Una delle prime scelte cui dovetti dedicarmi fu la nomina di quattro assessori. Scelsi quattro scoiattoli: Giampiero Sammuri, Mariella Gennai, Renato De Carlo, Alessandro Pacciani. Come mi comportai
I punti cardinali della mia bussola furono
rispetto e competenze.
Rispetto, innanzi tutto, dei cittadini che mi avevano eletto e ai quali dovevo presentare una giunta di qualità. Poi dell’impegno preso con le forze politiche che mi avevano sostenuto. Questo contemplava che due assessori fossero di espressione PDS, uno PRI e uno Patto Segni. Prevedeva, inoltre, la presentazione al presidente di candidature plurime, all’interno delle quali potessi scegliere liberamente. Avevo, a suo tempo, anche parlato della necessità di caratterizzare la giunta da una totale discontinuità rispetto al passato e di evitare di presentarmi persone che stessero svolgendo ruoli politici provinciali di primo piano nelle rispettive aggregazioni partitiche. Ricordo che era il 1995, e la repulsione dei cittadini verso tutte le forze politiche che fino ad allora erano state sulla scena, anzi verso la stessa forma partito, aveva superato grandemente la linea di guardia.
Cosa poi volessero dire le competenze è di tutta evidenza. Aggiungerei
solo che le competenze dei singoli dovevano essere adeguate alle aree di
competenza della provincia. Insomma, l’ingegnere-astronauta Samantha
Cristoforetti sarebbe stata sicuramente competente, ma non a svolgere i compiti
che la provincia doveva assolvere anche se, in qualche caso, mi sarebbe servita
per togliermi dal quotidiano e accompagnarmi nello spazio. Esigenza che si era
in me ancor più rafforzata, dopo la presa d’atto dettagliata dei compiti e dei
gravi problemi che la Provincia aveva dinnanzi. Dopo tutto, pensavo con i
teorici di Spencer & Spencer che “è
possibile insegnare ad un tacchino ad arrampicarsi su un albero, ma è meglio
assumere uno scoiattolo”. Ed io 4
scoiattoli cercai.
A distanza di 20 anni posso
dire come andò.
Partiamo dai candidati di
area PDS. Dialogai molto (e soltanto) con il segretario di quel partito,
Palmiero Ferretti, al quale ribadii tutti i miei punti di vista, che lui già
conosceva: nessuna figura troppo politica, nessuna persona che avesse già
svolto ruoli di rilievo provinciali, persone giovani, volitive e soprattutto
competenti. Una delle due doveva essere donna. Lui più volte mi ebbe a dire: “tranquillo, Stefano, che ti faccio due
proposte che ti piaceranno molto”. Preciso, disse tranquillo, non sereno.
Non escludo che, anche per questioni interne al suo partito, le mie posizioni
gli fossero funzionali a promuovere alcuni e bocciare altri. Ma la cosa non mi
riguardava. Dopo diversi incontri mi propose Giampiero Sammuri e Mariella
Gennai. Feci delle verifiche e rimasi soddisfatto di quelle proposte.
Quindi, tecnicamente non vi fu la presentazione di una rosa di candidati, come
volle sostenere l’apparentemente informato Luciano Salvatore su La Nazione del
21 maggio (“l’astuzia del Pds: quattro
nomi ma in realtà due solo per fare numero”), ma dopo 5-6 incontri di
vagliatura, emersero 2 candidature secche.
Quanto al candidato di area
PRI, la cosa fu più rapida. Il segretario Giampiero Pieraccini entrò una
mattina nella mia stanza e mi passò un foglio con i nomi proposti dal partito
repubblicano. Mi disse: “queste sono le
nostre indicazioni, fai tu” e mi salutò. Lessi il testo, vi erano indicati
5 nomi e un nome era sottolineato (questa volta il buon Salvatore aveva
azzeccato il numero, ma toppato sul “però
senza preferenze”). Verificai i profili e le competenze di ciascun
candidato. E, dopo accurata riflessione, scelsi Renato De Carlo. Non era il sottolineato, ma le sue competenze
erano di tutto rispetto e funzionali all’organizzazione delle deleghe
provinciali che avevo in mente.
