La scelta dei collaboratori, l’autosospensione dal PPI, l’auto blu e il “sì alla teoria Gentili” del primo consiglio provinciale.
Contestualmente alla nomina
degli assessori, scelsi anche i miei più
stretti collaboratori.
Come segretario particolare
optai per Fausto Vannozzi, una
persona che mi sembrò subito squisita. Aveva fatto il segretario del precedente
vice-presidente Bartalucci, quindi era un buon tramite di relazioni
istituzionali e politiche. Nei quattro anni di vita condotta praticamente
insieme, ho potuto apprezzare la sua moralità e fedeltà, la sua intelligenza e
capacità di gestire situazioni anche complicate. Siamo rimasti legati da un
affetto che durerà per sempre. L'ultimo anno e mezzo si aggiunse Cristina Raffo, dipendente preparata e
sensibile. Anche a lei penso di tanto in tanto con riconoscenza.
L’altro stretto
collaboratore fu Massimo Cipriani,
che avevo conosciuto nella fase pre-elettorale e mi aveva un po’ instradato
nella conoscenza dell’ente. Lo volli totalmente dedicato alla comunicazione e
alla trasparenza, due fronti per me strategici. Se la Provincia doveva
diventare amica, la prima cosa da fare era far conoscere, al numero più ampio
possibile di cittadini, tutte le cose che essa faceva. Massimo lo fece con
dedizione e inventiva e di fatto mise in piedi il meccanismo comunicativo
ancora oggi in vigore. Anche a lui sono rimasto affettivamente molto legato.
Quelle scelte, sulle quali
nessuno pubblicamente poteva eccepire, perché erano unicamente mie, avevano
però un problema: politicamente erano due ex-comunisti, allora Pds. Ma come? I
politici una volta eletti scelgono sempre collaboratori della loro stessa area
politica e il popolare Gentili sceglie due persone di altra provenienza. Non è
possibile. Glieli avranno imposti in via Ximenes. Naturalmente nessuno mi impose nulla
(avrebbero dovuto provarci!) solo che io, tra i dipendenti, non guardavo le
appartenenze politiche. Guardavo gli occhi. Avrei potuto scegliere anche altri
dipendenti, ma i pochi che conoscevo erano troppo legati alla mia persona e
all’area politica dalla quale provenivo. Ed io non volevo dare segnali del
tipo: ognuno si porta i suoi. Chapeau si sarebbe potuto dire, ma alcuni amici
so che ci rimasero male. E me ne dispiacque. Ma se volevo contribuire a
riavvicinare i cittadini alle istituzioni dovevo, nel mio piccolo, dare segnali
di discontinuità.
Come quello che detti all’Assemblea dei Popolari di Bianco,
presente Giovanni Bianchi (presidente del partito), il 27 maggio, dove dissi che
– continuando a riconoscermi in quell’esperienza politica, pur non essendovi
iscritto – da quel momento prendevo le distanze istituzionali dal Ppi per
essere veramente e totalmente il presidente di tutti i cittadini della
provincia. Affermazione che fece storcere alcune bocche e che in seguito mi
sarà rinfacciata. Ma come – forse qualcuno pensò – proprio ora che possiamo
avere le mani in pasta questo bischero di Presidente ci abbandona? In effetti, li abbandonai; ma non per
supponenza o mancanza di fiducia (figuriamoci), solo per evidenziare che la
Provincia non era condizionabile da nessuna aggregazione ad essa esterna, fosse
anche quella di appartenenza del Presidente, o la maggioranza che lo aveva
eletto. Questo non voleva dire mancanza di dialogo e di confronto su tutto ciò
che era buono e utile.
Ero convinto che quelle
piccole scelte facessero parte della più ampia questione morale ed ero,
altresì, consapevole che a tempo debito le avrei pagate tutte e con interessi
usurai.
No, non ero un bravo politico,
nel senso che normalmente si intende, perché con quelle prime scelte (nomina
degli assessori e dei collaboratori, rapporti con le forze politiche) mi feci
diversi nemici. E, ciò che più contava, mi feci nemici alcuni di quelli che
alla fine della legislatura sarebbero stati al tavolo della coalizione chiamata
a promuovermi o a bocciarmi. Sapevo tutto, ma io dovevo pensare alla Provincia
e solo a quella.
