendo il punto finale (anche se non definitivo) il 22 febbraio 1999, con la delibera della Giunta Regionale Toscana n. 166 relativa allo stralcio del Piano di gestione dei rifiuti riferito alla bonifica delle aree inquinate. Eravamo a tre mesi dalla conclusione della nostra legislatura. 

Quello definitivo ci sarà il 21 dicembre 1999 con il D.C.R.T. 384 (Piano Regionale delle Bonifiche), ma noi eravamo già stati bonificati dall’Azienda Provinciale C.T.P.V.A. (acronimo per eletti), più altri noti che stavano nel back office dell’Azienda.

L’inquisitore, mai sazio del sangue della sua vittima, chiosa nel pamphlet del 2000: “Le motivazioni dei ritardi usate da questi amministratori sono le stesse nel tempo: c’è sempre una legge nuova non applicabile” (pag. 18). Non merita risposta.

Anche perché aggiunge poche righe sotto: “La Giunta provinciale del Presidente Gentili arrivò a sostenere che le analisi chimiche, che potevano certificare l’inquinamento in atto e giustificare l’avvio della legislazione sulle bonifiche, dovevano essere fatte dal soggetto che aveva inquinato e che la pubblica amministrazione non aveva strumenti per imporle. Una amministrazione, che in un solo anno deliberò per incarichi a professionisti esterni oltre 3 mila milioni, non riuscì a trovare una giustificazione migliore!” (pag. 18-19). La volgare sfrontatezza di questo signore – oltre a far finta di non sapere che se un’azione amministrativa non ti compete non puoi proprio farla, anche se costa 50 centesimi – non riesce neppure a dire: bravo Gentili che hai pubblicato, per moralità e trasparenza, tutti gli incarichi professionali, le docenze per la formazione professionale (con nomi e importi dei beneficiari) dati dalla provincia di Grosseto. Non era mai stato fatto prima e, se non sbaglio, non sarà più fatto dopo. Ma per l’inquisitore erano quisquiglie, il moralizzatore era solo lui e quello che contava era mettere fango nel ventilatore.

Ovviamente, in attesa della nuova norma regionale, vigeva ancora il Piano Regionale di Bonifica del 1993, che permetteva di avanzare proposte di inserimento di nuovi siti da bonificare, ma ci volevano i tempi e i passaggi necessari. Ribadisco, peraltro, che il più volte richiamato mancato inserimento dei siti minerari in quel Piano non poteva essere addebitato a noi (che nel ’93 facevamo altre cose), come pure considero una carognata prendere a pretesto la risposta ad una interrogazione orale dell’assessore regionale De Lungo il quale, nel settembre 1996, diceva che “…  allo stato attuale non sono pervenute al Servizio richieste puntuali e formali, da parte della stessa Provincia, di inserimento di ulteriori aree minerarie dismesse, nel Piano Bonifiche” (pag. 14). Perbacco si dirà, Gentili e la sua amministrazione erano in Provincia già da un anno. Ma va là. 

④ IN REALTÀ NOI ERAVAMO ALL’OPERA, seguendo le procedure previste, insieme ad altri soggetti e istituzioni per mappare con esattezza i siti inquinati. Prova ne è, ad esempio, l’importante convegno tenuto a Massa Marittima il 30.10.1997 – al quale ricordo di aver partecipato insieme ai miei assessori Morandi e Gennai e al consigliere provinciale Tonelli – dal titolo, La bonifica delle aree interessate dall’attività mineraria e industriale, organizzato da noi, i Comuni interessati, l’Arpat e il Dipartimento ambientale della Regione Toscana, coordinato dalla Provincia e introdotto dall’Assessore Daniele Morandi. Fu proprio quest’ultimo ad illustrare che la prima fase di approccio al piano, quello della individuazione delle aree e dei siti da bonificare, poteva dirsi – appunto – completata con la delibera regionale (n. 1118 del 6.10.1997) che le aveva accolte in un elenco, comunque passibile di ulteriori integrazioni. Era stato un lungo e meticoloso lavoro che l’Arpat, di concerto con gli Uffici provinciali, aveva svolto sul territorio in collaborazione con le amministrazioni locali e che avrebbe permesso di dare concretamente avvio alle fasi successive, in cui protagoniste in prima persona sarebbero dovute divenire le società proprietarie delle aree sulle quali, per legge, incombeva l’obbligo della bonifica e del recupero.

