giovedì 24 gennaio 2013

Documenti conciliari: GAUDIUM ET SPES – “IL SIGNORE E’ IL FINE DELLA STORIA”


C’eravamo lasciati nell’ultimo intervento ricordando che il “rivoluzionario” cambio di prospettiva attuato dalla Gaudium et spes - cioè la condizione storica della famiglia umana diviene aspetto indispensabile per la missione della chiesa – nel documento conciliare si concentra su due espressioni: “Il Signore è il fine della storia” e “I segni dei tempi”.
Analizziamo la prima espressione.

Affermare che “il Signore è il fine della storia” (GS 45) vale a dire che la vicenda dell’intera famiglia umana ha una precisa destinazione: si trova in cammino verso l’adempimento del progetto eterno di Dio e di questo adempimento la chiesa si pone a servizio.
Il disegno divino - vero disegno di salvezza - è la trasformazione della famiglia umana in famiglia di Dio (GS 40), che avverrà perfettamente solo l’ultimo giorno.
Ma ciò segna anche il compito e la direzione del cammino della famiglia umana; e quindi segna anche il compito della chiesa: essere “lievito e quasi anima” della storia umana (GS 40). La Lumen Gentium parla in questo senso preciso della chiesa come “sacramento” (LG 48) e cioè come segno visibile ed efficace della presenza di Dio nella storia umana. Così facendo la chiesa non fa altro che continuare nel tempo la missione stessa di Cristo.

La stessa vita della famiglia umana considerato come un tutt’uno, nel suo continuo svolgersi, è dunque di diretto interesse per la missione soprannaturale della chiesa, ed è anche l’oggetto specifico della riflessione teologica: oggetto legittimo e doveroso, quindi, anche per un solenne documento di un concilio ecumenico.

Il traguardo della storia - la famiglia umana trasformata in famiglia di Dio -  è allora una comunità legata dal vincolo perfetto della carità. Di qui nasce l’attenzione della GS al tema sociale in genere: l’uomo non può trovare la sua piena realizzazione se non nel dono sincero di sé (GS 24).
Questa logica di convivenza deve concretizzarsi in tutte le forme e le strutture di relazione: dalla famiglia, agli stati, alle etnie, all’umanità intera. E’ questa la radice di ogni impegno della chiesa nel sociale: impegno che non ha mai fine, data l’umana imperfezione e il continuo fluire della storia, che crea situazioni e strutture sempre nuove.
Impegno che per il vangelo e per la chiesa ha un nome biblico preciso: l’impegno per la pace.
Impegno che, su basi rigorosamente bibliche, si specifica in due direzioni:
** l’impegno contro ogni stato di cose oppressivo, contro ogni forma di dominio o di prevaricazione del potente sul debole; 
** l’impegno per una fraternità universale, e quindi per una solidarietà o corresponsabilità per l’altro, indipendentemente dalla sua cittadinanza o razza o cultura.

Può essere anche interessante notare due cose, rammentate dal teologo Enrico Chiavacci.
In tutti i testi di apologetica e di teologia fondamentale  della prima metà del novecento il tema del “regno” è sempre riferito alla chiesa: la chiesa è il luogo ideale dei salvati.
In GS il regno è destinato all’umanità intera: il trionfo finale spetta alla famiglia umana, non alla chiesa; la chiesa è solo serva di questo progetto divino. Così il temine “regno” riacquista tutta la valenza sociale, ben evidente nei profeti e nei vangeli.

Nella citata concezione di pace troviamo la visione del mondo e dell’umanità propria di Tommaso, per il quale il vero bene comune, a cui tende tutto il creato, è Dio.
Dunque, inserirsi attivamente nella società in cui la Provvidenza ci ha posto è inserirsi nel disegno cosmico di Dio. Questa idea cosmologica della via verso la salvezza si era persa negli ultimi secoli, ma ritorna con GS. Solo che al posto di una visione statica del cosmo subentra una visione dinamica, cioè la visione della storia dell’umanità che cerca il suo cammino di salvezza, e tende verso il suo traguardo non solo come singola anima, ma anche come famiglia umana.

Pertanto, oggi un cristiano che si limitasse a guardare la storia o a subirla, senza sentire il dovere di esserne attore, non sarebbe neppure nel cammino della propria salvezza individuale.

