lunedì 31 dicembre 2012

7. ALCUNI PICCOLI-GRANDI CAMBIAMENTI DA PRIMA A DOPO IL CONCILIO VATICANO II


Nel 6° intervento introduttivo abbiamo ricordato che le massime autorità ecclesiastiche prediligono rappresentare il Concilio Vaticano II sulla linea della “riforma”, piuttosto che su quella della “rottura”.
Sia come sia… va però detto che quell’evento ha cambiato molte cose.
Il Concilio Vaticano II, infatti, ha rappresentato un vero e proprio spartiacque per tutta una serie di atteggiamenti della Chiesa, di prassi ecclesiastiche, di modi di vedere e di agire sedimentatesi nei secoli e non sempre riferibili a Gesù o ai primi apostoli.
Proviamo a fare alcuni esempi.

PRIMA: il celebrante durante la messa stava con le spalle rivolte al popolo.
DOPO: il celebrante si è posizionato con il volto rivolto al popolo.        

PRIMA: la messa era in latino. 
DOPO: la messa si è iniziata a celebrarla nelle lingue nazionali.

PRIMA: gli ebrei, nella preghiera del venerdì santo, erano definiti “perfidi giudei”. Giovanni XXIII volle eliminare quella sgradevole definizione.
DOPO: nel documento conciliare Nostra aetate (dichiarazione sulle religioni non cristiane) al n. 4 si dice, tra l’altro: “la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua razza: ‘ai quali appartiene l'adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine”.
E con Giovanni Paolo II, alcuni anni dopo, si giungerà a definirli “nostri fratelli maggiori”.

PRIMA: gli altri cristiani nel catechismo erano definiti “scismatici, eretici, condannati all’eternità dell’inferno”.
DOPO: diventano i nostri fratelli con cui rendere testimonianza all’unico Cristo e progettare una Chiesa casa comune. Nel decreto Unitatis redintegratio sull’Ecumenismo la parola fratelli è citata 26 volte.

PRIMA: il movimento ecumenico era considerato come pericoloso e inaccettabile.
DOPO: viene dichiarato un evento di grazia, una vocazione, un’ispirazione dello Spirito Santo.

PRIMA: la libertà religiosa era negata (l’errore non ha diritti, si diceva).
DOPO: “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa” (Dignitatis umanae, dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 2).

PRIMA : la libertà di coscienza era condannata.
DOPO: “Non si deve quindi costringerlo (l’uomo) ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa” (Digitatis umanae, n. 3).

PRIMA: la lettura della Bibbia era vietata al semplice cristiano.
DOPO: la Parola viene accolta e si spinge affinché tutti abbiano largo accesso alla Scrittura e si dice, anzi, ripescando S. Girolamo, che “L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo” (Dei Verbum n. 25).

PRIMA: il mondo moderno era condannato come diabolico.
DOPO: diviene il luogo teologico dell’incontro con Dio, dove sono sparsi i semi del Verbo e pertanto: “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes, costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 1).

PRIMA: la Chiesa era prevalentemente rappresentata come ‘società perfetta’.
DOPO: la Chiesa decide di definirsi come ‘popolo di Dio’.

Vi sembrerà poco, a me no.

Stefano Gentili

sabato 15 dicembre 2012

L’ OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (4)


PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 d)
Riprendiamo il ragionamento della volta scorsa con questa ultima lettera sul tema della guerra, dirigendoci sommariamente – sotto la guida di Giulio Cesareo – verso  questioni più specifiche di etica normativa, nei confronti di taluni spinosi problemi, che riguardano direttamente ciò che è negazione della pace.

Il dovere di limitare l’inumanità della guerra. Abbandonato, di fatto, il tono profetico della condanna assoluta della guerra, così come era stata espressa in Pacem in terris, si assume, invece, come realtà l’esistenza dei conflitti armati e, a causa della potenza distruttiva degli armamenti moderni, è più che mai necessario essere almeno in grado di gestire e governare la ferocia dei conflitti, potenziando gli strumenti giuridici internazionali di controllo già esistenti e istituendone di nuovi. È il caso delle convenzioni sul trattamento dei prigionieri, dei feriti, ecc.
“Esistono, in materia di guerra, varie convenzioni internazionali, che un gran numero di nazioni ha sottoscritto per rendere meno inumane le azioni militari e le loro conseguenze: tali sono le convenzioni relative alla sorte dei militari feriti o prigionieri e varie stipulazioni del genere” (GS 79).