Le ditte interessate, entro termini ristretti, avrebbero dovuto presentare studi dettagliati da sottoporre ad un gruppo di lavoro e, dato da questo il nulla osta, iniziare il lavoro di ricerca e quello molto più delicato di analisi anche profonde dei terreni interessati, elaborando il progetto di bonifica. Dopo l’intervento del direttore dell’Arpat, Lippi (che “ha assicurato che quanto previsto dalla legge regionale 29 verrà applicato alla lettera”), presero “la parola Stefanini, Priami e Maddalon dei verdi del comprensorio (alcuni dei protagonisti del comitato di Boccheggiano), Bovicelli della federazione provinciale di Rifondazione Comunista (compagno di Barocci), Salusti della Cisl. Tutti hanno espresso soddisfazione per quanto è stato fatto e programmato, esprimendo parole di elogio nei confronti dell’Arpat, rammaricandosi soltanto per i ritardi accumulati e formulando alcune proposte riguardanti un più diretto coinvolgimento dei sindaci” (Miniere, individuati i luoghi da bonificare, Il Tirreno, 31.10.1997). Il cronista di quel convegno annotava anche un diverbio tra Barocci e il sindaco di Montieri, Giancarlo Bastianini, (ma i due c’erano abituati) relativo all’impiego delle ceneri nel riempimento delle gallerie di Campiano. L’inquisitore non smetteva mai di ringhiare. Era incontenibile.

Ulteriore riprova del nostro attivismo sarà anche il citato seminario del 19 febbraio ’99 dal titolo, Bonifiche minerarie e presenza di mercurio negli acquiferi. Infatti, tre giorni dopo da quel seminario, il 22 febbraio, la Giunta regionale Toscana adotterà la Delibera n. 166 relativa allo stralcio di Piano di gestione dei rifiuti riferito alla “Bonifica delle aree inquinate”. In quella delibera entrarono i siti delle Colline Metallifere (16 a Massa Marittima, 10 a Montieri, 1 a Scarlino) e di altre zone della provincia. Amen!

⑤ LA TESTARDAGGINE. Figurarsi se il famelico Barocci poteva essere soddisfatto del risultato raggiunto. Non sia mai. Iniziò a dare battaglia sulla esclusione dalle bonifiche del sito di Eni Ambiente (detto “ex-impianto di pellettizzazione”) criticando l’Arpat, il Gruppo di Lavoro Locale, il Comitato Tecnico Scientifico perché – a suo dire – non avevano tenuto conto “né degli studi fatti in passato sulle anomalie geochimiche, né soprattutto delle attività industriali esercitate in quel territorio negli ultimi anni”. (ArsENIco, pag. 42).

La risposta toccò di nuovo al paziente assessore Morandi che, nel Consiglio provinciale del 19 gennaio 1999, ricostruì la vicenda. La riporto, perché mi sembra molto istruttiva.

“Nel 1997 il Comune di Scarlino chiese che l’Arpat verificasse le condizioni di alcuni siti utilizzati per la produzione industriale per valutare l’opportunità di chiedere alla Regione Toscana di inserirli nell’elenco previsto dalla legge 29 del 1993 e, conseguentemente, attivare le procedure per la loro bonifica. La Regione Toscana elaborò un rapporto che prevedeva l’inserimento di tutti i siti proposti e tra questi anche un terreno di proprietà di Eni Ambiente denominato ex-impianto di pellettizzazione. Nei 60 giorni successivi, come previsto dalla legge, Eni Ambiente presentò opposizione, motivando la richiesta con una documentazione tendente a dimostrare che l’area in questione era già stata ripulita dai resti della demolizione di una ciminiera e che l’eccesso di arsenico rilevato in quei terreni non era un fatto imputabile all’attività dell’uomo, ma alla natura stessa dei suoli, cioè che la concentrazione anomala di arsenico era, in quei luoghi, ubiquitaria. Di conseguenza la Regione affidò al Gruppo di Lavoro Locale il compito di verificare la documentazione proposta ed esprimere un proprio parere sulla richiesta di esclusione avanzata da Eni Ambiente.

