sabato 14 marzo 2015

1993-1995: DALLA DC AL PPI, AI CRISTIANO-SOCIALI, AL CCD, AL CDU, ….

Il 1994 fu l’anno del finimondo per la DC a livello nazionale. Ricordo alcune vicende che la riguardarono, a partire dal 1993.

Nel mese di marzo 1993 Mario Segni si dimise dalla Dc perché a suo parere “il tentativo di riformare dall'interno questo partito è(ra) senza alcuna speranza”. A maggio aderirà ad Alleanza democratica e vi confluirà a luglio.
E a dicembre dell’anno prima, in un turno di elezioni amministrative che interessava circa un milione di elettori, la Dc era scesa dal 36 al 24% dei voti. Campanello d’allarme. Anzi, campana.
Il 18 aprile si svolsero otto referendum, tutti con una netta prevalenza di sì: in particolare per l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti (90,3%) e per la modifica della legge elettorale in senso maggioritario (82,7%), sostenuta anche dalla DC.
Il 12 giugno "Carta 93", il gruppo di intellettuali cattolici raccolto sin dal 4 ottobre '92 da Maria Eletta Martini, Balboni, Berti, R. Bindi, Cananzi, D'Andrea, Elia e Monticone e che aveva elaborato un "manifesto per la rifondazione della politica", si costituì in associazione, con statuto, organi rappresentativi e nove gruppi di lavoro.
A metà 1993 la nuova leadership della DC guidata da Martinazzoli tentò la rifondazione che si espresse anche nel cambio del nome, Partito Popolare Italiano, proprio per segnare in modo più netto la rottura con il passato.
L’11 settembre Ermanno Gorrieri lasciò la Dc e dette vita al Movimento cristiano-sociale. Vi aderirono Pierre Carniti, Paola Gaiotti, Gianni Mattioli, Luciano Guerzoni, Luigi Viviani, Laura Rozza e altri, sindacalisti ed ex-aclisti.
Il 21-22 novembre in un importante turno di elezioni amministrative (col sistema maggioritario e l'elezione diretta del sindaco) che interessava oltre 11 milioni di elettori e i comuni di Roma, Napoli, Genova, Venezia, Trieste, Palermo ecc., la Dc nei comuni con oltre 15 mila abitanti ottenne complessivamente l'11,2% dei voti. Turno che era stato preceduto da quello del 6 giugno (anche a Grosseto: sfida Valentini-Giunta) ugualmente devastante.
A novembre Clemente Mastella chiese l'immediata convocazione del Congresso Nazionale e si candidò alla guida della nuova Dc.
A dicembre la Dc divenne un formicaio. Il capogruppo alla Camera Gerardo Bianco chiese in una lettera a Martinazzoli di intensificare la preparazione del processo costitutivo del nuovo partito, per poi “incontrarci con il filone liberaldemocratico e del socialismo riformista”. Un centinaio di parlamentari (Lusetti, Ciliberti, Baccarini, Galbiati, Fronza Crepaz ecc.) chiese in un documento a Martinazzoli “una presa di posizione per uscire dalla trappola delle contrapposizioni esasperate”. Altri 40 parlamentari (Fracanzani, Agrusti, Ciaffi, Pinza, ecc.) presentarono un documento “per un'aggregazione di centro tra laici e cattolici”.
Il 9 dicembre il presidente della Fininvest Silvio Berlusconi ipotizzò una sua entrata in politica, ma ebbe a precisare: “Non ho mai parlato di uno schieramento di cui dovrebbe far parte il Msi”. L’allora prof. Rocco Buttiglione rilevò che l'iniziativa sarebbe stata “inopportuna” perché avrebbe creato “delicati problemi dal punto di vista etico e il sospetto che le sue testate vengano usate a favore del suo programma politico”.
Il 13 dicembre, con un'intervista al Messaggero Buttiglione, membro della Direzione della Dc, si autocandidò alla guida del nascente Partito Popolare. Il 16 dicembre uscì una “Lettera ai deputati D.C.” di Gerardo Bianco: “Abbiamo dalla nostra parte forti ragioni ideali e una lunga storia di scelte giuste che hanno salvato il Paese da pericolose avventure”. Il gruppo che faceva capo a Pierferdinando Casini insisteva sulla necessità di costruire un “centro moderato”, esprimeva “preoccupazioni per le difficoltà di convivenza interna registrate” e chiedeva “un vero dibattito e un chiarimento di linea politica” prima del Congresso Nazionale.