Si parla poi dell’obiezione di coscienza, che viene accettata dai Padri Conciliari, anche se non con particolare entusiasmo. Il concilio Vaticano II si pronuncia in modo più cauto, non prende posizione sulla verità oggettiva della decisione dell’obiettore di coscienza e si limita a raccomandare un benevolo trattamento giuridico nei suoi confronti da parte delle entità statali.
L’obiezione di coscienza al servizio militare viene così per la prima volta citata in un documento magisteriale: essa risulta priva, tuttavia, di ogni connotato e caratterizzazione cristiana.
“Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l'uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana” (GS 79).
Nella Gaudium et spes l’obiezione è imposta per la guerra totale o altamente distruttiva, mentre l’obiezione di coscienza nella legittima difesa o al servizio militare in tempo di pace sono solo tollerate. Il documento invita i governanti ad avere comprensione verso gli obiettori, ma non c’è una fondazione etico-teologica, o biblica di questa esortazione.
Certo, sempre meglio, molto meglio, dell’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana che “…considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà” (11.02.1965) ai quali rispose don Lorenzo Milani “…se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è ‘estraneo al comandamento cristiano dell'amore’ allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!” (Lettera di don Lorenzo Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell'11 Febbraio 1965).

A causa della presente situazione dell’umanità, segnata dal peccato e ancora priva di strumenti adeguati a evitare la guerra, bisogna continuare a poter esercitare il diritto alla legittima difesa, poiché uno dei compiti principali dell’organizzazione nazionale è quella di tutelare la difesa e l’incolumità dei propri cittadini.
La legittima difesa (sia personale, sia in guerra), insieme alla pena di morte, secondo la dottrina tradizionale, consiste in una sorta di deroga al comando “Non uccidere”. “Anzi, proprio se letto a partire da queste eccezioni, tale divieto acquisterebbe in precisione semantica, dovendo essere sostanzialmente inteso come divieto di uccidere l’innocente. […] 
Non è innocente, e cioè (oggettivamente) ‘colpevole’, l’ingiusto e violento aggressore, colui che senza alcun fondamento (almeno legale) pone in pericolo diritti essenziali della persona aggredita […] senza lasciarle possibilità alcuna di difenderli se non una reazione caratterizzata da una violenza analoga (cioè simmetrica) rispetto a quella causata dall’aggressore” (F. D’Agostino).
Difesa, tuttavia, non vuol dire attacco, non vuol dire rappresaglia o vendetta: il fine della difesa, in altre parole, non rende tutto lecito e, soprattutto, non autorizza all’uso di qualsiasi tipo di arma.
“E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà una autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa” (GS 79).
Il Concilio Vaticano II riafferma, dunque, il diritto di ogni stato ad una legittima difesa, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, ma si nega che oggi tale principio possa trovare ragionevole applicazione, nel senso che la distruttività della guerra moderna, anche quella condotta con armi convenzionali, supera di gran lunga i limiti di una legittima difesa.

Anche l’esercito, nella misura in cui i componenti agiscono nella legalità e nell’adempimento dei loro compiti, è una realtà da apprezzare perché finalizzata all’edificazione della pace.
“Coloro poi che, dediti al servizio della patria, esercitano la loro professione nelle file dell'esercito, si considerino  anch'essi come ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli e, se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch'essi veramente alla stabilità della pace” (GS 79).

