giovedì 30 dicembre 2021

POST 57 – IL CAOS DEL CORRIDOIO TIRRENICO

Nel 1995 ci trovammo in un vero e proprio bailamme. Con l’assessore Renato De Carlo ci impegnammo come matti per portare a casa qualche risultato. Le sabbie mobili delle chiacchiere e dell’immobilismo altrui ingoiarono anche noi. L’unico fatto concreto fu il progetto definitivo per l’adeguamento in sede del tratto a due corsie di Capalbio da noi commissionato all’Anas

Il corridoio tirrenico è ancora oggi una necessità e infatti se ne continua a parlare. Esso, in verità, significa infrastruttura plurimodale fatta di mare, ferro e strada con la funzione anche di collegare i porti commerciali e turistici toscani. Ma ora mi soffermo sulla strada.

La questione del corridoio tirrenico ha qualcosa di mitologico e la sua origine si perde nella notte dei tempi.

Partita l’avventura quando io avevo 12 anni, nel lontano 1969 con un decreto ministeriale che autorizzava la concessione alla SAT (Società Autostrada Tirrenica) da parte dell’Anas per la costruzione e l’esercizio dell’autostrada Livorno-Civitavecchia, già nel 1975 fu bloccata dalla legge La Malfa (Ugo) con il fermo messo a tutte le costruzioni di nuove autostrade. Costruzioni che tornarono poi in pista nel 1982 e furono confermate nel 1985, ma senza risultati concreti. Nel 1991 il progetto autostradale, con tracciato interno, presentato dalla concessionaria fu oggetto di pronunciamento di Valutazione di Impatto Ambientale negativo da parte del Ministro dell’Ambiente di concerto con quello dei Beni Culturali e Ambientali. Da noi, polemiche, dibattiti, prese di posizione, propaganda sul come farla: alcuni nel riempirsi la bocca ci si sono ingrassati.

① COSA TROVAMMO. Appena eletto Presidente della Provincia di Grosseto, mi trovai in un vero e proprio bailamme.

I punti esclamativi di quel periodo – “Fare l’autostrada è un obbligo morale!”, “Non si deve fare!”, “Muovetevi o moriamo!”, “Non c’è volontà politica!”, eccetera, eccetera, – andavano bene per il circolo bocciofili, per i dibattiti congressuali, per le polemiche sulla stampa.

Notoriamente il come fare questa benedetta strada è sempre stato oggetto di accese disfide e ha dato vita a mille, legittimi, sentiti quanto inconcludenti, dibattiti.

Ma nel 1995 la realtà in cui si trovava chi doveva tentare di fare qualcosa di concreto era il caos assoluto, ed era davvero difficile trovare il pertugio utile.

Sul fronte dei soggetti che potevano dire e fare cose operative, la confusione era massima.

Non si riusciva a comprendere chi avesse veramente il bandolo in mano. C’era l’ANAS (da poco Ente nazionale per le strade) con il Presidente Giuseppe D’Angiolino, la SALT (Società Autostrade Ligure Toscana) col presidente Francesco Baudone, la SAT (Società Autostrade Tirrenica) con Stancanelli, poi in seguito nacque la SPAT (Società per l’Autostrada Tirrenica) con presidente Carlo Alberto Dringoli, una società privata costituita dalle associazioni industriali di nove province della fascia tirrenica e dalla stessa Salt. Sembrava un tavolo da gioco e nessuno sapeva se i giocatori avevano in mano il poker d’assi o una coppia di sette.

Se penso poi agli interlocutori politici, mi viene il mal di mare. Tutte persone rispettabilissime e di livello, naturalmente, ma troppe.

Nella legislatura maggio 1995 – giugno 1999 ho passato 3 Presidenti del Consiglio, Dini, Prodi e D’Alema e 4, dico 4, Ministri dei Lavori Pubblici, Paolo Baratta (fino al 17 maggio ’96), Antonio Di Pietro (dal 18 maggio al 21 novembre ’96), Paolo Costa (dal 22 novembre ’96 al 21 ottobre 1998), Enrico Micheli (dal 22 ottobre ’98 alla fine della nostra legislatura provinciale).

L’unico riferimento fermo, sia pure con lievi oscillazioni, fu la Regione Toscana col Presidente Vannino Chiti e l’Assessore Tito Barbini.

LA LINEA POLITICA ERA MOLTO SUSSULTORIA, ANCHE SE NOI, SPECIE NEGLI ATTI FORMALI, FUMMO LINEARI. Negli atti programmatori che trovai in Provincia si auspicava l’ammodernamento dell’Aurelia. D’altro canto, proprio tra il 1995 e il 1996 la Regione Toscana sembrò trovare un asse con la SAT e ambienti governativi: la formula magica fu “percorso unitario d’intenti” per “un’unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica”.

Noi tendevamo a leggere quella formulazione politichese più spostata sul versante Superstrada, che su quello dell’Autostrada. E i nostri atti formali si mossero in quella direzione. Il 25 settembre 1996, infatti, deliberammo in Consiglio Provinciale l’adeguamento dell’Aurelia da Grosseto al confine con il Lazio con l’indicazione puntuale degli svincoli da realizzare al posto delle immissioni a raso, dei tratti da portare a quattro corsie e persino delle indicazioni progettuali e morfologiche per il miglior inserimento nel paesaggio. Questa deliberazione non è stata mai revocata.

Fu proprio sulla base di quella delibera che, nel gennaio 1999, chiedemmo all’ANAS di redigere il progetto definitivo (finanziato da noi e dalla Regione Toscana) per l’adeguamento in sede del tratto a due corsie nel comune di Capalbio. Anche questo progetto che io sappia non è mai stato ritirato.

Sia chiaro, però, che eravamo disposti ad accogliere anche la proposta dell’Autostrada costiera (prevalentemente sul tracciato Aurelia) di fronte ad una proposta vera, con soldi veri, con tempi certi e alle condizioni ambientalmente più compatibili.

② L’APPARENTE ELISIR DEL 1996. Sul fronte del dibattito, sembrò improvvisamente possibile intravedersi una via d’uscita, anche a seguito di un autorevole incontro tenuto a Grosseto nel 1996 presso la Camera di Commercio voluto dal Comitato permanente per la realizzazione prioritaria dell’autostrada Livorno-Civitavecchia: presenti Carlo Alberto Dringoli (Presidente del Comitato organizzatore), il vice-presidente del Consiglio regionale Mauro Ginanneschi (per Vannino Chiti), Tito Barbini, assessore regionale ai trasporti, il sottosegretario ai trasporti Giuseppe Soriero, il sottosegretario ai lavori pubblici Antonio Bargone, il presidente della Salt Francesco Baudone, il direttore generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta.

Come detto, l’elisir fu rappresentato da due espressioni: “percorso unitario d’intenti” e “unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica”.