Il 30 dicembre Casini, Mastella, D'Onofrio e Fausti presentarono il programma politico del loro gruppo: in una logica inevitabilmente bipolare, ritenevano necessario collocare il Partito Popolare nel Polo moderato, assieme a Berlusconi e alla Lega, mentre rispetto ad Alleanza nazionale ritenevano che occorresse mostrare attenzione per le mutazioni in corso.
I primi di gennaio del 1994 i neo-centristi avviarono incontri con altri gruppi politici. Rosa Jervolino disse che ciò era “inammissibile: si comportano come se fossero già un altro partito che tratta con gli altri partiti”. Il 5 gennaio Martinazzoli prese atto “serenamente che i neo-centristi si sono accomiatati”.
Il 13 gennaio in una intervista del Popolo a Buttiglione sull'identità e il futuro del Partito Popolare ebbe a dire: “Il problema di fondo sta nella scelta strategica del nuovo partito, cioè nell'essere alternativo al Pds. I centristi da questo traggono però quasi automaticamente una conseguenza sbagliata, quella di un'alleanza con Lega, Berlusconi e Msi”.
Dimessosi il governo Ciampi (il 12 gennaio) dopo la mozione di sfiducia delle opposizioni e rimaste senza esito le successive consultazioni del Capo dello Stato per la soluzione della crisi, il Presidente Scalfaro sciolse le Camere e fissò le nuove elezioni generali per il 27 marzo.
Il 18 gennaio in mattinata vi fu il battesimo ufficiale del partito dei centristi (Centro cristiano democratico: CCD), che aveva come simbolo una vela e un piccolo scudo crociato. La dirigenza provvisoria venne affidata a P. Casini, Mastella, D'Onofrio, O. Fumagalli Carulli.
Nel pomeriggio all'Istituto Sturzo ebbe luogo la fondazione del nuovo Partito Popolare Italiano, presenti l'ultimo segretario della Dc Martinazzoli e l'ultimo presidente del Cn Rosa Jervolino, i presidenti di Camera e Senato Napolitano e Spadolini, i capigruppo Dc di Camera, Senato e Parlamento Europeo, G. Bianco, G. De Rosa e M. Forte, dirigenti nazionali ed esponenti del mondo cattolico.
Il giorno successivo i parlamentari della Dc di Camera e Senato aderirono al Partito Popolare, tranne 22 deputati che confluirono nel CCD, dove P. Casini e Mastella furono nominati coordinatori nazionali e D'Onofrio presidente del gruppo parlamentare. L'Osservatore Romano auspicava ancora “la ricomposizione e l'unità”, sulla linea del messaggio del Papa ai Vescovi italiani, di due settimane prima, nel quale egli ricordava le responsabilità dei cattolici, che dovevano affrontare uniti il cambiamento richiesto da quella fase storica.
Il 22 gennaio al palazzo dei Congressi di Roma si svolse l'Assemblea Costituente del nuovo Partito Popolare Italiano (con relazioni di Martinazzoli, De Rosa, G. Bianco e Balboni), che confermò la propria collocazione di centro-sinistra. Dopo il discorso di apertura del presidente Rosa Jervolino, il segretario Martinazzoli, cui saranno riconfermati i pieni poteri, annunciava che a maggio si sarebbe tenuto il primo Congresso Nazionale del Ppi.
Il 26 gennaio Silvio Berlusconi “scese in campo”. Martinazzoli rilanciò il centro con cattolici, laici e democratici riformisti. Gianfranco Fini tenne a battesimo (il 22 gennaio) Alleanza Nazionale.
A metà febbraio Martinazzoli respinse un’alleanza con Berlusconi, da questi ipotizzata mentre già parlava di un futuro governo con Fini e a fine mese dichiarò che in caso di successo elettorale il nuovo presidente del Consiglio sarebbe stato Mario Segni.
Il 1 marzo fu presentato da Martinazzoli, Segni, Amato e La Malfa il programma del “Patto per l'Italia”.
Il 21 Martinazzoli uscì con un’affermazione che di lì a poco si sarebbe rivelata infausta: “Il bipolarismo è una finzione mistificatoria, un espediente elettorale che tradisce il voto nel momento stesso in cui lo si chiede. L'unica soluzione che garantisca la governabilità è il voto al centro”.