Il testo della Gaudium et spes poi prosegue ad una valutazione etica di ciò che i vari Stati propongono come mezzi dissuasivi nei confronti dei conflitti armati e della guerra in generale, vale a dire la corsa al riarmo e la deterrenza nucleare.
La corsa agli armamenti non è valutata dal Concilio con particolare gravità: si riconosce che ha un qualche valore effettivamente dissuasivo e deterrente ed è, pertanto, ritenuta accettabile, anche se a denti stretti, sulla scia delle affermazioni fatte in precedenza circa la legittimità della difesa armata e della guerra, che può essere considerata, a volte, un male minore.
“Poiché infatti si ritiene che la solidità della difesa di ciascuna parte dipenda dalla possibilità fulminea di rappresaglie, questo ammassamento di armi, che va aumentando di anno in anno, serve in maniera certo inconsueta, a dissuadere eventuali avversari dal compiere atti di guerra. E questo è ritenuto da molti il mezzo più efficace per assicurare oggi una certa pace tra le nazioni” (GS 81).

Si evidenziano, tuttavia, anche le contraddizioni di questo incessante incremento del potenziale bellico.
Con esso, infatti, non è ragionevole pensare al raggiungimento di una stabile pace, bensì, a lungo termine, non condurrà a nient’altro che ad una catastrofe di dimensioni mondiali.
“La corsa agli armamenti […] non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerra anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. […] C'è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi” (GS 81).

Si nota, inoltre, che la continua produzione, ricerca, investimento di capitale finanziario e umano in questa folle corsa alla costruzione di sempre più sofisticati strumenti di morte, si dimostra gravemente ingiusta e intollerabile nei confronti dei poveri del mondo, in modo speciale dei Paesi poveri del Terzo e Quarto Mondo.
“La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell'umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri” (GS 81).

La deterrenza nucleare è trattata nell’insieme del discorso sul riarmo. La prima affermazione del numero 81, tuttavia, si riferisce direttamente alle armi di distruzione di massa e, in primis, a quelle nucleari: “le armi scientifiche, è vero, non vengono accumulate con l'unica intenzione di poterle usare in tempo di guerra”.
Viene dunque proposta come discriminante, dal punto di vista etico, la distinzione morale tra il semplice possesso (a fini dissuasivi) di armi di tipo Atomico-Biologico-Chimico (che è dichiarato moralmente accettabile nella presente situazione storico-politica), e il loro effettivo utilizzo, chiaramente condannato al paragrafo precedente.
“Senza dubbio, ebbe a dire il card. B. J. Alfrink, è necessario stabilire una distinzione tra il possesso delle armi e il loro uso […] È necessario proclamare apertamente che l’unico rimedio contro l’equilibrio del terrore sta nella diminuzione, poi nell’abolizione delle armi moderne” (Fesquet).
Anche la deterrenza, comunque, viene compresa come una realtà che deve essere di passaggio: il fine da raggiungere è quello di una sicurezza fondata sulla fiducia e lealtà internazionali. Su queste basi, poi, sarà possibile organizzare un vero e proprio disarmo.
“È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l'accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra” (GS 82).

In conclusione, ritengo si possa dire che il passaggio dalla posizione profetica della Pacem in Terris a quella politica della Gaudium et spes fu in parte legato alle contingenze geopolitiche del periodo e certamente alle posizioni diversificate presenti all’interno dei Padri conciliari.
Ma una qualche influenza può averla avuta anche l’intervento di Paolo VI all’ONU - (Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 20° anniversario dell’organismo,  4.10.1965) - che in qualche modo deluse le attese di coloro che sostenevano una condanna completa della guerra atomica, anche per ragioni di legittima difesa e della deterrenza nucleare: “Tant que l'homme restera l'être faible, changeant, et même méchant qu'il se montre souvent, les armes défensives seront, hélas!, nécessaires”.
A partire da queste affermazioni, è come se il Pontefice avallasse di fatto “la guerra come frutto irrimediabile del peccato e perciò tipico della condizione attuale dell’uomo e della Chiesa” (Alberto Melloni).

