La destra poteva vincere le elezioni per la Provincia e si presentava unita dietro un candidato di grande spessore, Giovanni Tamburro. Ciani, fatto fuori, si candidava autonomamente. Rifondazione, sempre più in forma, presentava il grintoso Roberto Barocci. Il Pds e il tavolo provinciale, a sorpresa, proposero la mia candidatura. I miei primi passi e la prima battaglia interna ed esterna.
Le elezioni provinciali del 23
aprile 1995 si collocarono dunque nello scenario politico ricordato. La provincia di Grosseto non solo era
diventata la meno rossa della Toscana, ma anche l’elettorato era sempre più
orientato a valutare le candidature che si mettevano in campo. C’era
soprattutto una sfrenata voglia di cambiamento rispetto a ciò che era sempre
stato.
I rapporti politici del passato
erano poi saltati quasi tutti: socialisti e comunisti non si potevano più
sopportare, sia per questioni nazionali che per quelle locali (specie dopo le
elezioni comunali di Grosseto del 1993, ma anche in altri comuni della provincia).
Il PDS aveva rotto in modo irrevocabile con gli ex-compagni di Rifondazione
Comunista. Vecchi accordi si scomponevano e nuove alleanze andavano
costruendosi: la maggior parte degli elettori democristiani e socialisti erano
direttamente confluiti in Forza Italia e in Alleanza Nazionale; il PDS era
attraente (e attratto) per (e da) alcuni tradizionali amici (Pri e Verdi), le
nuove formazioni nate negli ultimi anni (Patto Segni, Alleanza Democratica) e
lo stesso PPI.
Tangentopoli aveva raggiunto il
suo apice e la questione morale era diventata l’elemento discriminante di parte
delle stesse alleanze. La critica alla partitocrazia era al culmine.
La legge Ciaffi del 1993, infine
– come recentemente ricordato dal prof. Roberto D’Alimonte – aveva introdotto
nei comuni e nelle province un modello di governo originale (già sperimento per
il comune di Grosseto). Il Presidente della Provincia (come il Sindaco) era
direttamente eletto dai cittadini in uno o due turni. Grazie a un sistema
elettorale con premio, aveva in consiglio una maggioranza garantita, ma poteva
essere sfiduciato con contestuale scioglimento del consiglio ed elezioni
anticipate.
Trovare qualcuno al di fuori dei giochi di
palazzo, non iscritto ad alcun partito, proveniente dalla cosiddetta società civile
e magari dal mondo cattolico (in alcune sue componenti piuttosto
effervescente), che in qualche modo fosse riconoscibile per la questione
morale, poteva essere la giusta opzione.
Non ero l’unico a corrispondere
a quella biografia, per cui non so dire perché la scelta cadde su di me. Forse
altri non se la sentirono di accettare. O forse perché avevo raggiunto una
certa notorietà politica per le battaglie congressuali (perse) nella Dc dalla
quale ero poi uscito senza iscrivermi al PPI, che pure avevo votato nel 1994.
Sulla questione morale ero almeno noto al mondo politico per avere, in un altro
ruolo, invitato a Pitigliano nel 1990 il sindaco anti-mafia Leoluca Orlando e
sul fronte delle alleanze per aver teorizzato, sempre dallo stesso anno,
l’opportunità di un nuovo rapporto tra la tradizione cattolico democratica e
quella comunista.
Ciò che
mi appare certo è che la mia candidatura nacque in sede PDS, dopo che – per
dirla con l’articolista de La Nazione del 22 marzo 1995 – quella di Ciani era
stata considerata “una candidatura non
unitaria così come non unitarie erano anche altre: Schiano, Matrisciano,
Bastianini, troppo popolari per guidare lo schieramento progressista, o quella
del segretario della Uil Walter Lunardi, mentre il Pds non avrebbe nemmeno pronunciato
il nome che molti si aspettavano, quello di Maurizio Chielli”. Ma non
saprei dire chi consigliò l’allora segretario provinciale Palmiero Ferretti.
Piuttosto incoscientemente accettai la
proposta e mi trovai subito nel campo di battaglia. Battaglia
interna ed esterna.
La prima, quella interna, per far comprendere che
bisognava offrire segni reali di discontinuità con il passato: non per
rinnegarlo del tutto, ma perché era crollato il mondo e prevalentemente erano
rimaste macerie. Non pochi dei miei interlocutori, con i gomiti appoggiati sul
lungo tavolo di via Ximenes a Grosseto, sbiancarono quando dissi che avrei
accettato di correre solo se avessi potuto scegliere in modo sufficientemente
libero i collaboratori di Giunta. Proposi le rose e la cosa dopo non pochi
mugugni passò: magari pensando che i petali messi in prima fila sarebbero
stati, solo per questo, da me scelti.