Nelle elezioni politiche del 27-28 marzo il CCD si schierò con Berlusconi, i Cristiano-sociali e La Rete con Occhetto; il PPI insieme al Patto Segni, il PRI, l’Unione Liberaldemocratica avevano appunto fondato il Patto per l’Italia. Il Ppi ottenne 4,3 milioni di voti, pari all'11,1%, cioè 33 seggi alla Camera e 27 al Senato. Complessivamente la sinistra si fermò al 34%, la destra balzò al 46,4% alla Camera e al 40,7% al Senato.
Il PPI dunque fu schiacciato dalla bipolarizzazione del voto tra destra e sinistra, risultando fortemente penalizzato dall’attrazione suscitata da Forza Italia di Silvio Berlusconi e, al nord, dalla Lega, sull’elettorato precedentemente democristiano.
La sconfitta provocò le immediate dimissioni di Mino Martinazzoli e, dopo molte peripezie, durate fino a luglio, il 29 di quel mese si giunse all’elezione a segretario - da parte del Congresso nazionale del partito - di Rocco Buttiglione, esponente moderato favorevole anche lui a trovare un accordo con Berlusconi. Martinazzoli commentò: “Era meglio eleggere Berlusconi, piuttosto che un suo sosia...”.
Il 20 novembre 1994, in un turno di elezioni amministrative con tre milioni di elettori, il Ppi ottenne il 12,7%. A Brescia grande successo di Martinazzoli (41,1%), che fu eletto sindaco dopo il ballottaggio.
Il 21 dicembre, dopo soli sei mesi di vita, cadde il governo Berlusconi per una mozione di sfiducia presentata due giorni prima da Ppi e Lega. Il 13 gennaio 1995 Scalfaro affidò il nuovo incarico a Lamberto Dini, che già il giorno 17 poté costituire un esecutivo composto di soli tecnici, come aveva chiesto il Ppi. Il nuovo governo passerà alla Camera (25 gennaio) con 302 sì, 270 astenuti e 39 no.
Il 27 gennaio 1995, Buttiglione non partecipò ad un previsto incontro politico con Bossi, D'Alema e Segni, che pareva dovesse prefigurare la formazione di una nuova maggioranza, e l'indomani presenzia invece al Congresso del Msi a Fiuggi, dimostrando di apprezzare lo strappo compiuto da Fini. Vivace fu il dissenso delle sinistre interne. Il 30 Buttiglione dichiarò: “Dobbiamo correre il rischio di un'alleanza con An”.
Il 2 febbraio dai capigruppo popolari di Camera e Senato, Andreatta e Mancino, e dal presidente del Consiglio Nazionale del Ppi, Giovanni Bianchi, venne formalizzata la candidatura di Romano Prodi alla guida di uno schieramento di centro-sinistra. L'indomani e il giorno 7 l'iniziativa fu stigmatizzata dalla Giunta esecutiva e dalla Direzione del partito. Bianchi, Andreatta e Mancino furono deferiti ai probiviri.
Tra l’8 e l’11 marzo Buttiglione firmò un accordo elettorale con i leader del Polo in vista delle amministrative del 23 aprile. Tre giorni dopo, il Consiglio Nazionale del partito approvò, con 102 voti contro 99, un documento che respinse quell'accordo. Il segretario, che si era impegnato a dimettersi in caso di non approvazione del suo operato, rifiutò di farlo perché considerava irregolare quella votazione a causa della decisione del presidente del Cn Giovanni Bianchi di non ammettere al voto tre consiglieri sospesi dal partito perché indagati dalla magistratura. Ricorsero ai probiviri. Intanto il Cn fissò al 15 giugno la data del nuovo Congresso.
Il 14 marzo, il collegio dei probiviri, che prima aveva ordinato a Giovanni Bianchi di sospendere dal partito i tre consiglieri inquisiti, accolse (con 5 voti a favore, tre contro e un astenuto) il ricorso di Buttiglione contro la delibera del Consiglio Nazionale, che venne dichiarata nulla. Buttiglione destituì Marini da segretario organizzativo e Borgomeo da direttore de Il Popolo.
Il 16 marzo, il Consiglio Nazionale, presenti 114 membri su 215, elesse all'unanimità Gerardo Bianco segretario del Ppi, affiancandogli un Comitato formato da Marini, D'Andrea, Gargani e Pistelli. G. Bianchi fu incaricato di tutelare gli interessi del partito anche in sede giudiziaria. Buttiglione disse che era tutto illegale e sospese i 114 consiglieri.