Quanto al membro della
giunta che doveva esprimere il PATTO
SEGNI, la cosa si complicò
immediatamente. Mi fu presentato un solo nome, quello di Roberto Valente. Non
avevo nulla da eccepire sulla sua persona, ma non mi potevano mettere dinanzi
ad una sola proposta, quando avevamo parlato di rose; poi un geometra non era
quello che andavo cercando. Nelle caselle delle deleghe, oltre quelle che avevo
già in mente di assegnare a Sammuri, Gennai e De Carlo, mi rimaneva scoperto
tutto il fronte economico e agricolo. Cosa potevo farci con un geometra. Più
volte invitai colui che faceva da tramite con me per quel movimento ad avanzare
proposte diverse e che fossero in grado di assolvere al ruolo che avevo in
mente. Ma non ci fu verso. Ebbi molta pazienza, e fu questo il motivo del
ritardo di 4-5 giorni sulla tabella di marcia che mi ero proposto.
Però, c’era un però. Se i
pattisti non mi portavano nomi convincenti, come mi sarei potuto comportare,
come individuare una figura all’altezza delle mie aspettative? Era un bel
rovello.
La cosa mi preoccupava molto
e occupava costantemente i miei pensieri, mentre intanto dovevo seguire le cose
ordinarie della Provincia. Poi, non so come avvenne, ebbi quasi
un’illuminazione. Mi tornò alla mente una persona che avevo incrociato in un
ristorante insieme ad un gruppo di suoi amici della Coldiretti, un professore
universitario, esperto di questioni agricole. Provai a fare delle verifiche: si
chiamava Alessandro Pacciani. “Pacciani”!!! “Sarà mica parente del mostro
di Firenze?”, scherzai con un amico. Poi verificai le sue competenze: di
altissimo livello e soprattutto adeguate alle materie da coprire per il bene
della provincia. Intesa come ente e come territorio. Professore ordinario di
economia politica agraria alla Facoltà di Economia di Firenze e direttore
dell’osservatorio dell’economia agraria della Toscana.
Non ci pensai molto. Lo
contattai. Era disponile. Mi disse che era particolarmente legato al nostro
territorio e lo conosceva a fondo, specie sul fronte agricolo, sin dai tempi
della sua giovinezza. Ottimo. Era la persona che cercavo. Non gli chiesi la sua
appartenenza politica, né le esperienze politiche che aveva vissuto. Appresi
solo dopo, dalla stampa, che l’anno precedente era stato candidato dal Patto
per l’Italia nel collegio senatoriale 14. E probabilmente era iscritto al PPI.
Cose che non mi interessavano, anche perché se fossero state le ragioni della
mia scelta, avrei tradito il patto con gli alleati. Ma lo scelsi unicamente per
le sue competenze tecniche, specie sul fronte agricolo, che mi preoccupava
moltissimo.
Sciolsi la riserva e convocai, uno o due
giorni dopo, la conferenza stampa di presentazione della giunta provinciale.
Nel frattempo dovetti
registrare qualche mugugno, in casa PDS, sulla scelta di De Carlo. Credo
dipendesse da alcuni amiatini, che lo avevano conosciuto come esageratamente
rigido nel ruolo di amministratore straordinario dell’USL 32 (e forse da
qualche repubblicano che si era recato a lamentarsi in casa Pds). Motivo del
mugugno che riuscì solo a confermarmi la bontà della scelta. E annotai molte
sorprese per la scelta di Pacciani. Meglio.
La
conferenza del 20 maggio, 11 giorni dopo l’elezione, fu presentata dalla
stampa, il 21, nel modo seguente: “Ecco
gli assessori provinciali. Non ci sono grossetani. Il Patto grande escluso”
(Il Tirreno) e “Gentili non si piega.
Fuori i pattisti, preferito il tecnico del PPI Pacciani” (La Nazione).
