sabato 21 novembre 2009

SPERANZOSO BAGNASCO. LA GRAZIA NELLA DISGRAZIA

Parto da me e arrivo al cardinale.
Parto da me perché le vicende della mia vita nell’ultimo periodo (almeno dal 2003) mi hanno portato vicinissimo alla morte e anche ora, come suol dirsi, sono ‘a forte rischio’.
Pensavo tempo fa e rifletto ancora che la mia condizione di ‘borderline’ sia stata e sia una opportunità perché mi ha fatto transitare dal ‘carpe die’ al ‘memento mori’.

Non intendo dilungarmi sulla locuzione tratta dalle Odi del poeta latino Orazio (Odi 1, 11, 8): ‘carpe diem’ letteralmente significa ‘cogli il giorno’ normalmente viene tradotta in ‘cogli l’attimo’, anche se la traduzione più appropriata sarebbe ‘vivi il presente’.
La filosofia oraziana del carpe diem in realtà si fonda sulla razionale considerazione che all'uomo non è dato di conoscere il futuro, né tantomeno di determinarlo, ma la chiave di lettura che in genere se ne offre è quella di un gretto opportunismo o di un gaudente edonismo.

Anche il ‘memento mori’ (letteralmente: ricordati che devi morire) è una nota locuzione in lingua latina.
Da una particolare usanza tipica dell'antica Roma - per i generali vittoriosi che tra gli onori del rientro rischiavano di insuperbirsi e quindi veniva loro ricordata la locuzione - ai Trappisti - che adottarono la frase come motto, mentre si scavavano un po’ al giorno la fossa destinata ad accoglierli, con lo scopo di tenere sempre presente l'idea della morte e quindi il senso della vita, destinata a finire - il memento è caduto un po’ in disuso.
Mi scuso per la non richiesta ‘lezioncina’, ma oggi usare termini desueti rischia di non essere minimamente compreso dai più.

Per onestà intellettuale debbo dire che non sono mai stato preda del carpe diem nel senso più negativo e chiuso, ma probabilmente il senso della morte si era un po’ ‘estinto’ (anche questo non è del tutto vero). Sto un po’ forzando, ma neppure troppo.
Allora ho pensato che ciò che è accaduto alla mia vita fisica, alla mia salute, con la malattia, il trapianto e l’attuale dopo, non sia stato una “disgrazia” ma una “grazia”.
Potrei anche spiegare i dettagli ma non è il caso.

Ecco che allora.....ancora una volta la prolusione del cardinale Bagnasco ad Assisi è entrata nel vivo di una questione fondamentale nella vita umana, anzi nella questione antropologica centrale, meglio ancora nella mia e nella tua questione: la morte.
E l’apparente gioco di parole, ‘la grazia nella disgrazia’, lo prendo proprio da lui.
Bagnasco è entrato nel tema prendendo spunto dalla precedente riflessione sui sacerdoti e sottolineando la circostanza della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie.
Per non rovinare la bella riflessione non cito nessuna parte, ma allego l’intero breve paragrafo come link.

La preoccupazione del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana appare quella di aiutare le persone a pensare in maniera meno evasiva all’appuntamento con il grande evento.
E, in chiave cristiana, pensare che morte - giudizio, inferno, paradiso (rettamente intesi, aggiungo io) – sono tappe di una vita che va oltre la morte e sfocia nella vita eterna.

Tutto grazie a Cristo, alla sua morte e risurrezione.
E’ la ‘novella’ più ‘buona’ che abbia mai udito.
Ascoltarla annunciare di nuovo fa bene.
Stefano Gentili

http://docs.google.com/View?id=df488bnb_29fmf3mrft

venerdì 20 novembre 2009

ECCELLENTE BAGNASCO. SACERDOTI, UOMINI DELLO SPIRITO E DEL CUORE

Il cardinale Angelo Bagnasco sempre nella Prolusione di Assisi del 9 novembre, prende spunto dall’Anno Sacerdotale in corso per evidenziare “l’identità più profonda” del sacerdote di oggi.
La matrice è Gesù Buon Pastore e un’esemplarità è rappresentata dal Santo Curato d’Ars, ma non v’è dubbio che “ogni epoca ha in qualche modo il diritto di caricare la figura del prete di attese specifiche”.