In pratica ormai esistevano due partiti popolari, quello di Buttiglione, legittimato dalla delibera dei probiviri, cha a luglio prenderà il nome di CDU (Cristiano Democratici Uniti) e quello di Bianco, il PPI, confermato dal voto del Consiglio Nazionale. Del CCD ho già detto.

venerdì 13 marzo 2015

QUATTRO CHIACCHIERE
SULLA SITUAZIONE POLITICA ITALIANA
3 marzo 1995 Borgo Carige

LE INCOGNITE DELLA DEMOCRAZIA

Mentre diviene sempre più difficile resistere alla democrazia, saprà la democrazia resistere a se stessa?
Nelle carte antiche le terre sconosciute venivano indicate con “hic sunt leones”, qui stanno i leoni. 
Noi stiamo entrando in un mondo pieno di leoni. Alcuni leoni sono già identificati, per esempio la bomba demografica e la minaccia di collasso ecologico; ma non riguardano la teoria della democrazia.
Ma altri leoni ci guardano e sono animali tuttora da identificare e insidiano le basi della democrazia, producendone, forse, una pericolosa metamorfosi.

L’ERA DEL KARAOKE
La prima incognita è che stiamo uscendo dal mondo costituito da “cose lette” per entrare nel mondo delle “cose viste”.

Il meccanismo comunicativo dei grandi mezzi d’informazione sta incidendo sul modello democratico, dato che il popolo cessa di essere protagonista e diventa spettatore.
La televisione frantuma i luoghi dove la democrazia si forma (il gruppo, la piazza, il circolo, il partito, la chiesa, il quartiere, il villaggio); raggiunge l’uomo solitario nella sua casa, sommergendolo con una cultura di massa planetaria. Mescola candidati e pornostar, comici e onorevoli, pubblicità di biscotti e pubblicità di idee. Seleziona e fabbrica personaggi e caratteri secondo codici visivi, fornendo al cittadino un teatrino semplificato dove il politico non è portatore di interessi, di proposte, di idee, quanto di mimiche di spettacolo, di cerone.
Ma così si cessa di essere cittadini, si diventa spettatori; la scheda elettorale è sostituita dal telecomando.
Come l’ideologia dispensava dal pensare, e la burocrazia dispensa dall’agire così ora i media dispensano dal giudicare.
La nostra è si presenta come l’età dal karaoke, gioco simbolicamente rappresentativo, visto che si tratta semplicemente di ripetere parole da altri scritte su una base musicale da altri suonata.

·      D’altra parte il meccanismo informativo determina anche trasformazioni di tipo socio-politico.
Pensiamo alle opinioni collettive. Oggi non si formano più al bar, nella sezione di partito, nel movimento giovanile. Si formano essenzialmente attraverso i mezzi di comunicazione.
Pensiamo agli interessi. Storicamente la rappresentanza di questi è stata portata avanti dal sindacato, dalle associazioni corporative, dalle confederazioni padronali, dalle realtà più diverse. Oggi queste realtà hanno minor peso nella rappresentanza degli interessi rispetto alla forza che si manifesta attraverso ai mezzi comunicazione.
Per la prima volta nella storia l’uomo tecnologico ha a disposizione gli strumenti per toccare e orientare scientificamente la radice stessa della formazione del consenso.

·      Ma è’ illusorio pensare che la vittoria di Berlusconi alle ultime politiche sia dipesa dalla campagna elettorale iniziata due mesi prima delle elezioni. Quella campagna elettorale è cominciata almeno una dozzina di anni prima.
Il tempo cioè in cui le sue televisioni hanno seguitato a diffondere programmi basati sul miraggio di una felicità da supermercato. Il modello culturale che ne è derivato ha invaso tutti i canali televisivi ormai pieni zeppi di scenette pubblicitarie che raffigurano una società ideale in cui consumare è bello, consumare rende lieti e felici.
Osserva Bobbio che se coloro che subiscono l’effetto di questa pubblicità diffusiva «fossero la maggioranza e se, come maggioranza avessero il peso che una qualsiasi maggioranza ha in un sistema democratico, il destino della nostra società, non solo di quella italiana, sarebbe segnato: sarebbe la società dei servi contenti».

La democrazia è un’apertura di credito all’homo sapiens, a un animale abbastanza intelligente da saper creare e gestire da sé una città buona.
Ma se l’homo sapiens è in pericolo, la democrazia è in pericolo.
Il marxismo non è riuscito a fabbricare un “uomo nuovo”; ma il video-potere lo sta di fatto fabbricando.

IL RANCORE DEI RICCHI
Sulla drammaticità di una tale conclusione si innesta una seconda incognita dovuta ad una questione che capovolge il concetto stesso di democrazia.
Il modello democratico è sorto per dare voce a chi era estraneo all’esercizio del potere, al popolo, ai meno abbienti.
Oggi -per dirla con G. De Rita- sta assumendo crescente rilievo il «rancore dei ricchi».
Ci sono intere fasce sociali e zone del Paese in cui hanno cominciato a propagarsi sentimenti negativi.