Consci che la problematica di fondo era di carattere finanziario, furono fatte anche delle cifre e ipotizzato un percorso. Secondo calcoli che si dicevano attendibili, la realizzazione del tratto di percorrenza Grosseto-Civitavecchia sarebbe costato circa 1.300 miliardi di lire (l’Anas ne disponeva forse di 1.000, che erano la metà del proprio fondo di dotazione). Quindi che cosa si poteva fare? Ipotizzando la trasformazione della superstrada Rosignano-Grosseto in autostrada a pagamento (costo previsto 300 miliardi di lire) con i ricavi del pedaggio (da cui si pensava di escludere il traffico locale) si sarebbe potuto finanziare il proseguimento del corridoio (una strada europea a norme comunitarie, si diceva) fino a Civitavecchia. A questa ipotesi, si disse, si poteva concretamente lavorare perché la Salt, con il suo presidente Francesco Baudone, aveva dichiarato la propria disponibilità. In sostanza, la Salt avrebbe pagato la spesa di trasformazione (300 miliardi) e incassato il pedaggio del tratto Rosignano-Grosseto. Soluzione che non avrebbe richiesto l’intervento delle casse dello Stato, già allora sempre più asfittiche.

La via di uscita fu più un abbaglio che una realtà. L’elisir ebbe vita breve.

La Provincia, per le sue scarse finanze e le pressoché nulle competenze sulle grandi opere, non poteva in realtà fare molto, però un peso lo poteva avere, soprattutto nella tessitura di una posizione discussa e condivisa. Insieme all’Assessore Renato De Carlo, persona di grande signorilità, competenza e abnegazione, contattammo praticamente tutti, incontrandoci o scontrandoci, avanzando proposte e accompagnando ogni piccolo barlume realizzativo. Naturalmente nell’ottica di realizzare un’opera il più possibile capace di unire concretezza a rispetto dell’ambiente.


Personalmente, su questo tema ho sempre avuto un approccio pragmatico.

Non avevo un’ideologia da difendere e comprendevo che i nemici da battere erano i dibattiti inconcludenti, i veti contrapposti, le ipotesi contrastanti. Lo consideravo come il gioco delle tre carte: altri ci davano le carte e puntualmente ne facevano sempre sparire una, dirottando le sempre meno pingui risorse statali verso altre zone d’Italia.

Per questo nel 1995 ero favorevole all’adeguamento dell’Aurelia perché c’erano limitate risorse disponibili e l’intervento autostradale ne reclamava molte di più. Poi dal 1996 venne fuori l’ipotesi dell’Autostrada secondo la modalità che ricordavo prima (unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica) che come detto per me voleva piuttosto dire Superstrada con caratteristiche autostradali. E sposai questa ulteriore possibilità, in sintonia con la Regione Toscana, forse più spinta di noi. Il problema vero erano sempre le risorse, la certezza della realizzazione e i tempi.

Con i Ministri una vera relazione fu possibile metterla in piedi solo con Paolo Costa. Ricordo ancora lucidamente quanto mi disse durante un incontro nel ’97 presso il suo Ministero: il corridoio tirrenico è una delle 6 o 7 priorità nazionali. I soldi per tutte non ci sono. Per sperare di farla rientrare tra le prime 2 o 3 è necessario che tutti gli attori locali, comuni, provincia, regione, soggetti vari, trovino una posizione unitaria e parlino con una sola lingua.

Già lo sapevamo, ma il messaggio fu forte e chiaro. E io e De Carlo ci mettemmo proprio a tessere quella tela, con la consapevolezza della nostra modestia, ma anche della utile rilevanza del nostro compito. Continuammo i contatti con la Regione, il Ministero, l’Anas nazionale e regionale, le varie Società Autostrade, dialogammo con il sistema associativo locale e favorimmo diversi incontri con i Sindaci da Capalbio a Follonica (che non la pensavano tutti allo stesso modo): sostanzialmente, grazie a tutti, fummo in grado di raggiungere una posizione unitaria, al di là delle propagande di rito e di intelligenti precisazioni su pedaggio, autostrada aperta e via discorrendo.

Questa raggiunta intesa ebbi modo di comunicarla al Ministro Costa quando venne a Grosseto il 13 luglio 1998. Nell’assise pubblica che si tenne al Granduca gli rivolsi queste parole: “Nell’incontro che si ebbe presso il suo ministero nel corso del 1997 lei mi disse che il Governo avrebbe lavorato per quegli interventi sui quali si registrava un consenso unanime a livello locale. Sul consenso ci abbiamo lavorato ed è stato sostanzialmente raggiunto. Ora attendiamo la risposta nazionale su tempi, progetti, finanziamenti, esenzione del pedaggio per i residenti. L’Amministrazione Provinciale di Grosseto sull’Aurelia ha già messo risorse insieme alla Regione Toscana per la progettazione esecutiva del tratto a due corsie di Capalbio”. Sia chiaro che in quel caso si sarebbe trattato di autostrada e al ministro dissi: “autostrada sia”.

Risposte non ne avemmo, anche perché di lì a qualche mese cadde il Governo Prodi (ottobre 1998).

③ L’USCITA DELLA SALT. Nel frattempo la neonata Salt per bocca del Presidente Carlo Alberto Dringoli tra la fine del 1997 e gli inizi del 1998 aveva dichiarato che per trasformare in autostrada aperta la variante Aurelia e realizzare con le stesse caratteristiche la tratta mancante fra Grosseto e Civitavecchia, c’era già un progetto con finanziamento da parte dei privati e una data certa di consegna, il 2004. Noi sollevammo qualche perplessità di tipo burocratico come le concessioni (ma il Presidente Dringoli disse che non ne aveva bisogno), ed era vero che in linea teorica, sempre a risorse e tempi certi, avremmo preferito per il tratto a sud di Grosseto una Superstrada senza pedaggio sul tipo di quella che unisce Siena a Firenze (come si diceva, ristrutturazione dell’Aurelia con tipologia autostradale: 25 metri, due corsie per parte di metri 3.75, corsie di emergenza e tutto il resto). Ma anche questa volta eravamo disponibili a leggere le carte della Salt, specie perché sosteneva che il suo progetto non sarebbe costato neppure una lira allo Stato. Il progetto non ci fu mai consegnato.

• Con questo giungemmo agli inizi del 1999, cioè alla scadenza del nostro mandato.

Ad eccezione del rammentato Progetto definitivo Anas da noi e dalla Regione Toscana finanziato per il tratto capalbiese, non ricordo altri eventi significativi su questo fronte, salvo cortocircuiti della mia memoria.

Insieme a De Carlo ci impegnammo con tutte le nostre forze, ma alla fine ebbero ancora una volta la meglio i chiacchieroni e gli inconcludenti di fatto uniti ai contrari a tutto e a chi aveva interesse a dirottare altrove le risorse.

Quindi anche noi fummo sconfitti e nessuno ci riconobbe almeno il cavalleresco onore delle armi.

















POST 56 – “SE CI PENSI CENTO ANNI PRIMA EDUCHI IL POPOLO”: MUTARE PELLE ALLA FORMAZIONE PROFESSIONALE

La situazione era disastrosa. Insieme a Mariella Gennai, intraprendemmo la strada del cambiamento radicale. La lotta fu durissima, ma noi avevamo messo l’elmetto e a fine legislatura registrammo una vera e propria mutazione genetica

Quando mi trovai in mano la famosa bicicletta provinciale indubbiamente le materie che mi erano più congeniali per storia e cultura personale erano quelle legate alla formazione, all’educazione e alla scuola.