Stefano Gentili

lunedì 21 gennaio 2013

Documenti conciliari: LA NOVITÀ TEOLOGICA DELLA GAUDIUM ET SPES


La Gaudium et spes (d’ora innanzi GS) non è un documento secondario o esortativo del Concilio Vaticano II, ma una “costituzione” e cioè un documento dottrinale di primaria importanza.
Non entro nel merito della discussione circa la qualifica di “pastorale” della GS. E’ comunque massimamente importante riflettere sulla “nota” al titolo del documento:
“La Costituzione Pastorale ‘Sulla Chiesa nel mondo contemporaneo’ consta di due parti, ma è un tutto unitario. La Costituzione è detta ‘Pastorale’ perché, basata sui principi dottrinali, intende esporre l’atteggiamento della Chiesa verso il mondo e gli uomini d’oggi. Non manca dunque né l’intento pastorale nella prima parte, né l’intento dottrinale nella seconda. Nella prima parte la Chiesa sviluppa la sua dottrina sull’uomo, sul mondo nel quale l’uomo inserito e sul suo rapporto con queste realtà . Nella seconda considera più da vicino i diversi aspetti della vita odierna e della società umana, e precisamente in particolare le questioni e i problemi che ai nostri tempi sembrano più urgenti in questo campo. Per cui in questa seconda parte la materia, soggetta ai principi dottrinali, consta di elementi non solo immutabili, ma anche contingenti. Perciò la Costituzione dev’essere interpretata secondo le norme generali dell’interpretazione teologica, e ciò tenendo conto, soprattutto nella sua seconda parte, delle mutevoli circostanze con le quali sono connessi, per loro natura, gli argomenti di cui si tratta” (nota 1).

A questa nota va opportunamente aggiunto quanto scritto al n. 91 della GS: “Volutamente, dinanzi alla immensa varietà delle situazioni e delle forme di civiltà, questa presentazione non ha, in numerosi punti, che un carattere del tutto generale: anzi, quantunque venga presentata una dottrina già comune nella chiesa, siccome non raramente si tratta di realtà soggette a continua evoluzione, la proposizione della dottrina dovrà essere continuata e ampliata”.

E’ forse la prima volta che viene promulgata una costituzione con la coscienza della sua non definitività e, d’altronde, indicando le norme generali della sua corretta interpretazione, se ne garantisce il valore di riferimento autoritativo: esigendo sempre nuovi approfondimenti, a partire dalla realtà storica e dall’esperienza pastorale della chiesa.
E siccome la dottrina non è una serie di enunciati astratti e la pastorale una serie di accorgimenti tattici, l’aspetto pastorale della GS - per dirla con M.D. Chenu - non è “un pio opportunismo di circostanza: è la chiesa in atto, luogo teologico della parola di Dio, nella comunità gerarchica”. Si capisce allora perché la costituzione dogmatica Lumen Gentium e la costituzione pastorale GS si integrino in modo essenziale; anzi, si può subito dire che perché si dispieghino tutte le potenzialità insite nella GS, deve realizzarsi la Lumen Gentium.

La G.S. si occupa di argomenti che mai prima un concilio ecumenico aveva trattato, perché troppo terreni.
La tradizione dei precedenti concili era quella di occuparsi del dogma, dei sacramenti, della disciplina della chiesa. La GS nella seconda parte si occupa invece di famiglia e sessualità, cultura e culture, economia mondiale e lavoro, politica e stato, pace e fraternità nella famiglia umana.
Si tratta di una vera e propria novità teologica e come tale fu percepita dal concilio, tanto che vi fu una dura opposizione al vedere inclusi in una costituzione di un concilio ecumenico temi come quelli della seconda parte. Dinanzi ad una prima stesura del testo fu infatti subito proposto di relegare tutta la parte sociale in una sere di “annessi”, che avrebbero così costituito un’appendice non strettamente teologica e avrebbero depurato il testo da elementi non confacenti alla dignità magisteriale di un concilio. La battaglia fu durissima e l’idea degli annessi fu probabilmente respinta solo grazie ad un intervento indiretto di Paolo VI con l’Enciclica Ecclesiam suam.

Ma per ben comprendere la GS, bisogna aver presente un aspetto fondamentale, che annoto con le parole del teologo Chiavacci.  “A partire da circa il XVI secolo ogni tematica di tipo sociale sparisce dalla riflessione teologica: né in morale né in dogmatica -qualunque testo si scelga- appare un solo capitolo sul sociale, sulla pace, sulla convivenza umana in genere. Tali argomenti, ben presenti sia nella prima che nella seconda Scolastica (per esempio in Tommaso e Suarez), vengono relegati nella filosofia morale e in particolare nel suo ultimo capitolo dedicato alla morale sociale. Quando chi scrive cominciò a insegnare morale sociale, nel 1961, lo fece nei corsi filosofici per studenti che non avevano neppure iniziato lo studio della teologia. La missione della Chiesa, e la teologia conseguente, fra il XVI secolo e il concilio viene concepita essenzialmente come salvezza delle singole anime attraverso l’evangelizzazione e la sacramentalizzazione. La condizione storica concreta della famiglia umana non è rilevante per la missione specifica della chiesa; non è dunque parte della teologia: sono questioni appartenenti all’area della natura e non del soprannaturale, e devono quindi essere affrontate dalla filosofia. Se con le prime encicliche sociali -e segnatamente con la Immortale Dei (1885) e la Rerum novarum (1891)- la chiesa si preoccupa direttamente di realtà sociali (lo stato e l’economia), ciò è per spirito di carità verso coloro che soffrono o che sono traviati dalla fede. Tanto è vero che i contenuti di tali encicliche non trovano posto nei manuali di morale fino agli anni ‘50, e anche allora in modo marginale”.