In verità, le indicazioni erano
ancora più stringenti e le ho ritrovate su un foglio del mio schedario. Le mie
proposte furono le seguenti: volevo poter scegliere assessori tendenzialmente non
segretari di partito o leader di movimenti politici, con un alto grado di
competenza e professionalità specifica, che non fossero iscritti alla
massoneria, che fossero esperti e nuovi nello stesso tempo; inoltre, che si
potesse garantire rappresentanza territoriale alla provincia, che vi fosse
almeno una donna, che si escludessero coloro che, messi in lista, non venivano
eletti e che avessero relazioni personali, di azienda o di altro con l’ente
provincia.
Il secondo campo di battaglia
era esterno.
Intanto, perché la nostra
vittoria non era per nulla scontata. Io ero un candidato debole e gli sfidanti
erano di tutto riguardo. Il centrodestra presentava un candidato che quanto a
conoscenza del tessuto provinciale e dei meandri della burocrazia era cento
passi più avanti di me: Giovanni Tamburro, direttore dell’Associazione
Industriali di Grosseto, che specie nel capoluogo, ma non solo, era
conosciutissimo (e la cosa, dico la verità, mi intimorì assai). Il nuovo
centro-sinistra stava solo allora sperimentando lo stare insieme e nonostante
la nostra lista ante-Ulivo dei Democratici Insieme (che includeva PDS, Patto
Segni, PRI, Popolari, Lega Nord, Testimonianza per la Città, Verdi, Socialisti Italiani,
Alleanza democratica), si presentava alquanto frastagliato. Rifondazione
Comunista aveva deciso o era stata costretta a decidere di andare per conto
proprio e presentava un candidato assi grintoso, Roberto Barocci. I Laburisti
di Ciani presentavano Lamberto Ciani, perché Ciani non era stato candidato per
il dopo-Ciani (era infatti il Presidente uscente): sgradito ospite in quel
caso, con tutte le relazioni che era riuscito a costruire durante il suo
mandato. C’era poi una lista Pannella capeggiata dall’estroso Antonio
Schiaretti, e un’altra guidata da Giancarlo Galli per il Mat (Movimento
Autonomista Toscano).
L’ostacolo più duro in realtà era
rappresentato da Giovanni Tamburro e lo schieramento di destra. Come
sosteneva Fernando Marioni su L’Alcione n. 7 del 31 marzo 1995, “la coalizione delle destre è compatta come
non si era mai visto, l’uomo è quello giusto, una persona di grande prestigio,
gli avversari sono divisi, l’ultima consultazione provinciale (europee del
1994) è stata favorevole alle destre. Ci sono tutti i presupposti perché si
verifichi, dopo 50 anni di storia democratica, il cambio della guardia alla
Provincia di Grosseto”. Per questo si affidava “alla maturità politica dei cittadini elettori. Ci sembra impossibile
infatti che i maremmani non si siano stancati delle solite facce e che non
abbiano il desiderio di qualcosa di nuovo”.
Chi
erano le forze che sostenevano Giovanni Tamburro? Lo ricordava sempre Marioni: “Tamburro è portato da Forza Italia,
Alleanza nazionale, Centro Cristiano Democratico (segretario Andrei), Popolari
di Buttiglione, So.L.E. (ex Psdi e liberali), Leghisti (di Negri, anche se è
difficile specificare), oltre al neonato ma vitale Nuovo Millennio, il circolo
politico-culturale fondato da Riccardo Paolini”. La lista aveva un nome, Vivi e un simbolo, il gabbiano sul
profilo della Provincia.
Continuava
il Marioni definendo Tamburro “la persona
giusta al posto giusto”. Infatti, “l’incarico
di direttore degli industriali maremmani, unitamente all’impegno e direi anche alla
passione con cui lo ha svolto e continua a svolgerlo, gli hanno consentito di
acquisire una esperienza e una conoscenza della situazione economica e
politica, oltre che dei problemi sociali della nostra Provincia che
difficilmente si potrebbe riscontrare in un’altra persona”.
Al di là di una discreta dose di
propaganda, specie nella terza parte dell’intervento, relativo ad alcune delle “sue idee sullo sviluppo della Maremma”,
infarcite di luoghi comuni e senza nulla di realmente decisivo per il decollo
della nostra terra, il Marioni diceva giustamente due cose: il vento elettorale
poteva condurre la destra alla vittoria e Giovanni Tamburro era un ottimo
candidato.
Dinanzi
a tanta potenza c’ero io che, sempre il 22 marzo 1995, questa volta su Il
Tirreno, ero così presentato: “Stefano
Gentili, 37 anni, pitiglianese, laureato in scienze politiche, è professore di
religione all’Itc di Pitigliano. Indipendente cattolico, il neo candidato è
stato in passato iscritto alla Democrazia cristiana. È consigliere comunale uscente di Pitigliano, per 9 anni ha ricoperto la
carica di presidente dell’Azione Cattolica di Pitigliano e Sovana”.
Lo scontro sembrava impari: il forte direttore degli
industriali di Grosseto contro il giovane insegnante di religione di Pitigliano.
La destra unita e in forte ascesa contro una sinistra frastagliata e in grave
difficoltà. Chi avrebbe vinto? Gli inglesi, che scommettono su tutto, non
avrebbero avuto dubbi.
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