Uno dei protagonisti di quell’assise, il card. Giacomo Lercaro, nel suo intervento al Concilio presentato scritto dopo il 14 ottobre 1965, si posizionò tra coloro che avrebbero desiderato un testo più audace perché più legato al Vangelo, nella promozione di una pace fondata sulla fiducia in Cristo e non nella presunta protezione offerta dalle armi: “Così la Chiesa non può neanche interinalmente ratificare i discorsi umani sull’equilibrio del terrore […]. Deve invece dire a tutti i possessori di quelle armi che non è lecito produrle e conservarle e che hanno l’obbligo categorico di giungere assolutamente e subito […] alla distruzione simultanea e totale di esse. Questo è il compito della Chiesa”.
Egli riteneva, infatti, che fossero assolutamente illeciti non solo l’uso, ma anche il possesso e la produzione di armi nucleari, perché esse, con la loro potenza, ponevano le nazioni nell’occasione prossima di compiere gravissimi delitti contro l’umanità; in secondo luogo sosteneva che, raggiunto quello stadio di sviluppo tecnologico, la guerra e la legittima difesa dovessero essere totalmente bandite.
Ciò non toglie che le affermazioni forti di Gaudium et spes restano e continuano ad avere il loro peso e hanno motivato e spingeranno la ricerca e l’approfondimento.
E provvidenzialmente il paragrafo 5 del discorso di Paolo VI all’ONU si era aperto con le parole, profetiche e realiste – “Jamais plus la guerre, jamais plus la guerre! C'est la paix, la paix, qui doit guider le destin des peuples et de toute l'humanité!”.

Stefano Gentili

martedì 11 dicembre 2012

L’OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (3)


PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 c)
Prima di parlare della guerra che ancora funesta la scena del mondo, la Gaudium et spes parla della pace e di quanto la definisce.
Ma al fine di completare il nostro ragionamento sulla guerra, continuiamo concludendo la nostra riflessione, suddivisa in questa lettera e nella prossima.

“OGNI ATTO DI GUERRA … È DELITTO CONTRO DIO E CONTRO LA STESSA UMANITÀ”
Nella precedente lettera avevamo esordito con i Padri conciliari che dicevano di essere obbligati “a considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova” (GS 80).
E questo accadde, ma probabilmente non traendone tutte le evangeliche conseguenze.
Vediamo il perché.

Chi conosce la storia della Gaudium et spes sa che essa è stata oggetto di molte letture e riletture perché –diciamo così – variopinte erano le opinioni dei padri conciliari.
Di fronte ad una lettura attenta dell’iter redazionale seguito dal testo per arrivare alla sua stesura finale, ci si rende conto della complessità della sua formulazione a causa delle numerose critiche che ad ogni lettura le venivano fatte dai Padri, che rimandavano indietro lo schema, per ulteriori correzioni.
La redazione finale è stata frutto, dunque, del complesso lavoro di mediazione della sottocommissione che ha portato alla stesura di un compromesso il quale, alla fine, come tutti i  compromessi, ha lasciato scontenti molti, anche se con ragioni diametralmente opposte (Giulio Cesareo).
Proprio sulla questione della condanna della guerra totale, il confronto tra le varie correnti e posizioni fu molto acceso: da una parte il card. Feltin e il card. Alfrink, presidente internazionale di Pax Christi, fautore di un testo che condannasse in modo chiaro e netto ogni guerra nucleare (ai quali si aggiunse lo stesso card. Ottaviani: famosa e impressa nel Concilio fu la sua frase “Bellum omnino interdicendum” – la guerra è sempre da condannare); dall’altra il card. Spellman, vescovo ausiliare di Washington, mons. Hannan, arcivescovo di New Orleans, e l’arcivescovo di Liverpool, mons. Beck, che “hanno soprattutto insistito sui servizi che la bomba atomica potrebbe rendere e sulla legittima difesa”.
“Mons. Roberts ci ha dichiarato in proposito: ‘Questi due interventi sembrano preparati dal Pentagono’. […] Per quei due vescovi anglosassoni non è, sembra, impensabile che si possa, nel caso, difendere la civiltà cristiana con le armi nucleari. Questa è almeno l’interpretazione che non si mancherà di dare ai loro interventi, quali che siano la purezza di intenzioni e le evidenti difficoltà del soggetto” (Henri Fesquet).