Luciano Salvatore ebbe a
dire che non mi ero spiegato e parlò di una “reticenza-stampa”,
per non avergli risposto chiaramente che “chi
non aveva compreso lo sforzo di usare un metodo innovativo” erano stati i
pattisti, ma anche alcune frange del Pds e qualche repubblicano. Ma dovette
anche riconoscere che non mi ero neppure piegato, lodando appunto “il coraggio dimostrato nel non piegarsi ai
pattisti che avevano indicato il loro coordinatore Roberto Valente come
candidato unico”.
Naturalmente il coordinatore
del Patto andò su tutte le furie, affermando anche cose non vere e,
soprattutto, dicendo che “il Patto non
appoggerà questo presidente”. Nonostante scorribande sui giornali anche nei
giorni successivi, il non appoggio fu un nulla di fatto, perché l’unico
pattista (per così dire) in consiglio provinciale, Giampiero Pacchiarotti,
dichiarò pubblicamente il suo pieno appoggio a me e alla giunta e votò
tranquillamente la fiducia nel primo consiglio provinciale. Certo, la cosa gli
rimase legata al dito e la avrebbe fatta valere più avanti. Sarà, infatti, nel
1999 al tavolo di quelli che decideranno la mia defenestrazione.
Le reazioni alle mie scelte
furono, ovviamente, variegate. Alcune furono espresse in modo riservato
(direttamente a me o indirettamente) e altre furono pubbliche. Tra queste ho
recuperato quella di un partito e di una associazione.
Il Partito popolare di
Buttiglione, che aveva appoggiato Tamburro, criticò il metodo e le scelte che
avevo usato e sostenne una cosa che non stava in cielo né in terra. Secondo
loro, con la scelta del professor Alessandro Pacciani, residente a Sesto
Fiorentino, avrei “ribadito la sudditanza
economica, politica e culturale verso Firenze, esattamente come le
amministrazioni precedenti”. Come a dire che il professore mi era stato
imposto da qualche potente fiorentino. Una corbelleria.
Di
parere opposto erano le ACLI, il cui presidente Luciano Migliorini volle
esprimere apprezzamento per la mia persona proprio “per aver difeso la sua autonomia istituzionale nel designare i propri
collaboratori, evitando la vecchia regola dell’interdizione e della
convenienza”. Nell’accettare con favore “l’affermazione
di questo nuovo metodo”, mi stimolava ad affrontare i gravi problemi della
provincia, perché la Acli “giudicheranno
le capacità operative della nuova giunta provinciale, in base ai segnali di
novità che saprà dare alla società civile”, considerando come prioritarie
le azioni “in favore del mondo del lavoro
e del settore imprenditoriale”.
Paradossalmente l’elogio di
Migliorini fu più pungente dei giudizi negativi dei popolari di destra, di
Valente e di altri. Pungente perché mi ricordava, qualora ne avessi bisogno,
che la sfida da vincere era quella dei progetti da mettere in campo per
affrontare le urgenze provinciali.
Il fatto che non vi fossero grossetani
fu in parte una casualità e in parte una mia scelta. Volevo segnalare la centralità
delle periferie e, detto tra noi, mi fidavo poco del trasversalismo, loggesco e
no, di alcuni di loro.
Proprio pensando a tutto
quello che avremmo dovuto affrontare, ripartii le deleghe legandole
esclusivamente alle competenze dei 4
nuovi scoiattoli. Non parlai con nessuno, né contattai alcun partito per
l’assegnazione degli incarichi. E ricordo bene anche la velocità con la quale
esaurimmo la questione: seduti sul divanetto e le due poltrone della sala di
Giunta, comunicai la proposta e nessuno ebbe qualcosa da eccepire. Quindici
minuti e le deleghe furono assegnate. Non so come erano abituati in precedenza
e in quali luoghi si decidevano queste cose. Con me si fece così.
A Giampiero Sammuri, oltre la vicepresidenza, per le sue competenze
(laureato in scienze biologiche e dirigente delle risorse ambientali e
faunistiche della provincia di Siena), potei affidare l’assetto del territorio
(ambiente e territorio, bonifica, vincolo idrogeologico, caccia e pesca) e
l’innovazione organizzativa (personale, sistemi informatici e telematici).