Con la G.S. ci troviamo dinanzi ad una specie di rivoluzione teologica rispetto alla teologia degli ultimi tre - quattro secoli. Cambia radicalmente la prospettiva, il modo cioè di intendere la condizione storica concreta della famiglia umana, che diventa elemento non solo rilevante ma indispensabile perché la Chiesa possa esplicitare la propria missione.
E il ragionamento si concentra attorno a due espressioni.
“Il Signore è il fine della storia”.
“I segni dei tempi”.
Le analizzeremo prossimamente.

Stefano Gentili

martedì 8 gennaio 2013

GAUDIUM ET SPES: OGNI SCELTA ECONOMICA SI PONE COME MOMENTO COSTRUTTIVO O DISTRUTTIVO DELLA STORIA DELLA FAMIGLIA UMANA


La Gaudium et spes ci riserva sorprese anche sul fronte dei concetti di sviluppo economico e quindi di lavoro e proprietà.
Questa volta mi (e vi) esimo dal fare la storia di come il lavoro e la proprietà sono evoluti nell’insegnamento della Chiesa, anche se, in estrema sintesi, qualcosa bisognerà in seguito annotare.
Due cose debbo però dire per segnalare quale era il clima socio-culturale del periodo.

Il tempo della Gaudium et spes era un tempo complicato sul fronte politico, militare, economico, sociale. Il timore di un conflitto nucleare, la guerra fredda, le sempre più evidenti disuguaglianze, l’avviarsi del processo di secolarizzazione segnarono duramente il periodo.

Ma fu anche un tempo di luci.
Nella prima parte, fu l’era di J.F. Kennedy (1961-1963).
Il presidente americano era l’uomo della “nuova frontiera”, espressione che sintetizzava l'azione politica rinnovatrice iniziata dalla sua amministrazione, sia nella distensione e nel disarmo degli armamenti nucleari, che in politica interna con i progetti di guerra alla povertà e alla disoccupazione, le leggi a favore dell’istruzione e il provvedimento di legge contro la discriminazione razziale nei luoghi pubblici, nelle scuole di tutti i livelli, nelle forze armate e nelle imprese pubbliche e statali, a rinforzo delle lotte per i diritti civili iniziato dal movimento di protesta degli americani di origine africana (Martin Luther King).

Nel contempo ci trovavamo anche in presenza di un reale movimento di sviluppo che veniva dalla metà del decennio precedente e coinvolgeva i paesi più poveri. Le Nazioni Unite battezzarono gli anni ’60 come il decennio dello sviluppo. Ma esso portava con sé non pochi problemi.
“Lo sviluppo come lo avevamo conosciuto negli anni ’50, ridotto a progresso tecnologico e all’accumulo di ricchezza materiale, aveva bisogno del mito della produzione di merci sempre crescente, e dell’ideologia del consumismo per assorbire queste merci e alimentare il circuito dello sviluppo economico.
In quella definizione di sviluppo non erano state considerate né le disuguaglianze nella ripartizione delle ricchezze, né le condizioni di vita delle popolazioni, tantomeno la distruzione dell’ambiente” (Geneviève Sanze, 2011).

Era inoltre l’epoca dell’economista J.K. Galbraith ed H. Marcuse.
Galbraith, insieme a Marcuse, iniziò a mettere fortemente in discussione la teoria capitalistica tradizionale, specie per la piega che aveva preso, come detto, di tipo follemente consumistico.
Si criticava il fatto che l’uomo sociale, il cittadino, fosse stato ridotto, dalla volontà delle grandi corporation, supportata dalle nuove (per gli anni '60) aggressive metodologie di marketing, a un ‘consumatore’, ovvero a un soggetto che aveva una sua esistenza, e, in definitiva, una sua dignità, solo in quanto capace di consumare beni e servizi, e nella misura in cui ottemperava a questa sua unica e imprescindibile funzione.
Insomma, non avevano importanza le aspirazioni, le necessità, i sogni degli esseri umani, ma solo i loro ‘bisogni’, generatori della funzione primaria ed unica del consumo.
Marcuse espresse questo concetto nella sua opera principale, L'uomo ad una dimensione (1964), quella del consumo, appunto, in cui analizzava il tema dei ‘bisogni’ di un essere umano, e di come ‘il sistema capitalistico’ controlli tali bisogni ed i meccanismi della loro definizione e creazione.
Galbraith rappresentò il concetto speculare nella ‘Società opulenta’ (nel libro The Affluent Society 1958), in cui invece descrisse perché, a suo modo di vedere, il sistema economico, rappresentato in primis dalle grandi corporation, avesse necessità, per i suoi fini intrinseci, di controllare i bisogni, del singolo e delle collettività, in modo assoluto, senza poter lasciare al caso e alla spontanea evoluzione umana la definizione di tali bisogni.