Con Mariella Gennai decidemmo di mettere subito a fuoco la questione della formazione professionale e della scuola. Naturalmente dovendo dimensionarci sulle nostre competenze, molto estese sulla prima, meno sulla seconda.

• Ne discutemmo approfonditamente, insieme ad altri collaboratori giungendo a tre convinzioni elementari, ma decisive.

La prima riguardava la consapevolezza che la più importante risorsa di una comunità sono le persone (o come si usa dire, con espressione che non mi entusiasma, il capitale umano).

La seconda era la percezione del superamento della vecchia tripartizione della vita: la giovinezza legata alla formazione, la maturità dedicata al lavoro e la vecchiaia riservata al riposo e al tempo libero.

La terza consisteva nella convinzione che per riposizionare il nostro sistema produttivo e rilanciare l’economia era necessario vincere la sfida dell’innovazione, e quindi la strada obbligata per arrivare a ciò era ancora quella di investire sulle persone.

Dovevamo solamente fare scelte conseguenti, investire seriamente in formazione, costruire percorsi formativi di apprendimento “life long learning” (come si diceva), inventare strumenti di ricerca dei bisogni formativi, spalancare le porte del fortino provinciale.

Se penso all’avverbio usato – solamente – mi viene di nuovo l’orticaria.

• La situazione della formazione in Provincia era disastrosa.

Le ragioni erano molteplici (demotivazione e scontri tra il personale, nicchie che venivano salvaguardate, ecc.), ma ravvisammo l’errore di fondo nella gestione diretta dei corsi, figlia di quel tempo e di una mentalità statalista e ideologizzata propria della classe politica che sino allora aveva governato. Molta gestione, con connaturate clientele e in realtà poca vera e innovativa programmazione, che invece andava fatta e fatta bene, partendo dalle reali necessità del territorio, ascoltando interlocutori veri e possibilmente non politicizzati.

La lotta fu durissima ed è comprensibile il perché.

Messaggi trasversali, letteracce, ribellioni organizzate. Addirittura, visto che scegliemmo di pescare il nuovo dirigente, che fu poi il docente universitario Carlo Odoardi, al di fuori del personale dell’ente con una selezione rigorosa e innovativa (tra 150 candidati, una trentina dei quali con curricula formidabili), diversa dal solito inconcludente, lungo e forse pilotato concorso interno, a seguito di una immotivata denuncia di qualche dipendente, fummo attenzionati dalla procura.

• La lotta fu durissima, dicevo, ma noi avevamo messo l’elmetto e quando feci un bilancio di legislatura mi resi conto che avevamo prodotto una vera e propria mutazione genetica.

La gestione della Formazione Professionale era passata dalla forma diretta per la quasi totalità dei corsi, ad un prevalente spazio a quella autorizzata (cioè svolta all’interno delle aziende) ed alla formazione convenzionata (affidata alla collaborazione delle agenzie formative specializzate).

Nel 1996 il rapporto era 101 corsi in gestione diretta, 7 nelle altre due tipologie e circa 1000 allievi coinvolti.

Nel 1999 fu di 15 corsi in gestione diretta, 188 tra l’autorizzata (132) e la convenzionata (56) e la previsione era che vi partecipassero oltre 3000 allievi.

Inoltre il sevizio formazione della Provincia gestiva al 1999 relazioni esterne con 13 agenzie formative e con oltre 30 aziende che facevano formazione al loro interno attivando circa 600 operatori. Era di fatto nata una rete di soggetti, fatta di scuole, imprese, associazioni di categoria, università, enti locali, che direttamente o indirettamente si facevano carico e contribuivano a garantire lo sviluppo di competenze individuali e che avrebbero potuto sempre più e sempre meglio favorire l’innovazione e lo sviluppo del sistema economico e di tutto il territorio.

Non tutto era oro, naturalmente; anche all’esterno c’erano alcune vischiosità, qualche lentezza e in certi casi cattive abitudini figlie di un antico legame col potere.

Ma il salto era fatto e la Provincia, anche in questo caso, era uscita in campo aperto, fidandosi dei soggetti diversi da se stessa e per ciò stesso riuscendo a promuovere una formazione meno pensata dall’alto (poi non si sa da quali menti sopraffine) e, abbandonando l’impegno nella gestione diretta, a riposizionarsi sul fronte della programmazione, del controllo della qualità e della consulenza.

La capacità di spesa dei finanziamenti che la Regione erogava ogni anno sul Fondo Sociale Europeo era cresciuta esponenzialmente. Il programma di Formazione Professionale del 1998 fu totalmente realizzato e i corsi tutti terminati entro la fine dell’anno. Fu l’unico caso in tutta la Toscana.

L’esigenza di aderire sempre meglio alle richieste del territorio al fine della programmazione ci spinse a dotarci di un Sistema informatizzato proprio per rilevare il fabbisogno formativo che, con la imminente nascita del Centro per l’impiego, avrebbe dovuto anche incrociare domanda e offerta di lavoro.

Progetti specifici innovativi – come il Sulcis (formazione a distanza insieme ad altre 4 regioni), il Laboratorio, che prevedeva l’istituzione permanente di formazione imprenditoriale e una ricerca sul territorio di vocazioni imprenditoriali, unitamente all’avvio della Formazione Integrata Superiore, che partì con un corso per tecnico dei processi agroalimentari e uno per tecnico ambientale esperto in bonifica – rappresentarono il nostro desiderio di spingere la formazione a diventare linfa di nuovo tessuto imprenditoriale.

Insomma, era proprio un’altra cosa rispetto a quella ante-1996.

Non solo, impegnati come eravamo nella questione morale, non declamata ma praticata, pubblicammo sin dal 1996 l’elenco delle docenze effettuate con nomi e cognomi, residenza e compenso dei docenti, fossero singoli o aggregati. Casa di vetro volevo che fosse la Provincia e trasparenti dovevano essere tutti i nostri atti, anche perché se c’era qualcosa che non andava, per errore o perché qualcuno aveva fatto il furbo, ci poteva essere chi eccepiva, puntava il dito, eventualmente denunciava. Nessuno eccepì nulla, almeno in mia presenza o in modo ufficiale.

Sono trascorsi tanti anni da quei momenti e di acqua sotto i ponti ne è passata.

Non sono in condizione di fare una obiettiva valutazione di quello che è avvenuto in seguito. Spero si sia andati avanti, sburocratizzando, modificando quello che ancora non funzionava alla luce dell’esperienza. Spero, soprattutto, si sia continuato a fare della formazione professionale e continua e dell’educazione un luogo di libertà, di sperimentazione, di apertura al nuovo, di crescita di nuove professionalità. Per quegli straordinari anni sono grato a molti, ma in particolare a Mariella Gennai e Carlo Odoardi.

Mentre scrivo queste riflessioni, mi sovviene un proverbio cinese: “Se ci pensi un anno prima pianti riso. Se ci pensi dieci anni prima pianti alberi. Se ci pensi cento anni prima educhi il popolo”.

E mi commuovo.












