La Gaudium et spes ci riserva sorprese anche sul fronte dei concetti di sviluppo economico e quindi di lavoro e proprietà.
Questa
volta mi (e vi) esimo dal fare la storia di come il lavoro e la proprietà sono
evoluti nell’insegnamento della Chiesa, anche se, in estrema sintesi, qualcosa
bisognerà in seguito annotare.
Due
cose debbo però dire per segnalare quale era il clima socio-culturale del
periodo.
→ Il tempo della Gaudium et spes
era un tempo complicato sul fronte politico, militare, economico, sociale. Il
timore di un conflitto nucleare, la guerra fredda, le sempre più evidenti
disuguaglianze, l’avviarsi del processo di secolarizzazione segnarono duramente
il periodo.
Ma fu
anche un tempo di luci.
Nella
prima parte, fu l’era di J.F. Kennedy (1961-1963).
Il
presidente americano era l’uomo della “nuova frontiera”, espressione che
sintetizzava l'azione politica rinnovatrice iniziata dalla sua amministrazione,
sia nella distensione e nel disarmo degli armamenti nucleari, che in politica
interna con i progetti di guerra alla povertà e alla disoccupazione, le leggi a
favore dell’istruzione e il provvedimento di legge contro la discriminazione
razziale nei luoghi pubblici, nelle scuole di tutti i livelli, nelle forze
armate e nelle imprese pubbliche e statali, a rinforzo delle lotte per i
diritti civili iniziato dal movimento di protesta degli americani di origine
africana (Martin Luther King).
Nel
contempo ci trovavamo anche in presenza di un reale movimento di sviluppo che veniva dalla metà del decennio
precedente e coinvolgeva i paesi più poveri. Le Nazioni Unite battezzarono gli
anni ’60 come il decennio dello sviluppo. Ma esso portava con sé non pochi
problemi.
“Lo sviluppo come lo avevamo
conosciuto negli anni ’50, ridotto a progresso tecnologico e all’accumulo di
ricchezza materiale, aveva bisogno del mito della produzione di merci sempre
crescente, e dell’ideologia del consumismo per assorbire queste merci e
alimentare il circuito dello sviluppo economico.
In quella definizione di
sviluppo non erano state considerate né le disuguaglianze nella ripartizione
delle ricchezze, né le condizioni di vita delle popolazioni, tantomeno la distruzione
dell’ambiente” (Geneviève
Sanze, 2011).
Era
inoltre l’epoca dell’economista J.K.
Galbraith ed H. Marcuse.
Galbraith,
insieme a Marcuse, iniziò a mettere fortemente in discussione la teoria
capitalistica tradizionale, specie per la piega che aveva preso, come detto, di
tipo follemente consumistico.
Si
criticava il fatto che l’uomo sociale, il cittadino, fosse stato ridotto, dalla
volontà delle grandi corporation, supportata dalle nuove (per gli anni '60)
aggressive metodologie di marketing, a un ‘consumatore’, ovvero a un soggetto che aveva una sua esistenza,
e, in definitiva, una sua dignità, solo in quanto capace di consumare beni e
servizi, e nella misura in cui ottemperava a questa sua unica e
imprescindibile funzione.
Insomma,
non avevano importanza le aspirazioni, le necessità, i sogni degli esseri
umani, ma solo i loro ‘bisogni’, generatori della funzione primaria ed unica
del consumo.
Marcuse
espresse questo concetto nella sua opera principale, L'uomo ad una dimensione (1964), quella del consumo, appunto, in
cui analizzava il tema dei ‘bisogni’ di un essere umano, e di come ‘il sistema
capitalistico’ controlli tali bisogni ed i meccanismi della loro definizione e
creazione.
Galbraith
rappresentò il concetto speculare nella ‘Società opulenta’ (nel libro The Affluent Society 1958), in cui
invece descrisse perché, a suo modo di vedere, il sistema economico, rappresentato
in primis dalle grandi corporation, avesse necessità, per i suoi fini
intrinseci, di controllare i bisogni, del singolo e delle collettività, in modo
assoluto, senza poter lasciare al caso e alla spontanea evoluzione umana la
definizione di tali bisogni.