E allora?
Allora, per dirla come la vedo, Bagnasco è riuscito a dare voce a ciò che spesso le persone pensano, magari senza dirlo o dicendolo a bassa voce oppure in qualche raro caso a manifestarlo con franchezza.
Quando dico 'le persone' intendo ‘noi’ gli appartenenti per scelta alla comunità cristiana, i frequentanti, gli sporadici, quelli ancora meno assidui e anche i non praticanti. Non tutti (e che ne so, io!) ma un bel campione sicuramente si. Quando si riesce ad entrare nella questione la cosa salta fuori.
Ma, insomma, cosa ha detto il cardinale.
Ha detto…ha detto.

“Nella società contemporanea, il sacerdote è chiamato ad essere, più di sempre, uomo dello spirito, ossia l’uomo che si affida anzitutto non alla ricerca di forme pastorali meglio adeguate, o a qualche raffinata scienza accademica, o ad un’organizzazione efficiente del tempo, ma ad uno scavo, ad un approfondimento inesausto, ad un’adesione interiore e amata all’essenziale della propria missione: se dovesse mancare, anche le metodiche più raffinate resterebbero inefficaci. Il sacerdote deve trovare la sorgente della santità nell’oggetto del suo sacerdozio, nella carità pastorale di cui la sua missione è come impregnata. Allora non cercherà evasioni, né cercherà compensazioni, ma sarà pago della missione che incombe sulla sua anima, e la farà fiorire nella sua personalità. E in questo processo di identificazione tra l’evento interiore e i modi esteriori, egli diventa l’uomo dello spirito, che vince sulle costrizioni della materia. «La grande sventura di noi parroci – diceva Giovanni Maria Vianney – è che l’anima si intorpidisce». Ogni vero prete non si tira indietro rispetto alla missione, e questo – a ben guardare – è tipico della figura sacerdotale che nei secoli ha preso forma nel nostro Paese. Sia che stiano nel tempio, sia che visitino le famiglie – specialmente nella benedizione annuale - sia che animino le attività pastorali, i nostri sono sacerdoti che si sentono mandati a tutti, destinati a tutti, anche ai non frequentanti, anche a coloro che sono tiepidi o freddi rispetto all’appartenenza religiosa, e per questo loro slancio devono sapere di essere da noi Vescovi ringraziati, sostenuti, ammirati. Nel testo indirizzato ad ogni sacerdote all’inizio di questo anno speciale, Benedetto XVI ricorda come il Santo Curato d’Ars, che pure si poteva intendere in un certo qual senso trasferito di abitazione nella sua chiesa, era però capace di «abitare attivamente tutto il territorio della sua parrocchia» (Lettera per l’Anno sacerdotale, 16 giugno 2009). Direi che qui c’è un tratto caratteristico del modello – se l’espressione può passare – del sacerdozio pastorale, del prete cioè che considera propria una missione coestesa a tutto il territorio a lui affidato. Non è l’uomo consacrato che semplicemente custodisce la sacralità del tempio, e colà attende che il popolo arrivi secondo rigidi orari, pur se proprio lì esercita un ruolo unico e indispensabile; egli è l’uomo conquistato da Dio per accompagnare e magari sorprendere gli abitanti del suo territorio là dove vivono, per andarli a trovare, a cercare, a scovare. In questo è, ad un titolo speciale, immagine di quel Padre che non si dà pace finché non fa sentire ciascuno dei suoi figli amati e desiderati, amati e rincorsi, amati e infine ritrovati. Essere prete è la vocazione di chi sta accanto alla propria gente come testimone di misericordia. Senza la percezione della divina misericordia, infatti, gli uomini di oggi non sopportano la verità. Per questo Cristo vuole la Chiesa maestra e madre! In un mondo dell’efficienza e privo di misericordia, ciascuno tende ad auto-giustificarsi e magari ad accusare gli altri. Fino a quando non scopre di essere già raccolto nel palmo della mano di Dio, e tenuto stretto al suo cuore divino. Già, il sacerdote è l’uomo del cuore, ne conosce gli abissi, e così diventa lo specialista di Dio. Sa cioè coltivare «quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo. […] Proprio per questo noi sacerdoti non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce. E solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo”» (Benedetto XVI, Omelia per l’apertura dell’Anno Sacerdotale, 19 giugno 2009).”

La mia vita è stata ed è costellata dalla presenza di figure sacerdotali bellissime che hanno corrisposto anche alla visione esplicitata dal cardinale. Hanno lasciato segni indelebili nella mia persona, nella formazione, nella spiritualità, nella concretezza della vita. Alcuni sono morti, altri sono vivi e vegeti.
Per tutti provo un senso di riconoscenza difficilmente esprimibile.
Come tutti gli uomini, come me, anche loro non sono stati e non sono esenti da limiti, difetti, incongruenze. E meno male! Anzi il tutto li rende più belli, perché più veri.