POST 55 – IL DIMENSIONAMENTO OTTIMALE DELLE SCUOLE

Fu un bel banco di prova. La delicata operazione la condussi in porto insieme all’assessore Moreno Canuti, favorendo un ampio coinvolgimento degli attori in campo. Il futuro si giocava in classe

Negli Stati Uniti quando la discussione politica si infiamma si introduce la questione dei ponti e delle scuole. Cioè di quelle infrastrutture che apparentemente non necessitano di alcuna manutenzione e che parrebbero in grado di resistere all’usura del tempo senza particolari interventi; ma che improvvisamente, se troppo a lungo trascurate, possono entrare in una crisi al cui termine può esservi il collasso (il crollo del ponte) o la rilevazione della sopraggiunta inadeguatezza rispetto al mutare delle esigenze e alle aspettative della società (il sistema scolastico). Al culmine della fase critica si viene colti da improvviso turbamento al pensiero che un manufatto così apparentemente stabile, definitivo, senza particolari costi come un ponte necessiti di interventi straordinari per assicurare la banale funzione per cui è stato costruito (vedi nel nostro caso i ponti di Scarlino Scalo e Giannella).

E che la scuola, di cui nessuno sembrava occuparsi, deve essere riprogettata.

Finalmente, dopo anni di dibattiti, commissioni, interventi di emergenza il mondo della scuola nel 1998 sembrava attraversato dal vento di una nuova stagione riformista. Erano in dirittura d’arrivo una serie di provvedimenti destinati a trasformare radicalmente la fisionomia della scuola italiana. Dopo il varo del Nuovo esame di maturità, la cui prima attuazione era prevista a partire dal 1999, erano all’esame del legislatore: il disegno di Legge sul Riordino dei cicli scolastici; il disegno di Legge sulla Parità nell’ambito di un sistema pubblico integrato; la Riforma degli Organi Collegiali; lo Statuto delle Studentesse e degli Studenti; il Sistema nazionale di valutazione. Il quadro veniva completato dal riconoscimento della Dirigenza ai capi d’istituto e dal Dimensionamento delle unità scolastiche, nel processo di realizzazione dell’Autonomia delle istituzioni scolastiche.

Da parte nostra dovevamo contribuire ad organizzare il Dimensionamento delle unità scolastiche provinciali perché potessero acquisire e mantenere l’autonomia. Naturalmente al governo provinciale della scuola era preposto il Provveditorato agli Studi, noi avevamo competenza sugli Istituti superiori e solo per quanto atteneva l’edilizia. Su questo fronte nei 4 anni di legislatura decidemmo interventi per oltre 20 miliardi di lire.

Ma nel 1998 ci trovammo investiti a promuovere l’operazione del dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche statali.

Per noi una novità.

I PRIMI PASSI. I primi approfondimenti e confronti partirono nel marzo ’98, poi ci furono una serie di confronti con i soggetti chiamati in ultima istanza a decidere, quindi, appena uscito il DPR 233 (18 giugno 1998), avviammo incontri di zona per una prima sommaria analisi della situazione, dei dati della popolazione scolastica anche in prospettiva quinquennale, dei possibili bacini d’utenza, dei punti di vista. Successivamente incontrammo le Organizzazioni Sindacali di categoria e la Consulta Provinciale degli studenti.

Poi si giunse all’insediamento della Conferenza Provinciale (l’8 ottobre) che, nel secondo incontro, approvò il Regolamento interno, gli Indirizzi di programmazione e i Criteri generali del dimensionamento.

In quei criteri sancimmo che il dimensionamento ottimale:

√ per le scuole dell’obbligo coincideva, di norma, con il Comune e quando non c’erano i numeri, con il minor numero di Comuni possibile;

√ per le scuole secondarie superiori coincideva di norma con il Di-stretto, ma poteva essere anche sub-distrettuale e inter-distrettuale.

Si trattava, inoltre, di individuare quali scuole avevano forza numerica propria e quali invece dovevano essere unificate per ottenere l’autonomia. Per far questo vi erano una serie di parametri numerici da rispettare (primo tra tutti quello dei 500 alunni minimi per richiedere l’autonomia, stabili nel quinquennio). Con alcune variabili:

√ sul fronte numerico, per i comuni riconosciuti montani di poter organizzare istituti autonomi, dell’obbligo e superiori, anche con un numero inferiore di alunni rispetto al parametro standard (sino a un minimo di 300);

√ per quanto atteneva le modalità di unificazione, la scuola dell’obbligo poteva organizzare i cosiddetti istituti comprensivi, allora sconosciuti (che unificavano cioè scuola materna, elementare e media).

 

COME CI MUOVEMMO. Ci muovemmo con l’intento di offrire alle comunità locali una pluralità di scelte, articolate sul territorio, tali da agevolare l’esercizio del diritto all’istruzione; cercando un consenso molto esteso e su una larga e convinta adesione dei professionisti della scuola e delle famiglie; attivando un processo disteso, tranquillo, non affrettato, impostato con i tempi giusti e con la prudenza necessaria, per conoscere, argomentare, elaborare ipotesi, discuterle, rielaborarle di nuovo e giungere alle conclusioni che, in scienza e coscienza, ritenevamo le più opportune.

Mi presi l’impegno a chiudere con la decisione finale (che doveva poi essere avallata dalla Regione Toscana) entro il 31 dicembre dello stesso anno. Io presiedevo l’organismo chiamato a decidere, la Conferenza Provinciale, composta appunto dal Presidente della Provincia (che la convocava e la presiedeva), dai Sindaci dei 28 Comuni del territorio provinciale, dai 3 Presidenti di Comunità Montane, dal Provveditore agli Studi, dal Presidente del Consiglio scolastico provinciale. La questione la presi molto a cuore e con me la prese a cuore il nuovo assessore Moreno Canuti, che vi si dedicò con grande impegno.

Chi ha presente le dinamiche presenti negli istituti scolastici e sul territorio quando si va a toccare la scuola, può ben capire quanto l’impresa fosse ardua, ma andava accettata e gestita con intelligenza, perché il futuro del nostro Paese e della nostra Provincia – dicevo – si giocava in classe.

E infatti il percorso non fu affatto semplice, anche se non impossibile. Trovammo comprensione e disponibilità ma anche resistenze e impuntature. Per i sindaci vedere spostata una presidenza (magari nel comune vicino e rivale) o accorpati alcuni istituti sembrava la fine del mondo. Un po’ comprendevo e un po’ no. Un po’ resistevo e un po’ lasciavo correre. Tra le varie frizioni ricordo ancora bene quella avvenuta con il sindaco di Sorano, il compianto Ermanno Benocci, che non sentì ragione e si batté a modo suo (chi lo ricorda, sa con quanta veemenza) per una scelta, a mia modo di vedere (e di molti altri), sbagliata: aggregare il Liceo Scientifico di Sorano con il Liceo Scientifico a indirizzo linguistico di Castedelpiano invece che insieme al più logico accorpamento con Pitigliano e Manciano.

D’altronde bisognava chiudere con una proposta unitaria e non potevamo (né volevamo) farlo con la contrarietà gridata di un comune. E quindi ingoiammo quel rospetto e qualche altro.