→ In questo contesto, ben più
articolato e complesso di come rapidamente dettagliato, germina il capitolo
della Gaudium e spes dedicato allo sviluppo economico.
E lo
fa ribaltando totalmente l’impostazione tradizionale dei manuali ecclesiali
e promuovendo un ulteriore evoluzione delle encicliche sociali precedenti.
Leone
XIII con la Rerum novarum aveva declinato la questione sociale come questione operaia, Pio XI con la
Quadragesimo anno come questione
nazionale, Pio XII con i suoi interventi aveva puntato sulla questione internazionale, Giovanni XXIII
aveva spinto sulla questione giustizia e
pace.
Con la
Gaudium et spes il polo d’attrazione è
diventata l’attività economica globale,
vista a livello planetario, come elemento essenziale per la realizzazione di
una convivenza solidale.
Dopo
aver richiamato l’attenzione, nell'esposizione introduttiva, sul grande
scandalo della società odierna: “Mai il
genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza
economica, e tuttavia, una grande parte degli abitanti del globo è ancora
tormentata dalla fame e dalla miseria, e intere moltitudini non sanno né
leggere né scrivere” (GS, 4), dedica l’intero capitolo III alla vita
economico sociale (GS 63-72).
Il
tema d’apertura, «il fine ultimo e
fondamentale dello sviluppo economico non consiste nel solo aumento della
produzione, né nella ricerca di profitto o di dominio, bensì nel servizio
dell’uomo» (GS 64), serve a relativizzare sia il concetto di proprietà
privata, sia il doppio concetto di lavoratore dipendente e di padrone, sia il
diritto di libertà nel disporre a piacimento dei capitali.
Ma di
quale uomo si tratta? «...dell’uomo
integralmente considerato...di ciascun uomo e di ciascun gruppo umano, di
qualsiasi razza o area del mondo». Ecco già delinearsi l’unicità del
sistema economico planetario che oggi è un dato di fatto.
«Pertanto l’attività economica
è da realizzare secondo le leggi e i metodi propri dell’economia, ma
nell’ambito dell’ordine morale, in modo che risponda al disegno di Dio
sull’uomo».
Emerge
perciò con forza la responsabilità morale nelle scelte economiche, derivata non
dal rispetto della proprietà privata o dal giusto salario per il lavoratore
(come si era sino ad allora sostenuto), ma dall’unicità planetaria del sistema
economico, e quindi dell’impatto che ogni scelta economica dei singoli o degli
stati ha sull’intera famiglia umana e dall’intrinseca dignità di ogni essere
umano, che non può esprimersi senza un minimo di beni materiali.
E’
come dire che «ogni scelta economica si
pone come momento costruttivo o distruttivo della storia della famiglia umana,
come accettazione o rifiuto di quella logica di convivenza che è il traguardo
della storia» (Enrico Chiavacci, 1985).
Affermazioni
forti, se ben ponderate, specie per le loro conseguenze (lo vedremo meglio, ad
esempio, in una prossima lettera).
Riflessioni
che furono possibili grazie alla presenza tra i Padri conciliari di molti
vescovi di provenienza dal sud del mondo, messi in rete dall’azione
instancabile del vescovo Helder Camara, “un
omino piccolo e fragile, che nella sua terra, e in ogni luogo dove è passato,
gode ancora oggi della fama di santo”.
A
distanza di oltre 50 anni da quelle affermazioni – e di altre che vaglieremo –
e dall’impegno profuso da Paolo VI (ricordo solo la Popolorum progressio) e
Giovanni Paolo II (cito soltanto la Sollicitudo rei socialis e la Centesimus
annus) va purtroppo detto che la
coscienza dei credenti è poco maturata, salvo lodevoli e talvolta
organizzate eccezioni, come pure le
politiche dei governi nazionali e sovranazionali non sono andate nella auspicata
direzione.
Forse
la spiegazione socio-culturale del perché ci sia stata questa colossale amnesia
sta in una frase che il citato Helder Camara una volta ebbe a dire di sé: “Quando do da mangiare a un povero tutti mi
chiamano santo, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti m
i chiamano comunista”.
Che
peccato!
Stefano
Gentili
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