La riflessione di Bagnasco mi sembra, però, toccare una questione che vale la pena mettere ancora una volta sotto la lente d’ingrandimento, perché è un po’ figlia del tempo che stiamo vivendo, troppo spostato sul fronte dell’efficienza e povero di indicatori di speranza.

Sia chiaro, efficienza, organizzazione, affinamento delle capacità tecnico-pedagogiche e altro ancora, sono tutte cose buone e giuste e da coltivare in ogni campo. Quando ancora potevo insegnare ho visto sulla mia e sull’altrui pelle (quella dei ragazzi) i nefasti esiti di insegnanti che ‘sapevano’, erano pure ‘brave persone’ ma ‘non sapevano insegnare’ spesso solo per ostinazione a non volere apprendere nuove strategie, metodi, ecc., ecc.
Questo vale anche nella comunità cristiana per tutti quelli che hanno compiti educativi e per i parroci con la loro responsabilità di presiedere, talvolta dirigere (nella condivisione…) le attività pastorali.

Ma se è vero che – ormai da tempo – viviamo in tempo votato all’efficienza e svuotato di speranza, allora – probabilmente – la presenza di sacerdoti “dello spirito e del cuore”, magari anche un tantino meno efficienti e più “portatori di speranza” rappresenterebbe balsamo allo stato puro.
O no? Che dite?
Eccellente, Bagnasco, eccellente.
Stefano Gentili

mercoledì 18 novembre 2009

OTTIMO BAGNASCO: I SETTE CROCIFISSI, IL PERDONO, L’AMORE

Confesso… anch’io avevo rimosso il fatto: sette fratelli cristiani, nelle scorse settimane, sono stati “orribilmente uccisi” in Sudan, parodiando macabramente la crocifissione.
E’ l’incipit del Cardinale Angelo Bagnasco nella Prolusione di Assisi del 9 novembre 2009.
“Giovani dai quindici ai venti anni, strappati alle loro famiglie mentre pregavano in chiesa”.
Anche oggi è tempo di martiri cristiani, come lo è stato ieri, l’altro ieri, su, su sino all’epoca apostolica.
“Per quanto ai popoli della libertà talora sprecata possa sembrare incredibile, e quasi impossibile - annota Bagnasco - il sacrificio della vita è ogni anno richiesto a un numero elevato di operai del Vangelo”.

L’evento di per sé choccante, purtroppo non sorprende.
Andrea Ricciardi nella pubblicazione Il secolo del martirio. I cristiani del Novecento, Ed. Mondadori 2000, introduceva: “Sono entrato nel grande archivio della Commissione Nuovi martiri, dove sono raccolte lettere, segnalazioni, memorie che, in questi ultimi anni, sono arrivate da ogni parte del mondo a Roma. Ho cominciato a sfogliarle. Sono lettere ufficiali di conferenze episcopali. Ma anche memorie di congregazioni religiose. Leggevo e mi sono appassionato. C’erano storie di migliaia di uomini e donne contemporanei: cristiani uccisi in quanto tali. Mi scorrevano sotto gli occhi le pagine della persecuzione religiosa in Russia dal 1917, le storie delle vittime del nazismo, quelle di tanti missionari, le vicende di cristiani uccisi in ogni parte del mondo. Qualcuna è nota, come quella di mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso nel 1980 mentre celebrava l’Eucarestia. La maggior parte è sconosciuta. Mi sembrava di non conoscere bene questo aspetto della vita della Chiesa del Novecento. Non potevo dire di ignorare la storia di tante persecuzioni e dolori, ma mi sono reso conto di quanto fosse estesa e profonda. (…) Non è solo la storia di qualche di qualche cristiano coraggioso, ma quella di un martirio di massa. I cristiani uccisi lungo il nostro secolo sono centinaia di migliaia”.
Nella costola di sovra copertina si dice: “Dal genocidio degli armeni del 1915 fino ai massacri di Timor Est del 1999, passando per il comunismo bolscevico, il nazismo, i regimi dittatoriali dell’America latina, le tragedie dell’Africa, l’oppressione dell’Islam integralista, le vittime della mafia. Si disegna un fenomeno di massa difficile da quantificare: almeno tre milioni, ma sicuramente di più, di cristiani assassinati”.
Cristianamente tutti costoro sono “pietre vive, scolpite dalla Spirito, con la croce e il martirio, per la città dei santi” (da un Inno del Breviario). Ma sono tanti…..