Nello svolgimento del lavoro il Gruppo non si limitò all’analisi e alla valutazione della documentazione presentata dalla società, ma ritenne opportuno che venissero effettuati una serie di sondaggi per estrarre campioni dei terreni, secondo un programma che prevedeva la realizzazione di 12 carotaggi, 3 nel terreno detto ex-impianto di pellettizzazione e 9 all’esterno del perimetro industriale. I sondaggi furono effettuati sino a raggiungere 6 metri di profondità e provvidero ad eseguire esami su campioni prelevati ad ogni metro di carota estratta. Questo metodo fece rilevare una presenza anomala di arsenico, anche se disomogenea, sia che provenisse dalla zona incriminata che dall’esterno. In ragione di ciò l’Arpat, che coordinava il Gruppo di Lavoro, elaborò una relazione tecnica in cui esprimeva il proprio parere favorevole dall’esclusione del sito dall’elenco della legge 29. La relazione fu inviata alla Regione Toscana per la sua scelta finale, dopo avere anche sentito il parere del Comitato Tecnico per lo smaltimento dei rifiuti. Tuttavia nell’ultima fase della procedura intervenne la modifica della legislazione nazionale (il decreto Ronchi) e regionale che produsse cambiamenti delle competenze e dei ruoli, cosicché la Regione non poté giungere, ai primi del 1999, ad una decisione finale”.

Sentiti i componenti del Gruppo di Lavoro Locale, Morandi escluse anche “che fossero stati presi in esame studi tecnici relativi allo spolverio dei rifiuti della lavorazione industriale. Ma il problema, serio e rilevante, dello spolverio affrontato in passato anche con interventi prescrittivi emessi nei confronti delle aziende chimiche e minerarie e accompagnati da ampia pubblicità, era ben presente a molti componenti del Comitato Tecnico Scientifico, ma non fu da loro ritenuto attinente a quella specifica ricerca. Né furono presi in esame altri studi sui sedimenti del bacino del fiume Pecora e nessuno dei partecipanti informò dell’esistenza di lavori di ricerca specifica effettuati negli anni precedenti”.

⑥ L’AMBIGUO INQUISITORE E LA NOSTRA COSCIENZA PULITA. Dunque, ammesso anche che i cattivi fossimo io, Morandi, la mia Giunta e la maggioranza del nostro Consiglio Provinciale, come mai il Consiglio Provinciale n. 90 del 30 luglio 1999, Presidente Lio Scheggi, con Rifondazione Comunista finalmente in maggioranza e presente in Giunta provinciale con l’assessore Bovicelli, non prese minimamente in considerazione la formale opposizione alla “esclusione del sito Eni dalle Bonifiche” (ArsENIco, pag. 47) presentata da Barocci e altri? Anzi, prese formale parere di esclusione del sito Eni dalle bonifiche? Perché, se la cosa era così seria e grave, Rifondazione Comunista non andò all’opposizione e perché Bovicelli non si dimise? Lo so, sono stato lungo. Ma dovevo rispondere alle accuse di Barocci rivolte a me e alla mia amministrazione. 

Alla luce di quanto detto – anche in risposta al grande inquisitore che certamente rimarrà chiuso nelle sue convinzioni (“… quel bacio gli brucia nel cuore, ma il vecchio non muta la sua idea”, F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov) – posso rivendicare la serietà, correttezza e concretezza della nostra azione politico-amministrativa volta a far decollare le bonifiche dei siti inquinati delle Colline Metallifere. 

Mentre scrivo mi viene in mente un ingenuo Daniele Morandi che, già nel Consiglio provinciale del 16 settembre 1998, invitava Barocci a ricredersi rispetto alla volontà politica della nostra amministrazione, che “era sempre stata e rimaneva quella di risanare il territorio ponendo i relativi oneri a carico di coloro che avevano provocato l’inquinamento”.

Allora fu come dare il concime alle colonne e anche in seguito sarà lo stesso, vista l’accusa contenuta nel suo pamphlet del 2000, rivolta anche a noi, di aver contribuito “ad avvelenare la Maremma sino alla catastrofe ambientale”.

Accusa che ancora oggi respingo con sdegno.