La decisione finale la prendemmo il 22 dicembre 1998: definimmo 40 istituzioni autonome, quasi tutte in grado di guardare al futuro con fiducia e lo facemmo con un grande coinvolgimento democratico. Dico quasi tutte, perché mentre l’assetto di fondo avrebbe sicuramente retto anche negli anni a venire, erano palesi alcune criticità numeriche che si sarebbero evidenziate in seguito, sicuramente dopo cinque anni da quel momento. Le proiezioni statistiche sull’evoluzione della popolazione scolastica parlavano chiaro.

 

ALCUNE COSE CHE ANDAVO DICENDO NEGLI INCONTRI. Possiedo ancora il testo di quanto dicevo negli incontri di zona, dove erano presenti le maggiori preoccupazioni. Ne cito una parte.

“Siamo tutti chiamati ad accettare la sfida riformista, con quella saggezza che ci porta a conservare quanto di buono è stato sinora fatto ed a modificare radicalmente quello che non è più rispondente alle necessità degli studenti.

Nell’articolo in cui descrive la natura e gli scopi dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, il Testo licenziato dal Consiglio dei Ministri dice che: ‘L’autonomia scolastica si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo’ (art.1, c.2).

Ho voluto citare questo passaggio perché non abbiamo mai a dimenticare che l’obiettivo verso cui tendere è quello di ridisegnare un sistema scolastico che ruoti attorno allo studente, come persona in formazione, come soggetto di un percorso individuale.

Anche attraverso l’organizzazione delle autonomie funzionali alla definizione e alla realizzazione dell’offerta formativa (art. 1, c.1).

Per organizzare le quali, le istituzioni scolastiche autonome interagiscono tra loro e con le comunità locali (con la comunità territoriale, con il mondo del lavoro e con la famiglia).

Ecco che, allora, attraverso una rinnovata fase partecipativa siamo chiamati a costruire un nuovo modello di scuola non burocratico, né aziendale, ma comunitario dove il miglioramento venga costruito giorno dopo giorno attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori.

Puntando a quella qualità che non si gioca solo nel fare cose nuove (che pur vanno pensate e realizzate), ma anzitutto nel fare nuove le cose che già si fanno, ponendo, lo ripeto, certosina attenzione alle concrete esigenze degli studenti, perché affrontino con fiducia e competenza i problemi della scuola e della vita.

Ho sempre sostenuto che il cambiamento passa attraverso la sommatoria delle azioni virtuose che ciascuno è chiamato a compiere. Ogni attore è chiamato a svolgere una parte, ed è su quella che deve concentrare il proprio sforzo”.

Confesso, con un briciolo di vanagloria, che alcuni sindaci e operatori scolastici si congratularono con me e Canuti per come avevamo condotto in porto quella delicata operazione. 













POST 54 – IL NUOVO MODELLO DI SVILUPPO LOCALE

Nel giro di un paio d’anni lo definimmo. Era fatto di sogno e concretezza, linee di sviluppo e assi strategici, azioni programmatorie e soldi

Ancora oggi, quando penso al lavoro che mettemmo in piedi, mi viene da dire che tramammo un ordito. Non ordimmo una trama, come normalmente si dice, ma tramammo un ordito, nel senso che tentammo di intrecciare i fili della trama con quelli dell’ordito, tesi da un lato all’altro del telaio. In modo da formare un tessuto di differenti colori e materiali, come il broccato e il piqué, ma anche striscioline di stoffa, fibre di rafia, stoppini di feltro. Fuor di metafora, l’obiettivo che volevamo raggiungere era quello di organizzare l’intera provincia come una vera e propria Città-distretto. La definizione la includemmo per la prima volta, con la Grosseto-Sviluppo, nel documento di presentazione del Patto Territoriale. Ma io e pochi altri l’avevamo abbozzata sin dal 1996. In quell’anno, con la Conferenza provinciale Agricola ’96 da noi chiamata: La terra promessa, la declinammo anche in altro modo: Distretto Rurale, per poi giungere alla proposta della Maremma, Distretto rurale d’Europa.

① Sognando un po’, pensavo il territorio provinciale simile a quello che oggi viene detto Smart Land, cioè, un ambito territoriale intelligente e brillante nel quale, attraverso politiche diffuse e condivise, si aumentava la competitività e l’attrattività del territorio, con una attenzione particolare alla diffusione della conoscenza, alla crescita creativa, all’accessibilità e alla libertà di movimento, alla fruibilità dell’ambiente (naturale, storico-architettonico, urbano e diffuso) e alla qualità del paesaggio e della vita dei cittadini. Dal punto di vista più strettamente economico, ad una piattaforma produttiva di area vasta da sostenere anche attraverso la realizzazione di politiche attive del lavoro, di sostegno allo sviluppo, di marketing territoriale e turistico, in rapporto con l’Europa e con le altre istituzioni.

L’idea del Distretto rurale piacque molto anche a Giuseppe De Rita, intervenuto a Grosseto nella Sala congressi del Centro Militare Veterinario il 14 maggio 1999, invitato da noi e da Ecovast alla Conferenza europea sullo sviluppo rurale. “Io parteggio per il Distretto rurale d’Europa in Maremma” esordì il presidente del Cnel, precisando che il distretto rurale poteva essere vincente come erano stati vincenti tanti distretti industriali. Tenendo presenti le differenze. Mentre il distretto industriale aveva sempre avuto un significato più forte nelle aree a monocoltura territoriale, l’approccio con il distretto rurale non poteva essere mono-settoriale. Continuava l’illustre ospite: “Occorre saper stare su una pluralità di filiere produttive”. Infatti si costruisce su “un’area connotata ruralmente che è capace di tenere dentro il turismo, l’industria e i campi da golf previsti nel Patto territoriale”. Creare un distretto “significa favorire l’intrecciarsi di piccole e medie imprese che, insieme, costituiscono una sorta di multinazionale territoriale. Ma mentre in un distretto industriale il sistema delle relazioni è agevolato dalla vicinanza dei soggetti, in un distretto rurale occorre adoperarsi per favorire la concertazione”. Un distretto “non nasce perché il soggetto pubblico lo vuole, ma scaturisce dal protagonismo collettivo; è l’insieme delle volontà di centinaia di persone, il loro intreccio. Insomma, è frutto della banale, quotidiana, coesione sociale.  Il soggetto pubblico può certo favorire la concertazione, la concentrazione degli interessi” (Il Tirreno, 15.05.1999). Insomma, era una rivoluzione che non richiedeva solo soldi, ma visioni comuni. Ed era una nuova cultura di governo che prendeva atto della realtà e voleva unire le potenzialità, le risorse, gli strumenti, le idee, le volontà delle diverse comunità senza semplicemente limitarsi a sommarle, ma creando reti e sistemi in grado di sviluppare con progressione geometrica la loro forza ed efficacia.

Per una certosina precisione voglio ricordare che i due termini partivano dalla stessa idea di organizzazione sistemica dell’intero territorio provinciale, valorizzandone tutte le potenzialità. Mentre, però, il Distretto rurale vedeva il legame primo nella ruralità, la Città-distretto la vedeva nel binomio ambiente-turismi. Al nostro interno e nella Grosseto sviluppo vi era chi parteggiava per l’una o l’altra ipotesi.