Il Cardinale parla dell’episodio del Sudan evidentemente impressionato, ma la ricetta che propone non è bellicosa; anzi, rifacendosi al Sinodo per l’Africa da poco conclusosi a Roma riprende alcuni degli insegnamenti venuti da quell’assise.
E ribadisce che “per ragioni storiche come per i drammi politici recenti, l’Africa ha bisogno di ritrovarsi attorno al focolare del perdono e del rinnovamento, come condizione indispensabile di ogni dinamismo aperto al futuro”.
In questo quadro cita l’intervento di una testimone donna presente al Sinodo (donne che definisce spina dorsale del continente) per precisare che c’è bisogno di una riconciliazione che “non consista tanto nel rimettere insieme persone o gruppi, quanto nel rimettere tutti in contatto con l’amore e lasciare che avvenga la guarigione interiore”.
Già l’Amore, l’annuncio del Vangelo.
Ottimo!... cardinale. Ottimo. Vanno lette le Prolusioni e pure meditate.
Stefano Gentili

lunedì 16 novembre 2009

SPLENDIDO BAGNASCO. "AFRICA": PAROLE FORTI, ASCOLTO DEBOLE. DENUNCIA DELLE STRUTTURE DI PECCATO

"Parole forti sono state pronunciate" durante il Sinodo per l’Africa riunitosi in Vaticano dal 4 al 25 ottobre 2009, ma "hanno avuto un ascolto debole, anche per il rilancio troppo flebile che i media internazionali hanno riservato a questo appuntamento", lamenta nella Prolusione di Assisi del 9 novembre il Cardinale Angelo Bagnasco.

Eppure, "per i cittadini e i Paesi del Nord del mondo, il recente Sinodo sull’Africa doveva essere l’occasione propizia per una disinteressata disamina delle proprie responsabilità. Così ci saremmo potuti scuotere dall’apatia con cui generalmente si guarda a quel grande Continente che a troppi fa comodo mantenere in una indegna subalternità. Chi non sente oggi il desiderio di uscire finalmente dai luoghi comuni infarciti di stucchevole pietismo? Parole forti infatti sono state pronunciate sui ‘tossici rifiuti spirituali’ che le regioni ricche della terra scaricano sulle povere, sui conflitti armati dovuti, più che al tribalismo, all’ingordigia delle multinazionali protese ad uno sfruttamento in esclusiva delle risorse strategiche, e su certo colonialismo ‘finito sul piano politico’ ma ‘mai del tutto terminato’ sul piano culturale ed economico".
Parole chiare….

Il cardinale ha ricordato come la "mancanza di cibo" continui ad essere il flagello principale dell’Africa e quindi il raggiungimento della "sicurezza alimentare resta l’obiettivo primario, specialmente in tempi di crisi economica".
Il messaggio forte e chiaro era rivolto a tutti, ma anche riferito al tema della Giornata mondiale dell’Alimentazione che cade oggi, 16 novembre, giorno in cui si apre un Vertice mondiale dei capi di Stato e di governo.

Vertice nel quale sarà letto un Messaggio del Papa, inviato al direttore generale della Fao Jacques Diouf, in cui avverte - dice proprio avverte! Bagnasco - che l’accesso al cibo, prima di essere un ‘bisogno elementare’, è ‘diritto fondamentale delle persone e dei popoli’.
Infatti, senza retorica, moralismi, predicozzi vari, sempre Benedetto XVI - nell’enciclica Caritas in veritate - aveva ricordato che il dramma della povertà può essere superato solo "eliminando le cause strutturali che lo provocano (l’accesso al cibo) e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale".
Cause strutturali….

E sempre nel messaggio, invita a cambiare stili di vita, mettere da parte privilegi e profitti, promuovere lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri, per sconfiggere il flagello della fame, che colpisce oltre un miliardo di persone nel mondo. "Si tratta – sottolinea Benedetto XVI - di una concreta manifestazione del diritto alla vita, che, pur solennemente proclamato, resta troppo spesso lontano da una piena attuazione".