Sono:
·      germi di timore, perché la competizione internazionale può ridurre il loro livello di ricchezza;
·      germi di chiusura, perché altri, meridionali o extracomunitari, possono invadere o ridurre la qualità della loro vita;
·      germi di insoddisfazione civile, perché non funzionano i servizi resi dal settore pubblico;
·      germi di rabbia, perché talune fasce sociali o zone terrotoriali, dal sindacato al Mezzogiorno, hanno ottenuto di più;
·      germi di rifiuto della mediazione politica, perché è sempre stata tesa a tutelare le fasce più deboli e non abbastanza le più forti dell’economia e della società.
«Da tutto ciò viene il rancore dei ricchi, cui non eravamo pronti, visto che da sempre ci siamo preoccupati dei pericoli prodotti dalla rabbia dei poveri. Si vede che, diventando europei, assimiliamo anche le astiose tendenze delle ricche periferie vandeane, bavaresi, fiamminghe» (G. De Rita).

IL LETARGO DELLA LEGALITA’
Una terza incognita è legata al diffondersi di un modo di accostarsi alla cosa pubblica, per cui governare diventa sinonimo di essere padroni, l’essere al potere vale a garantirsi la prosecuzione del potere stesso, la correttezza nei comportamenti quotidiani (rispetto delle cose di tutti, pagamento delle tasse, cultura dei diritti e non dei favori) è un optional riservato agli idealisti e agli stupidi.
La legalità viene sostituita dalla legittimità di fatto, fondata su un potere di tipo carismatico; la divisione dei poteri viene messa in discussione, l’applicazione delle regole viene considerata come la volontà di una parte politica e prende piede un liberismo preliberale di tipo feudale, in cui il capo-possidente è libero di organizzare economicamente e istituzionalmente ciò che considera sua proprietà, non riconoscendo alcuna titolarità ai diritti dei non-possidenti
Insomma, rabbrividisce lo stato di diritto.

DAL REFERENDUM ALLE ELEZIONI DEL 1994

La caduta del muro di Berlino e l’apertura delle cateratte del cielo sopra Tangentopoli ha condotto alla fine del regime partitocratico della prima repubblica. Levatrice del nuovo periodo è stato il referendum del 1993 che ha introdotto il nuovo sistema elettorale tendenzialmente maggioritario.
I 29 milioni di Si al referendum elettorale del 28 aprile ‘93 a quale obiettivo puntavano?
Alla democrazia compiuta, nell’ambito della quale due raggruppamenti contrapposti potessero alternarsi alla guida del Paese. Messa in soffitta senza il minimo rimpianto la proporzionale, (un tempo macchina fotografica di appartenenze tra loro contrapposte), la maggioranza del popolo italiano si è espressa per un sistema in cui siano i cittadini a decidere sui Governi: quello maggioritario.
Ma un maggioritario serio per funzionare ha bisogno di ali o di mezze ali?
La democrazia dell'alternanza ha bisogno di mezze ali più che di ali. La mezz'ala moderata dovrebbe essere la parte più forte dello schieramento moderato, mentre la mezz'ala progressista dovrebbe essere la più forte del polo progressista.
Come è nato il bipolarismo italiano?
E’ nato partendo dalle estreme: due grandi ali destra e sinistra e nel mezzo il corpo sempre più piccolo di un centro residuale.
Ma.. ricordiamo le posizioni preelettorali.
Come eravamo
La sinistra.
La sinistra non si presentò con un vero programma comune. Occhetto ebbe a dire che non avrebbe fatto un governo con chi voleva tassare i Bot e uscire dalla Nato. Proprio quello che voleva Bertinotti, seduto allo stesso tavolo. Occhetto faceva discorsi di stampo neoliberista, Rifondazione Comunista faceva un discorso veteromarxista. Scegliere quel polo avrebbe significato scegliere tutto e nulla (l'opposto dello spirito referendario).
Si aveva buon gioco nel dire che Cossutta più Occhetto era uguale Togliatti. Era la doppiezza togliattiana che si riproduceva.
Occhetto preferì rincorrere la prospettiva di una (presunta) vittoria elettorale, anziché compiere un altro passo sulla via della evoluzione democratica generale del Paese.
Euforico per i successi ottenuti in alcuni grandi centri nelle precedenti amministrative volle costruire precipitosamente un "fronte", attraverso la somma di addendi non componibili in un programma di governo, come Rifondazione Comunista da una parte e Alleanza Democratica e i Cristiano Sociali dall'altra.