Io ero più sulla linea del distretto rurale, sia per la prosa, perché – dietro la sapiente regia del professor Pacciani – esso andava assumendo una fisionomia sempre più precisa e lasciava intravedere le migliori opportunità, unendo identità e politiche comunitarie presenti e future, stili di vita sempre più richiesti e carattere complessivo del nostro territorio, potendo raggiungere il risultato massimo a cui tendevamo: migliorare la qualità dell’ambiente e della vita, produrre reddito, sostenere e incrementare l’occupazione.

Come per la poesia, perché – per dirla con Ildebrando Imberciadori nello scritto agli “amici della mia provincia” del 10 agosto 1962 – : “(…) E su nelle colline poggiose di Scansano e di Pitigliano e di Sorano o nelle valli della montagna, boschi secolari di querci e di cerri, dicioccati e scassati dalla fatica eroica dei campagnoli, si trasfigurarono lentamente in fiorenti vigneti e oliveti. Poi, è giunta l’età nostra, con i suoi capitali e le sue braccia, con le sue macchine e col suo respiro grandioso, e noi cominciamo ad accorgerci di quanto sia anche bella la nostra provincia: bello il paesaggio agrario, creato dall’opera dell’uomo come bello il paesaggio creato dalla natura. Guardare la nostra terra dall’apparita di Montemassi o di Fercole è una rivelazione. Osservare dal crinale del Monte Labbro tutta la nostra provincia: voltarsi a riposare l’occhio sul gran verde del Monte Amiata; e poi scendere attraverso i poggi e le colline dalle stoppi d’oro sino alla riva del nostro mare per accorgerci che dal suo azzurro vivo sale la luce che brilla sul faggio e sul castagno, sulla vite e sull’olivo e sul campo seminato, è cosa che incanta ed esalta insieme (…)”.

② Comunque sia, personalmente PENSAVO AD UNA COSA DEL

GENERE: – alla cartina geografica del territorio provinciale con tutte le sue emergenze territoriali naturali, – sopra cui sovrapporre un’altra cartina trasparente delle tipicità storiche e culturali,– sopra la quale appoggiare un’altra cartina trasparente delle infrastrutture presenti e di quelle da aggiungere (nella logica del tutte quelle necessarie, solo quelle necessarie), – sopra la quale mettere la cartina trasparente delle attività economiche presenti e prevedibili sulla linea delle filiere vocazionali tipiche (agroalimentare di qualità, industrie ambientali, turismi selettivi, sistema cavallo, prodotti manifatturieri, artigianato evoluto), – sopra la quale collocare la cartina trasparente dei luoghi e delle azioni di coesione sociale (salute, scuola, comunicazione e informazione, ecc.).

Proviamo ora ad inserire nella cartina multistrato indicata in precedenza alcune delle azioni poste in essere dalla nostra Provincia.

• Gli oltre 150 INTERVENTI STRATEGICI PREVISTI E CONTENUTI NEL PIANO TERRITORIALE DI COORDINAMENTO, dalle infrastrutture stradali all’università, elencati dettagliatamente nel post 86 (Il PTC: governare il territorio perché la vita viva e l’uomo viva).

• I 79 PROGETTI CONTENUTI NEL PATTO TERRITORIALE (58 privati e 21 di enti pubblici) dotati di risorse definite (100 miliardi di lire dal Patto, 431 tra privati ed enti) e con previsioni occupazionali delineate progetto per progetto (per un totale di 824 tra i privati, 203 tra i pubblici, 360 stagionali privati, 1000 prevedibili in fase di cantiere e circa 500 nell’indotto) con la fattibilità urbanistica garantita dalle norme speciali previste dal Patto.

 

• Le INFRASTRUTTURE tipiche legate al Parco degli Etruschi e al Parco Minerario a servizio della filiera Turismi-Beni Culturali; alla Rete delle Aree protette e della Sentieristica a servizio della filiera Turismo-Ambiente; al Sistema delle Ippovie a servizio della filiera cavallo; alle Strade del vino, dell’olio, della carne, le vie della castagna a servizio dello sviluppo rurale. Come pure delle infrastrutture innovative legate alle autostrade telematiche, in sintonia con la Regione Toscana e l’Università di Siena.

• Le ATTIVITÀ E LE AZIONI CONTENUTE NEI TRE ASSI RURALI STRATEGICI di intervento per dare vita ad un sistema territoriale di qualità: consolidamento delle filiere e delle infrastrutture pubbliche, rafforzamento della Qualità, fare della Maremma un Sistema. Accennando solo al primo asse (per non farla troppo lunga) ricordo la spinta a consolidare le strutture delle imprese nelle filiere, puntando su investimenti innovativi in grado di rafforzare le capacità competitive delle imprese rispetto alla qualità dei processi, dei prodotti e dell’ambiente. Aggiungo le azioni volte ad accrescere le capacità concorrenziali del sistema, puntando innanzitutto al superamento del deficit delle infrastrutture rurali con particolare riferimento alla viabilità, al sistema degli acquedotti, ai sistemi di captazione delle acque, di irrigazione e di bonifica, favorendo un’armonizzazione delle stesse con l’ambiente; erano interventi di base ma volti a far raggiungere al sistema locale rurale la capacità di competere ad armi pari sul mercato, rimovendo i vincoli allo sviluppo.

 

•Le AZIONI SULLE FILIERE RURALI DI PARTICOLARE RILEVANZA per il territorio provinciale o comunque caratterizzate da problematiche particolari: la filiera vitivinicola, olivicola, zootecnica, della pesca e cerealicola, nonché il comparto del biologico. Anche in questo caso, accennando solo ad una filiera, quella vitivinicola, rammento come sostenemmo la sua forte dinamicità di metà anni ’90 (dopo la dura crisi del periodo precedente) con il Piano vitivinicolo provinciale. Vi fu un rilevante sforzo di qualificazione delle produzioni che trovò un importante supporto nell’approvazione di nuove denominazioni di origine (Sovana, Capalbio e Montecucco, che si aggiungevano alle cinque DOC storiche della provincia di Grosseto: Bianco di Pitigliano, Morellino di Scansano, Monteregio di Massa Marittima, Parrina, Ansonica Costa dell’Argentario). Come pure di grande importanza fu la parallela crescita degli investimenti di nuove superfici vitate, specialmente nelle aree collinari ed interne, in parte destinate a riassorbire la perdita fisiologica degli impianti esistenti registratasi negli anni della crisi e in parte a consolidare le nuove denominazioni di origine. La costituzione di due nuovi Consorzi di tutela che si affiancarono ai due Consorzi già esistenti rappresentò un altro importante passaggio per una migliore valorizzazione delle produzioni. In particolare la costituzione di un consorzio unico tra le cinque DOC pose i presupposti per una gestione economicamente valida, e favorì la elaborazione di programmi di più ampio respiro, pur nel rispetto delle singole specificità.