Infatti, chiosa Bagnasco, "dal punto di vista scientifico ormai è assodato che il fenomeno della fame non dipende tanto dalla scarsità materiale delle risorse quanto da fattori sociali e istituzionali, ai quali occorre volersi applicare senza ulteriori esitazioni. Nell’arco di alcuni decenni bisognerà saper procurare il 70 per cento di cibo in più se si vuole non far trovare la credenza vuota quando la popolazione mondiale sfiorerà – a metà del secolo – i nove miliardi di persone".
E riprendendo un’omelia del Papa ricorda che " ‘la via solidaristica allo sviluppo dei popoli’ è di per sé non una complicazione ma ‘un progetto di soluzione della crisi globale in atto’, dunque un traguardo perseguibile dalla volontà politica dei cittadini e dei governi. E la stessa ‘globalizzazione è una realtà umana e come tale è modificabile secondo l’una o l’altra impostazione culturale’ ".
Impostazione culturale. Uhm!...

La Chiesa non parla e basta, anche se parlare è la prima fondamentale cosa che è necessario fare. Anzi, è proprio il silenzio la cosa sconcia!
La comunità cristiana, dice Bagnasco, per tutto questo non si tira indietro, e citando di nuovo il Papa ribadisce che "la Chiesa si impegna anche ad operare, con ogni mezzo disponibile, perché a nessun africano manchi il pane quotidiano" (Omelia per la Conclusione della II Assemblea speciale per l’Africa, 25 ottobre 2009).

Dunque, non è eticamente autorizzato alcun atteggiamento fatalista.
La Chiesa continua nel suo impegno, anzi lo ribadisce col rinforzo.

Me gusta, me gusta. Me gusta soñar.
Stefano Gentili

sabato 14 novembre 2009

LA BELLISSIMA PROLUSIONE DEL CARDINALE BAGNASCO E..."NOI"

Bellissima e di ampio respiro la prolusione del Cardinale Angelo Bagnasco durante l’ultima Assemblea dei Vescovi ad Assisi (9 novembre).
Stringatissimo e asfittico il resoconto di tutta la stampa italiana, a parte Avvenire che ha pubblicato l’intero documento.

Della prolusione basti ricordare il titolo, Chiesa al servizio dell'umanità e i titoletti dei paragrafi (non sul testo, ma indicati da Avvenire):
I sette crocifissi, la via di Cristo
Africa: parole forti, ascolto debole
Missionarietà: anglicani e impegno per l’unita’ dei cristiani
Sacerdoti, uomini dello spirito e del cuore
Non mimetizzare la morte, spiegare la risurrezione
Questione mediatica, sfide culturali
L’Europa, i suoi valori, certe surreali imposture
I principi non negoziabili condizione del confronto
Urgente svelenire il clima politico-mediatico

Per fare una semplice comparazione: la prolusione scritta è stata di 7.559 parole, l’ultimo paragrafo (dove si parla non solo di clima politico e mediatico, ma anche delle tragedie dell’Abruzzo e di Messina, del Sud e del lavoro, dei molti soggetti che hanno doveri politico-amministrativi, economico-finanziari, sociali, culturali, informativi) di 748 parole, quelle in genere riportate dalla stampa e riferite al clima politico attuale di solito titolate “In Italia c'è un pericoloso clima d'odio”, 155 parole.

Mentre scrivo questo post, mi viene da sorridere, tanto che non riesco a commentare…...Ma la mia intenzione non è quella di fare la solita critica ai mezzi di informazione, bla, bla, bla, (tanto è evidente!). Non ho più tempo per le solite cose.

No, no. Penso a "noi", alle comunità cristiane, ai preti, alle suore, ai monaci e alle monache ai cristiani-laici: l’hanno letta? La leggeranno?
Mah!
Stefano Gentili

mercoledì 11 novembre 2009

"SUPER TOTTI" "SUPER SIMO" ... "SUPER DI CHE?" IO DICO DI "NO"

In certi casi il nostro parlare deve essere si, si o no, no, il resto è del maligno.
In una recente trasmissione di “Quelli che il calcio” condotta da Simona Ventura è stata data una lezione pubblica disdicevole passata con una straordinaria leggerezza dell’essere.
La lezione riguardava gli attualissimi trans prendendo spunto dalla vicenda Marrazzo.
Siccome ho trovato una breve riflessione di Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera del 10 novembre, nella quale mi riconosco in modo totale, non aggiungo altro, la copio e incollo e la ritrasmetto.