La Destra
Anche la destra non aveva un vero programma comune. C'era chi voleva uno stato italiano nazionalista, proiettato addirittura a recuperare territori ad est. C’era chi lo stato lo voleva sfasciare. Non c’era nessun giudizio storico sul fascismo, né alcuna garanzia contro le abnormi concentrazioni di potere politico-economico-informativo.
Si riproponevano alcuni dogmi del liberismo della Tatcher e di Reagan, ormai abbandonati dai paesi occidentali.
La Lega si presentava miscelata da un pò di cattolicesimo imbarbarito, un pò di capitalismo degli onesti, un pò di ricchezza che si fermasse più a lungo nelle tasche.
La destra neofascista (o post-fascista) sembrava sempre la stessa sotto le mutate spoglie di Alleanza Nazionale.
Berlusconi (il bracconiere che voleva diventare guardiacaccia) ostentava una serie di buone intenzioni senza dare nessuna dimostrazione dei mezzi attraverso i quali raggiungere gli obiettivi citati ma che con la potente colla dei mezzi d’informazione tentava un’operazione che solo lui era in grado di fare (da illusionista provetto): mettere insieme due forze che avevano visioni diversificate praticamente su tutto.

Il centro
Il centro non prese atto del nuovo sistema maggioritario e tirò diritto sulla strada dell'avanti al centro contro gli opposti estremismi, mentre il  sistema maggioritario non tollera "il centro che guarda a sinistra o a destra", ma "la sinistra e la destra che guardano al centro"
Insomma, il "centro" nel nuovo sistema non esiste come categoria politica, è semmai uno stato d'animo, anche diffuso, dell'elettorato, che i partiti conservatori o riformisti devono saper cogliere e interpretare per conquistare la maggioranza per governare.
Il maggioritario serio e trasparente esclude, in natura, la possibilità che vi siano partiti seduti sul centro del sistema per occuparlo, costruendo un’egemonia con l’apertura ora alla propria destra ora alla propria sinistra. Quello del governo “seduto al centro” è la tipologia delle democrazie proporzionalistiche.
Ancorati ancora alla mentalità proporzionale, il PPI (che nonostante i radicali cambiamenti, non poteva non subire il tremendo contraccolpo della fine della Democrazia Cristiana sotto le macerie di tangentopoli) e, cosa meno comprensibile, il Patto Segni si presentarono teorizzando un centro che non c’è e senza neppure voler dire con chi avrebbero formato una maggioranza, nel caso che nessuno dei due poli fosse risultato numericamente autosufficiente.
I risultati delle elezioni del 27-28 marzo 1994 sono ancora nella memoria di tutti per doverli ricordare.


LA DESTRA AL POTERE

Perché vince la destra
Ma quali sono stati i motivi della vittoria della destra?
Quali meccanismi hanno agito nell’elettorato, ferma restando la straripante influenza dei mezzi d’informazione?

·      La logica del nemico.
Tra il richiamo all’antifascismo operato dalla sinistra e quello all’anticomunismo operato dalla destra, ha avuto più effetto il secondo.
Il richiamo antifascista non è scattato, non perché la maggior parte degli elettori simpatizzasse con il fascismo, ma probabilmente perché non era disposta a considerare illegittimo un punto di vista anticomunista.
Lo schieramento progressista è stato invece percepito come egemonizzato da una tradizione e da nomi collegati all’esperienza comunista.
E’ scattato, allora,  il richiamo anticomunista e dal momento che l’unico modo per non votare la sinistra era votare per la destra, l’esito finale è stato quello a tutti noto.  
Insomma, alle origini della vittoria della destra c’è fondamentalmente stato un voto contro la sinistra.
Delle due convenzioni escludenti in vigore dal ‘45-’48, quella antifascista e quella anticomunista, salta clamorosamente la prima. Viene quindi meno la possibilità di schiacciare ogni destra sul fascismo e questa riacquista capacità di esistenza e di movimento. A spese del centro (è un 18 aprile al contrario).

·      Contenuti programmatici e valori politici.
La cornice nella quale si è mosso il sistema politico nel secondo dopoguerra era la meno propizia per la destra.
La cornice prevedeva che il consenso fosse conquistato su un mercato politico in cui la moneta di scambio obbligatoria era rappresentata dall’ampliamento della cittadinanza sociale, da perseguire usando la spesa pubblica.
Il tutto entro un contesto dominato culturalmente dai valori dell’internazionalismo, dalla legittimazione della rivendicazione sociale e da un’immagine di Stato sempre più identificata con quella di un buon padre provveditore di ogni necessità dei cittadini.
In quel contesto, tutta l’Europa occidentale è stata egemonizzata -per due o tre decenni- dai partiti di ispirazione cristiana o socialdemocratica.
Rotta la cornice è riemersa la destra.