Un’altra via che provai a
percorrere per dare un segnale discontinuo rispetto al passato fu la volontà di rinunciare all’auto di
servizio per il Presidente nel tratto da Pitigliano a Grosseto. L’amata e
odiata auto blu, status symbol e fonte di invidia. Per un mese e mezzo
resistetti, poi rischiata la vita un paio di notti dopo giornate di lavoro lunghe
e impegnative (entrambe le volte sulla non difficile provinciale di San
Donato), dovetti gettare la spugna. Anche perché in provincia continuamente mi
ricordavano che ormai il parco macchine lo avevamo (anche se alcune erano da
buttare) e gli autisti pure. Quindi, visto che utilizzando la mia auto potevo
comunque chiedere il rimborso, la spesa per l’ente se non era superiore poco ci
mancava. Dovetti riconoscere che avevano ragione e in macchina, non guidando,
potevo studiare dossier e contattare interlocutori istituzionali. Qualche volta
leggevo anche cose personali, ma non ho mai utilizzato l’auto della provincia
per scopi impropri: gli autisti possono tranquillamente testimoniarlo. Anzi,
specie a Grosseto, ma anche in altri comuni della provincia, quando potevo, mi
facevo lasciare in luoghi più defilati: non per nascondermi, ma per non dare
l’idea che stavo ostentando una qualche forma di potere.
Il 25 maggio 1995 si tenne
il PRIMO CONSIGLIO PROVINCIALE, quello dell’investitura. Luciano Salvatore,
sempre piuttosto ironico con me, il 26, su La Nazione (“Sì alla teoria Gentili”) esordiva dicendo: “Il primo esame era quello di teoria e Stefano Gentili lo ha superato
brillantemente. Il neo-presidente della Provincia, sostenuto dallo schieramento
di centrosinistra Democratici Insieme ha raccolto tutti i 14 voti della
maggioranza e le 10 benevole astensioni dei tre gruppi di opposizione”. Non
sorpresero del tutto le astensioni di Rifondazione e di Ciani, furono invece
sorprendenti quelle del gruppo Vivi. Specie dopo la stroncatura alla mia
introduzione fatta dal consigliere Tamburro, che contestava la mancanza di
coerenza e trasparenza da parte mia, sostenendo, altresì, che la relazione da
me presentata fosse stata generica, senza impegni, né input politico e preparata
dagli uffici. Ammonì pure “sull’inopportunità
della nomina di Pacciani, già presidente della centrale del latte di Firenze”.
Anche se buttai la palla in
calcio d’angolo con un’affermazione, peraltro da me realmente condivisa: “Mancano i progetti? La storia si fa con le
idee!”, sulla mia introduzione, Tamburro, non aveva tutti i torti; ma era
stato veramente poco il tempo che avevo avuto per l’anamnesi, la diagnosi e le
terapie della malata Provincia. Se, 18 giorni dopo le elezioni, fossi stato in grado
di presentare un disegno politico-programmatico definito, corredato di progetti
con tempi certi e voci di spesa delineate…allora sarei stato Maradona, o
meglio, allora qualcun altro me lo avrebbe pensato, scritto e poi consegnato. Nulla di tutto ciò: tutto molto più semplice,
artigianale, faticoso e, naturalmente, alcuni uffici mi avevano fornito dati e
appunti.
Le introduzioni
programmatiche autenticamente mie saranno quelle degli anni successivi, ad
iniziare dalla introduzione al Bilancio del 21 febbraio 1996, corredata di ben
altro spessore culturale e di scienza politica.
Quel primo consiglio si concluse comunque bene, anche con
la nomina dei capigruppo Enzo Rossi, Giovanni Tamburro, Roberto Barocci,
Lamberto Ciani, e – sempre a dire del buon Salvatore – con due mie gaffe:
chiesi a Rossi di quale gruppo era il capo e al termine ringraziai le
opposizioni per il contributo al dibattito, dimenticando proprio Rossi e i 14
Democratici Insieme. L’emozione giocò sicuramente la sua parte, ma la domanda “per quale gruppo?” la dovevo rivolgere
pubblicamente a tutti. Per quanto attiene i ringraziamenti, è noto che con le
persone di famiglia si sta sempre poco attenti alle forme. E si sbaglia.
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