Il titolo è: “Quando la tv non fa il suo mestiere”. Ecco il testo in corsivo.
“Ognuno è libero di fare quel­lo che vuole”. Così Francesco Totti a “Quelli che il calcio”, parlando della vicenda Marrazzo. Simona Ventu­ra gli dà ripetutamente ragione, poi fuo­ri programma spiega: “Sono tantissimi quelli che vanno coi trans, e lo sappia­mo tutti. Non è giusto che un personag­gio pubblico non possa farsi gli affari suoi come tutti gli altri”. Se questa è la pedagogia televisiva italia­na, buonanotte.A Super Totti si potrebbe obiettare che uno NON è li­bero di fare quello che vuo­le, se è costretto a nascon­derlo agli elettori, se si ridu­ce a frequentare spacciatori, se si rende ricattabile. A Su­per Simo potremmo invece ricordare che sono moltissimi — forse addirittura più numerosi — gli italiani che NON vanno coi trans, e forse han­no fatto alcune cose buone per questo povero Paese, dove la Tv pubblica di­venta veicolo di queste trovate.Nessuno vuole usare la televisione per fare della morale (per carità!), ma cerchiamo almeno di non renderla im­morale, perché molti ragazzi la guarda­no, e rischiano di alzarsi dal divano con le idee confuse. Le grandi democrazie — vi sembrerà strano — sono tali an­che perché esiste un consenso su alcu­ne cose. Per esempio, sul fatto che il ti­tolare di una carica pubblica non deb­ba circondarsi di prostitute, frequenta­re malavitosi e pagare trans. E, se lo bec­cano, non possa trovare difensori in un programma sportivo (sportivo!) del po­meriggio.È ipocrisia? Allora viva l’ipocrisia. Sono considera­zioni banali? Vero, ma è in­credibile come non le faccia più nessuno. Il metaboli­smo civile italiano, ormai, brucia il veleno e lo trasfor­ma in una risata. Poi non la­mentiamoci, però, se non abbiamo un bel colorito na­zionale.
Siamo convinti che Piero Marrazzo, passata la buriana, ci darebbe ragione. Sarebbe bello lo facessero anche Super Totti e Super Simo. Ma lo riteniamo im­probabile. Le celebrità italiane non si scusano; accusano, semmai, e c’è sem­pre qualche frastornato che gli dà ragio­ne.
Bravo Beppe, anch’io dico "no", così non va bene.
Stefano Gentili

lunedì 9 novembre 2009

COSTRUZIONE E CADUTA DEL "MURO DI BERLINO"

Nel ventennale della caduta del Muro di Berlino anch’io vorrei dire qualcosa.
Ma, confesso, che preferisco ascoltare e gustare perchè le parole vere stentano e molti altri sanno rappresentare l’evento in maniera più pertinente.
Cogliere i cambiamenti che vi sono stati dal 1989 al 2009 è facile ed è esprimibile in modo semplice: è mutato il mondo, l’Europa, l’Italia.
Nel nostro paese è cambiata…la società.
Ieri è stato detto che è mutato “il suo rapporto con le istituzioni, il suo rapporto con se stessa, la percezione che gli individui hanno della propria felicità”.
E ciò richiede meditazione perché “coinvolge i modi di pensare, i comportamenti, il rapporto dei padri con i figli, l’assetto delle famiglie, la politica, la democrazia”.

Già i figli, il prossimo futuro.
Penso a mio figlio Giovanni nato nel 1988, un anno e sette mesi prima della caduta del Muro e ripenso a me nel 1961 (anno della costruzione) all’età di 4 anni e provo a ripensare al clima di quegli anni che ho compreso solo dopo e… a come eravamo e…come siamo.

Ma penso a mio figlio Giovanni anche perché durante il primo anno di frequenza (2007-8) all’Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Studi Internazionali, nel corso di Storia contemporanea, ha elaborato un piccolo lavoro dal titolo: “LA COSTRUZIONE DEL MURO DI BERLINO (1961) IN TRE GIORNALI DELL’EPOCA: IL CORRIERE DELLA SERA – L’UNITÀ – L’AVANTI!”
Credo sia interessante dargli uno sguardo, pur nella consistenza dello sforzo di un giovanissimo studente e, avuto il suo OK!, lo allego per chi magari volesse vedere come fondamentali giornali dell’epoca vedevano e veicolavano la cosa.

I muri…
I muri non servirebbero mai, ma la storia talvolta li richiede.
I muri più duri da abbattere sono quelli eretti dentro di noi.
Evviva la caduta del muro di Berlino, abbasso tutti i muri ancora eretti, e quelli che altri uomini in futuro costruiranno.
Segue il link con il testo di Giovanni.

http://docs.google.com/Doc?docid=0AelYtIZZ0cU5ZGY0ODhibmJfMjdmN25zN2pmZA&hl=en


Stefano Gentili