E quindi la ragione per cui gli elettori hanno preferito la destra è stato anche in Italia, l’attesa di politiche antistatalistiche.
All’origine di tale attesa vi è l’usura che ha subito lo Stato sociale per effetto congiunto di una imposizione fiscale sempre più forte e di un accrescimento sempre maggiore di burocrazie di ogni tipo. Tale attesa si è sostanziata nella convinzione che solo un governo decisamente non di sinistra potesse ridurre la spesa pubblica e quindi fermare l’aumento del debito dello Stato.

Sono gli stessi temi che un pò ovunque hanno portato al potere gli schieramenti di destra.
In Italia vi si aggiunge la protesta contro il modo d’essere e di funzionare dello Stato in genere, delle sue svariate amministrazioni così come di tutto ciò che è connesso alla dimensione pubblica: sprechi, disservizi, incongruenze organizzative, pratiche di sottogoverno e di corruzione.

·      Stato d’animo radicale.
Ma perché tutti questi stati d’animo non premiano l’opposizione di sinistra?
Perché si saldano così facilmente con quelli di tipo liberista -dunque più ascrivibili alla destra- nel determinare la vittoria di quest’ultima?
E’ perché raccoglie consensi anche una destra come quella di origine neofascista (o post-fascista), la quale è sociale, nazionale e statalista a tutti gli effetti?
La destra ha vinto e lo avrebbe fatto qualsiasi destra, perché la sinistra, anche quella di opposizione, è stata percepita dalla maggioranza degli elettori come partecipe a pieno titolo, almeno negli ultimi due decenni, del governo effettivo del paese, come interna a quasi tutti i circuiti del potere reale.
Insomma, ciò che traspare dietro la vittoria della destra è un profondo mutamento dello spirito pubblico che oggi sembra in posizione radicalmente critica di fronte a quello che possiamo chiamare il blocco storico della Prima Repubblica.

Le linee guida lungo le quali avviene la vittoria della destra alle elezioni del 1994 allora possono essere così riassunte:
1.  uno Stato efficiente, attento all’economicità ed alla qualità dei servizi, non più cieco e costosissimo erogatore di tutto a tutti, non più burocratico
2.  una prospettiva ideologico-politica da società dei due terzi;
3.  un’avversione di massa alle culture politiche della Prima Repubblica e ai loro apparati di partito.

Vittoria dal sapore tutt’altro che conservatore. Anzi, è stata semmai la sinistra che ha difeso l’ordine costituito, mentre la destra si è presentata come rivoluzionaria.

I pericolosi sentimenti della destra vincente
Ma quali sono i sentimenti che ha espresso la destra di governo nel concreto suo operare? Sentimenti e conseguenti scelte che non possono non provocare preoccupazione.
La concezione di una democrazia plebiscitaria che ha come suoi cardini:
·      una concezione né democratica né pluralista della sovranità popolare che si ridurrebbe all’investitura popolare del capo;
·      l’uso distorto e l’abuso dei referendum abrogativi, diventati lo strumento per la scrittura semplificata di una legislazione che è complessa e per scardinare il sistema politico e costituzionale vigente.

La pericolosissima diffusione dell’idea di un parlamento delegittimato, con una contrapposizione tra legittimità e legalità che evoca altre stagioni della storia. Berlusconi dice che il parlamento è delegittimato perché i leghisti hanno tradito gli elettori. Ma i deputati non hanno vincolo di mandato, e poi quand'è che Bossi ha tradito i suoi elettori? quando è uscito dal governo o quando, ancor prima, promise che mai e poi mai avrebbe governato con i fascisti di Fini?

L’avversione verso le istituzioni di garanzia a cominciare dal Capo dello Stato, per proseguire con la Corte Costituzionale, con la Commissione anti-trust, il Garante per l’editoria, il CSM...

La sfacciataggine per cui una semplice maggioranza di seggi (neppure rappresentativa della metà più uno dei votanti), vuole arrogarsi il diritto di modificare la Carta Costituzionale.

Il menefreghismo verso la concentrazione del potere economico, con particolare riguardo al settore-chiave dell’informazione televisiva.

Lo svilimento e lo smantellamento dei diritti sociali. Le nuove classi dirigenti mostrano la loro contrarietà a far crescere una società che si prenda cura della situazione e della condizione dei più deboli.