 

• Gli oltre 150 PRODOTTI INCLUSI NELL’ELENCO DEI PRODOTTI TRADIZIONALI DELLA MAREMMA (poi inseriti nell’apposito Elenco regionale) predisposto dalla nostra Provincia, in collaborazione con l’Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione in Agricoltura e con le Organizzazioni professionali agricole, mediante una accurata e capillare ricerca sul territorio. In particolare furono svolte azioni di tutela e valorizzazione su specie quali il Miccio Amiatino, la Vacca, il Cavallo, il Cinghiale, il Pastore e il Segugio della Maremma, sulle cultivar (tipi genetici strettamente associati ad un’area geografica) di olivo Olivastra Seggianese e Scarlinese, sui vitigni Ansonica e Vermentino, sul Riso della Maremma, sul Carciofo di Pian di Rocca e sul Fagiolo di Sorano. Tali elementi rappresentavano un potenziale per la valorizzazione futura del territorio stesso integrandosi perfettamente con le risorse ambientali della Maremma (parchi, oasi naturali, ecc.). In questa direzione la collaborazione tra Provincia e Slow Food portò alla realizzazione dei Presidi della Vacca maremmana, della Bottarga di Orbetello, dei prodotti goym (tra cui lo sfratto di Pitigliano) e della Palamita delle coste del Giglio e dell’Argentario.

Il Censimento dei prodotti tradizionali pose le basi per selezionare un paniere dei prodotti della Maremma di particolare specificità e legame con il territorio e con il sistema economico locale, suscettibili a diventare oggetto di valorizzazione commerciale per le caratteristiche proprie e del sistema di imprese che li realizzava.

③ Mi fermo, perché il brodo si è allungato e tralascio altre azioni che dovrei includere. L’importante è avere in mente oggi quello che noi avevamo in mente allora: la matrice. Fatta di sogno e concretezza, linee di sviluppo e assi strategici, azioni programmatorie e soldi. Certo, alcune di quelle azioni noi le programmavamo e altri avrebbero dovute realizzarle (comuni, imprenditori), altre le realizzavamo in proprio, altre sarebbero state consequenziali, per altre ancora avevamo bisogno di convincere interlocutori regionali e nazionali. C’era quindi bisogno di lavorare insieme, continuare a farlo affinando gli strumenti e la volontà reciproca, rifuggire da ogni risacca individualistica. E poi, ammesso che la strada fosse giusta, per avere risultati in termini di PIL, occupazione e qualità della vita ci volevano anni (10, forse 15) e tanta coerenza.

Io, insomma, ho la convinzione che durante la nostra legislatura riuscimmo a elaborare organicamente e a dare le gambe al tanto declamato DIVERSO MODELLO DI SVILUPPO DELLA MAREMMA. Era composto di soldi, azioni, strategie, matrice di fondo. E di sogno. Sì, di sogno, perché io la penso come Ivano Fossati (C’è tempo): “Dicono che c’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare. Io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare”.



Agricola '96 - L'assessore provinciale Pacciani con Periccioli e Ginanneschi 




mercoledì 29 dicembre 2021

POST 53 – LA VERA SFIDA: PASSARE DAL DECLINO ALLO SVILUPPO

C’erano ostacoli da superare e bisognava decidere insieme quello che volevamo. Il tour della giunta provinciale in 27 dei 28 comuni della provincia

Lo stato di salute della nostra economia provinciale e della Provincia per un po’ mi fecero pensare al detto di Cicerone, mala tempora currunt. E mi venne un doloroso cerchio alla testa.

Ma non potevo entrare in depressione proprio all’inizio. L’adrenalina salì a mille e fortissimo dentro di me e i miei collaboratori nacque il desiderio di contribuire all’inversione di tendenza: dal declino ad un nuovo sviluppo.

Ma c’erano alcuni “ma”.

• Il primo “ma” era che questa ESIGENZA DI OPPORSI AI PROCESSI DI CRISI ECONOMICA E DI EMARGINAZIONE SOCIALE EMERGESSE IN TUTTI I GRUPPI DIRIGENTI LOCALI, noi compresi: istituzioni, associazioni di categoria, imprenditori, operatori economici, aggregazioni consortili di scopo, sindacati. Mancava, infatti, una cultura di governo collettiva e convergente. L’occasione offerta dalla crisi della nostra economia e gli strumenti di sostegno ad essa correlati potevano essere giocati in modo vincente a condizione che si fosse fuoriusciti da una logica di attribuzione di compiti amplissimi all’intervento pubblico, fino a sostituire il ruolo della società civile nella determinazione della direzione dello sviluppo. Operare per il rilancio dello sviluppo voleva dire, essenzialmente, modificare l’ambiente economico-sociale del grossetano. E poiché non esisteva una sola via di sviluppo era necessario che si attivassero, nell’opera di cambiamento, una pluralità di attori e che la società locale fosse protagonista essa stessa della sua trasformazione.

• Il secondo “ma” era che SI TENDESSERO A SUPERARE LE CONNOTAZIONI COMPORTAMENTALI DEL LAMENTO E DELL’ATTESA DI SALVEZZA DALL’ESTERNO E, SOPRATTUTTO, SI SUPERASSE LA RASSEGNAZIONE. Quest’ultima faceva dire alla gente che quanto accadeva era proprio brutto, ma cosa ci si poteva fare? Se tutto continuava come prima e peggio di prima, tanto valeva far finta di niente. Non era solo accettazione passiva dell’esistente, ma anche la verbosa protesta a cui non seguivano i fatti. Era possibile ribaltare la rassegnazione? Ritenevo proprio di sì. Però non servivano programmi onnicomprensivi, magari ben confezionati. Se alla base della rassegnazione c’era la crisi di credibilità che toccava tutti, allora era necessario fare passi significativi, anche pochi, però di livello e concreti. Capaci cioè di rendere visibile (testimoniare) la volontà di affrontare un itinerario di reale cambiamento.

• Il terzo “ma” era che UN RUOLO CENTRALE NEL PROCESSO DI CAMBIAMENTO FOSSE PRESO IN MANO DALL’IMPRENDITORIA LOCALE. Ciò non significava scaricare sugli imprenditori grossetani tutto il compito della ripresa. Al contrario, essi andavano aiutati e incentivati a qualificarsi e modernizzarsi, a espandersi e soprattutto ad indirizzarsi verso l’uso creativo delle risorse costituite da Grosseto e dal suo ambiente socio-economico. Ma dovevano anche mostrare di avere gli attributi o, perlomeno, la disponibilità a mettersi in gioco.

Senza la determinazione a favorire solidi legami tra apparato produttivo e struttura finanziaria, amministrazione locale, sistema di comunicazione, istituzione educativa e di ricerca, le economie offerte dal territorio grossetano sarebbero rimaste troppo deboli per attrarre gli auspicabili investimenti esterni.

Era in quell’ambito di ragionamento che si poteva costruire una cultura di governo che non doveva essere di un solo attore, ma vedere presenti tutti i protagonisti. Il nostro impegno era quello di contribuire a rendere operativa una volontà, a trasformare le dichiarazioni in fatti, a denunciare chi si limitava agli enunciati e poi non garantiva un impegno reale (fosse lo stato, la regione, i comuni, gli imprenditori, le associazioni o fossimo noi stessi).