L’episcopato era diviso tra i fautori di una condanna radicale del possesso e dell’uso delle armi nucleari e coloro che, invece, accettavano l’uso di armi nucleari tattiche. I vari schemi del testo erano stati più volte rimandati indietro e il lavoro della commissione fu proprio quello di cercare una conciliazione almeno verbale delle due correnti.
Ciò che è emerso alla fine sembra un passo se non indietro, almeno laterale, rispetto alle affermazioni della Pacem in Terris.
Si può forse dire che quest’ultima era caratterizzata da un afflato profetico, la Gaudium et spes da un’attenzione politica. Con l’aggettivo “politica” o “realistica” si suggerisce la necessità di mediare fra la purezza dell’ideale e la dura realtà, fra le esigenze della morale o del diritto e le situazioni concrete che vanno governate.

Comunque sia, dirigiamoci verso le affermazioni conciliari, dicendo subito in premessa che per il Concilio il concetto di guerra giusta è ormai esaurito anche se azioni militari di difesa “e l’equilibrio del terrore trovano ancora una stentata e contorta ma reale giustificazione” (Giuseppe Alberigo); superato è anche il concetto di sovranità che deve cedere dinanzi al bene comune del genere umano.
La sovranità di uno stato è sempre limitata dal bene dell’umanità; e l’idea di guerra giusta era totalmente dipendente, a partire dal XVI secolo, dalla sovranità dello stato.
L’unico esercizio lecito di violenza di stato al suo esterno si configura nella legittima difesa, non nella guerra di legittima difesa: pertanto siffatte azioni belliche dovranno sottostare alle rigorose condizioni della legittima difesa.

Saranno l’introduzione del concetto di universa familia humana [“Il mondo che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive” (GS 2)] e di quello conseguente di bene comune dell'intera famiglia umana - [“Pertanto ogni gruppo deve tener conto dei bisogni e delle legittime aspirazioni degli altri gruppi, anzi del bene comune dell'intera famiglia umana” (GS 26)] - le novità che apriranno la strada a quanto detto in precedenza e potranno condurre alla condanna della guerra totale.

Una dura condanna quest’ultima, espressa con forza e radicalità – se non erro, l’unica vera condanna conciliare – che viene formulata in modo formale e solenne, seguendo lo schema classico di ogni sentenza ecclesiastica, come ricorda Enrico Chiavacci.
Leggiamo la parte centrale del paragrafo 80.

“His attentis, haec Sacrosancta Synodus, …declarat:”
“Avendo ben considerato tutte queste cose, questo Sacro Concilio, … dichiara:”
[“His attentis” è l’equivalente nello stile curiale della formula “per questi motivi” delle sentenze civili; “haec Sacrosancta Synodus” è  l’autorità emanante la sentenza: qui è il Concilio che si nomina nella forma più solenne con le tradizionali maiuscole.
Dopo i due punti il testo va a capo e riprende con una maiuscola. Cosa che mai si fa né in italiano, né in latino. Questo modo di procedere è invece consueto nello stile giudiziario ecclesiastico, in quanto la frase che segue in due punti è il dispositivo della sentenza, che ha una sua vigenza ormai autonoma e può essere citato anche staccato dal contesto].
Ecco la sentenza di irrevocabile condanna:
“Omnis actio bellica quae in urbium integrarum vel amplarum regionum cum earum incolis destructionem indiscriminatim tendit, est crimen contra Deum et ipsum hominem, quod firmiter et incunctanter damnandum est.”
Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione.”

Non è la condanna della guerra in sé in quanto contraria al vangelo, come volevano alcuni.
E’ la condanna di quella che veniva indicata con le prime lettere dell’alfabeto (ABC: atomica – biologica – chimica) come guerra totale, che coinvolgeva i civili oltre agli stessi combattenti.
La condanna è comunque chiara e decisa: pertanto esiste un vincolo morale assoluto.
È senza dubbio una delle affermazioni più importanti e impegnative in cui il Concilio si lancia.

Stefano Gentili