E poi pensiamo al leader dello schieramento di destra. Che stoffa ha, quella dello statista o quella dell’illusionista?
Quello che è certo è che ha la stoffa del furbo. Primo, nella storia, ha sfruttato la potenza dell’immagine: «il premier sono io»; e gli italiani hanno subito creduto al presidente virtuale, che mostrava sicurezza di sé e il volto sorridente della famiglia. Ora si mostra arrabbiato «perché mi vogliono togliere di mezzo; io, proprio io che tutti voi avete voluto». La tecnica è certamente vincente.
Ma è attendibile? - Per saperlo basta ricordare la sua intervista di gennaio a Cronaca in Diretta.
·      Dice che durante gli otto mesi del suo governo, in Italia si sono creati 200 mila nuovi posti di lavoro. L’Istat poco dopo dice invece che i posti di lavoro sono 421 mila in meno.
·      Dice che la buona ripresa dell’economia reale e anch’essa merito del suo governo. Tutti gli analisti, tra cui Modigliani, ripetono che la ripresa è mondiale.
Da quanto detto emerge che:
        Berlusconi dice di avere sempre ragione;
        Berlusconi dice le bugie (i posti di lavoro);
        Berlusconi mescola vero e falso (la ripresa economica).

LA DEMOCRAZIA COMPIUTA

Siamo usciti dalla schiavitù (il regime della corruzione, la degenerazione estrema della repubblica dei partiti) ma ancora lunga è la strada che ci separa dalla Terra Promessa: la democrazia compiuta, la normalità democratica.
Obiettivo modesto, ma per noi terribilmente arduo: ogni volta che l’Italia è sembrata sul punto di raggiungerlo, è svanito come una bolla di sapone.

Per portare a compimento la riforma democratica è necessario un impegno su tre versanti.
1. Un versante istituzionale, anzitutto. La Costituzione va difesa con tutte le forze, ma l’unico modo per difenderla è riformarla.
·      Attraverso un rafforzamento del potere politico, perché una società nella quale il potere politico è frantumato e disperso non è una società democratica (se si riesce a fissare bene i paletti, ammetto di guardare con favore all’elezione contestuale e collegata della maggioranza parlamentare e del Primo Ministro).
·      Contemporaneamente deve essere impedita o almeno fortemente limitata, l’incursione degli altri poteri nel potere politico. Un potere politico forte, ma non protetto, può divenire un ghiotto boccone per gli altri poteri e quindi trasformarsi in un formidabile acceleratore di concentrazione anziché di democratizzazione del potere (come minimo è necessario proporre un pacchetto di interventi che rafforzino le maggioranze necessarie per eleggere le istituzioni di garanzia -Presidente della Repubblica, delle Camere, Corte Costituzionale, CSM- e per modificare la Costituzione; insieme ad un altro pacchetto che introduca norme anti-concentrazione).

2. E’ poi necessaria l’evoluzione dello scenario politico in una direzione coerente con i principi di una democrazia dell’alternanza, che è tale se si verificano due condizioni: che si formino due poli politico-programmatici coesi anche se variopinti al loro interno; e che la guida di entrambi i poli sia in mano alle mezze ali e non alle estreme.
Condizioni che richiedono:
·      l’articolazione del centro in un centro-destra e in un centro-sinistra;
·      una positiva evoluzione della questione cattolica tale da riaggregare questo mondo in un’anima cattolico-moderata (che nutra l’ambizione di orientare positivamente il polo di destra) e in un’anima cattolico-democratica  e popolare (che possa giocare un ruolo di primo piano nella costruzione di una sinistra riformista e moderna);
·      una più libera e liberante collocazione della Chiesa;
·      il compimento dell’evoluzione ideologico-programmatica della sinistra (che deve finalmente dire con chiarezza in cosa consistono le sue scelte di fondo nei vari campi, compresa la bioetica e se, dietro il termine progressista, si colloca l’illuminismo di Voltaire, lo storicismo spiritualista di Hegel, quello materialista di Marx oppure la linea della Populorum Progressio di Paolo VI e della Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II);
·      il compimento dell’evoluzione della destra (che deve, come minimo spiegare, perché nelle tesi del recente congresso di AN non v’è alcun cenno alla Carta Costituzionale e ai suoi valori);
·      l’emergere di due leaders che possano rappresentare i Kohl e i Delors nostrani (la candidatura di Prodi va finalmente in questa direzione), dietro ai quali, però,  si concentri la buona volontà e il rigore di molti.

3. La terza condizione è, infine la riforma intellettuale e morale, culturale e civile.
L’esperienza del trionfo della demagogia televisiva deve indurci ad operare per un lavoro in profondità, non elitario e ristretto ma gridato dai tetti.

Alle preoccupazioni di R. Dahrendorf, secondo il quale «un’ondata sovrabbondante di mass media consoliderà ancor più l’esistenza passiva dei consumatori» e a quelle di chi ha detto che «il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi», possiamo far fronte col contenuto della famosa frase di Aldo Moro: «Questo paese non si salverà e la stagione dei diritti si rivelerà effimera, se non nascerà in Italia un nuovo senso del dovere».