In questo contesto, ben più articolato e complesso di come rapidamente dettagliato, germina il capitolo della Gaudium e spes dedicato allo sviluppo economico.
E lo fa ribaltando totalmente l’impostazione tradizionale dei manuali ecclesiali e promuovendo un ulteriore evoluzione delle encicliche sociali precedenti.
Leone XIII con la Rerum novarum aveva declinato la questione sociale come questione operaia, Pio XI con la Quadragesimo anno come questione nazionale, Pio XII con i suoi interventi aveva puntato sulla questione internazionale, Giovanni XXIII aveva spinto sulla questione giustizia e pace.

Con la Gaudium et spes il polo d’attrazione è diventata l’attività economica globale, vista a livello planetario, come elemento essenziale per la realizzazione di una convivenza solidale.
Dopo aver richiamato l’attenzione, nell'esposizione introduttiva, sul grande scandalo della società odierna: “Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica, e tuttavia, una grande parte degli abitanti del globo è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria, e intere moltitudini non sanno né leggere né scrivere” (GS, 4), dedica l’intero capitolo III alla vita economico sociale (GS 63-72).

Il tema d’apertura, «il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo economico non consiste nel solo aumento della produzione, né nella ricerca di profitto o di dominio, bensì nel servizio dell’uomo» (GS 64), serve a relativizzare sia il concetto di proprietà privata, sia il doppio concetto di lavoratore dipendente e di padrone, sia il diritto di libertà nel disporre a piacimento dei capitali.
Ma di quale uomo si tratta? «...dell’uomo integralmente considerato...di ciascun uomo e di ciascun gruppo umano, di qualsiasi razza o area del mondo». Ecco già delinearsi l’unicità del sistema economico planetario che oggi è un dato di fatto.
«Pertanto l’attività economica è da realizzare secondo le leggi e i metodi propri dell’economia, ma nell’ambito dell’ordine morale, in modo che risponda al disegno di Dio sull’uomo».
Emerge perciò con forza la responsabilità morale nelle scelte economiche, derivata non dal rispetto della proprietà privata o dal giusto salario per il lavoratore (come si era sino ad allora sostenuto), ma dall’unicità planetaria del sistema economico, e quindi dell’impatto che ogni scelta economica dei singoli o degli stati ha sull’intera famiglia umana e dall’intrinseca dignità di ogni essere umano, che non può esprimersi senza un minimo di beni materiali.

E’ come dire che «ogni scelta economica si pone come momento costruttivo o distruttivo della storia della famiglia umana, come accettazione o rifiuto di quella logica di convivenza che è il traguardo della storia» (Enrico Chiavacci, 1985).

Affermazioni forti, se ben ponderate, specie per le loro conseguenze (lo vedremo meglio, ad esempio, in una prossima lettera).
Riflessioni che furono possibili grazie alla presenza tra i Padri conciliari di molti vescovi di provenienza dal sud del mondo, messi in rete dall’azione instancabile del vescovo Helder Camara, “un omino piccolo e fragile, che nella sua terra, e in ogni luogo dove è passato, gode ancora oggi della fama di santo”.
A distanza di oltre 50 anni da quelle affermazioni – e di altre che vaglieremo – e dall’impegno profuso da Paolo VI (ricordo solo la Popolorum progressio) e Giovanni Paolo II (cito soltanto la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus annus) va purtroppo detto che la coscienza dei credenti è poco maturata, salvo lodevoli e talvolta organizzate eccezioni, come pure le politiche dei governi nazionali e sovranazionali non sono andate nella auspicata direzione.
Forse la spiegazione socio-culturale del perché ci sia stata questa colossale amnesia sta in una frase che il citato Helder Camara una volta ebbe a dire di sé: “Quando do da mangiare a un povero tutti mi chiamano santo, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti m i chiamano comunista”.
Che peccato!

Stefano Gentili