• Il quarto “ma” era rappresentato DAL DECISO SUPERAMENTO DELLA MANCANZA DI FIDUCIA TRA LE ISTITUZIONI che spesso – per eccesso di defatiganti mediazioni – conduceva alla paralisi, all’immobilismo. All’inconcludenza. La nostra Provincia amica aveva stabilito un patto di fiducia con i cittadini (mettere in piedi azioni concrete per dare nuovo slancio al sistema) e lo voleva difendere anche con altri livelli istituzionali (comuni, regione, stato), aiutando, informando e facendosi promotrice di soluzioni veloci e innovative. Patto di fiducia che, in primis, era da stabilire tra gli enti del nostro territorio. Un accordo di lavoro comune basato sulle sinergie possibili, sul rispetto dei diversi ruoli di rappresentanza, sullo scambio e l’integrazione nei servizi alla collettività.

• Il quinto “ma” riguardava IL TRATTEGGIARSI DI UN DISCUSSO E CONDIVISO MODELLO DI SVILUPPO NON PIÙ DISEGNATO SU MODELLI IMITATIVI delle aree industriali, ma indirizzato in modo originale nell’ambito di filiere vocazionali tipiche del nostro territorio.

② Per tutti questi motivi (ed altri ancora, attinenti le competenze della Provincia) decisi IL TOUR DELLA GIUNTA e di alcuni funzionari in tutti e 28 i comuni della provincia. Non era mai stato organizzato in precedenza e lo volli anche per dimostrare plasticamente che la Provincia Amica aveva a cuore le aree forti come quelle deboli. Anzi, nella logica della sussidiarietà si sarebbe messa a disposizione, per quanto possibile, più di quelle deboli e periferiche. Come non leggere in questo senso, ad esempio, i molti interventi che facemmo sulle strade bianche del comune di Sorano.

In due mesi (5 settembre – 31 ottobre 1995) incontrammo tutti i comuni ad eccezione di quello di Campagnatico perché il sindaco, Fabio Capitani, accampò scuse su scuse per non vederci (e poi perse il comune alle successive elezioni). Quel Capitani che incrocerò, senza incontrarlo di nuovo, segretario provinciale dei DS nel 1999 al tempo della mia defenestrazione. Formidabile.

Partimmo con l’Isola del Giglio, anche perché avevamo in mano la patata bollente del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, che il Sindaco Landini roteava come il martello di Thor e chiudemmo con il comune capoluogo, incontrando una giunta piuttosto distratta (così distratta che due anni dopo perse le elezioni). Ma ti pare: il sindaco e la giunta del capoluogo incontrati nello stesso modo degli altri sindaci e giunte dei comuni della provincia. Grosseto come Montieri, non sia mai. A proposito, anche quel sindaco lo incrocerò, senza incontrarlo, nel maggio 1999. Straordinario.

Commenti a parte, noi avevamo esigenze conoscitive, perché sia io che Sammuri, Gennai, De Carlo, venivamo da alcune aree del territorio. Paradossalmente, aveva più una visione d’insieme l’extracomunitario Pacciani sul fronte dell’agricoltura. Ma soprattutto desideravo capire se era possibile trovare un condiviso modello di sviluppo provinciale, diverso da altri modelli toscani e non toscani.

L’itinerario attraverso i comuni ebbe due caratteristiche fondamentali, una più evidente, l’altra meno ovvia: concentrare in uno scambio unico tutte le informazioni sui problemi che coinvolgevano le amministrazioni; conoscere direttamente il tessuto amministrativo e sociale del territorio in un rapporto personale, in taluni casi prepolitico. Questi momenti segnarono le visite. Molto utile fu il confronto, ma l’integrazione umana, l’opportunità di offrire ai comuni di giocare in casa, permise di mettere in bilancio quel qualcosa in più che non era stato possibile realizzare in situazioni di incontro istituzionale che c’erano già state. La novità fu apprezzata. E noi avemmo il piacere di visitare il territorio, conoscere associazioni e imprese, approfondire e individuare ulteriori argomenti di lavoro.

③ Il filo di ragionamento che unì tutto il percorso fu la scelta consolidata e diffusa di un modello di sviluppo sostenibile che aveva come risorse di base i beni culturali e ambientali e che sceglieva il turismo e l’agricoltura di qualità, la piccola e media impresa artigiana e di servizio come sbocchi economici. Il panorama di potenzialità specifiche emerso fu consistente, per originalità e qualità dell’offerta e in tutti i comuni trovai consenso a muoverci in quella direzione.

Proprio a servizio di quell’idea e di quelle potenzialità, ravvisammo il vero ruolo della provincia da noi suggerito e accolto da molti (non tutti) come determinante: essere un raccordo, organizzare, offrire strumenti rapidi ed efficaci di intervento, lavorare per il potenziamento delle infrastrutture, aiutare i comuni (soprattutto quelli piccoli) con supporti di progettazione, rendere patrimonio comune la ricerca e le informazioni. Il superamento del particolare per ricondurlo ad un bisogno generale era il vero salto qualitativo che eravamo chiamati a fare, e la disponibilità a trovare un luogo comune di scambio - riconoscendo all’Ente che rappresentavo quella funzione - fu una novità nella storia delle municipalità.

Era un’opportunità da non sprecare. Perché una mancanza di risposta avrebbe rischiato di ricacciare tutti nei propri confini e di non dare gambe ad un modello qualitativo che avevamo a cuore: la rapida e concreta attivazione del cosiddetto “Sistema Qualità Maremma”.

Ed era la concretizzazione di quanto avevo detto in campagna elettorale. O meglio, scritto sul dépliant elettorale. “La Provincia deve essere anche ente pensante, cioè intelligenza capace di regolare lo sviluppo del territorio coinvolgendo i cittadini e i gruppi sociali interessati al benessere”. “Dobbiamo interrogarci sul nostro futuro”. “La questione dello sviluppo deve essere posta al centro del dibattito sul territorio, individuando le azioni utili a rafforzare il sistema economico della Maremma e ad indirizzarne la crescita equilibrata. L’attivazione della società e dei suoi soggetti economici è un obiettivo da perseguire per innestare un processo di rinnovamento e di sviluppo dell’area”. “L’intervento pubblico va inteso come strumentale rispetto ai fini di sviluppo che si vogliono raggiungere”. “Le risorse della nostra terra sono il punto di partenza naturale per crescere in maniera equilibrata”. “Vogliamo lavorare attorno a un’idea di crescita che sappia attivare lo snodo economico per noi fondamentale di agricoltura e ambiente e di agricoltura e aree urbanizzate (industrie di trasformazione, commercio, artigianato, servizi, turismo)”. “La provincia di Grosseto è un territorio che vive sull’impresa, specie piccola e media di tipo agricolo, artigiano e sull’imprenditorialità individuale. Da qui vogliamo ripartire per dare forza all’economia locale”. “Ma lo vogliamo fare nell’ottica dello sviluppo sostenibile, che significa utilizzare in modo razionale il capitale in nostro possesso, consegnandolo valorizzato alle generazioni future. Uno sviluppo di tal genere non può essere pensato che in modo integrato”.

Fortunatamente, scripta manent.




Da sinistra: Walter Rossi e Giacomo Landini assessore e sindaco dell'Isola del Giglio