Ad Alessandro Pacciani, per le sue competenze (già dette in
precedenza), affidai le attività economiche e produttive che comprendevano lo
sviluppo economico, l’agricoltura, le attività produttive e il turismo.
A Renato De Carlo, per le sue competenze (laureato in economia e
commercio con corsi di specializzazione in Libano e in USA, già dirigente di
industria ed ex amministratore straordinario della Usl amiatina), detti la
programmazione e la gestione delle risorse economiche (bilancio, finanze,
patrimonio), i lavori pubblici (viabilità, edilizia, idraulica) e i trasporti.
A Mariella Gennai (che diventerà la “mia cara Mariella” e che facevo arrabbiare quando le dicevo di
essere “la migliore donna della mia
giunta”) per le sue competenze (laureata in pedagogia con corso superiore
di museologia, educatrice nei centri specializzati per l’adolescenza e
presidente della Biblioteca comunale di Massa Marittima) potei affidare la
formazione e la qualità della vita (cultura, pubblica istruzione, politiche
sociali, formazione professionale, osservatorio sul mondo del lavoro, sport,
pari opportunità).
Poi c’ero io che – oltre ad avere lo sguardo su
tutto – mi ero lasciato la programmazione economica e le politiche comunitarie,
i rapporti istituzionali, i servizi agli enti locali, la comunicazione, i
servizi al cittadino.
Ma
quale erano le competenze del professorino di religione? Non
ero architetto, né avvocato, né commercialista, anche se ero diplomato in
ragioneria e avrei potuto insegnare diritto ed economia.
Ero
laureato in scienze politiche e quella facoltà abilitava ad avere “la conoscenza del funzionamento delle
organizzazioni pubbliche, private e del territorio nelle sue componenti
storiche, sociali, istituzionali ed economiche”. Conoscenze che si
coniugavano con “lo sviluppo di abilità
che riguardano la programmazione e l’attivazione di politiche pubbliche, la
capacità di operare nelle amministrazioni pubbliche e private e nelle
organizzazioni no profit, l’utilizzazione di metodi e tecniche della ricerca
sociale, la capacità di gestire, organizzare, analizzare e comunicare dati, la
capacità di individuare soluzioni a problemi sociali e istituzionali con
approccio interdisciplinare” (questo diceva il dépliant universitario che
mi invogliò a quella scelta).
Forse erano proprio adatte
al ruolo di presidente, che deve appunto operare in una pubblica
amministrazione mettendo a fuoco politiche pubbliche generali, analizzare la
realtà, individuare soluzioni a problemi sociali e istituzionali e porre in
atto politiche concrete, tenendo conto dei contributi provenienti dalle diverse
competenze e discipline.
Esperienzialmente portavo
nel mio bagaglio la presidenza di organizzazioni sociali come l’azione
cattolica, la croce rossa, un ufficio di curia, un centro studi. Potevano
apparire episodi modesti, ma non era così. Anzi, mi avevano insegnato la
capacità di mettere insieme i diversi, organizzarli secondo una o più linee
strategiche. Soprattutto avevo compreso che, per raggiungere risultati
importanti, era sempre opportuno contornarmi di persone più brave di me e che,
se chiamato a presiederle, dovevo valorizzarle al massimo. Senza temere che mi
facessero ombra.
E i miei assessori, nelle
loro rispettive materie, erano più bravi di me.
Io dovevo organizzarli armonicamente,
offrendo a ciascuno il proprio spazio, e dirigerli lungo percorsi discussi e
condivisi, esercitando le soft skills (competenze morbide), consistenti
nell’avere una visione sistemica, pianificare, organizzare e gestire il tempo e
le priorità, prendere decisioni, avere capacità di leadership, gestire,
motivare i collaboratori e orientarli al risultato.
Naturalmente sulle questioni
di fondo, mi riservavo l’ultima parola. Dopo tutto, l’eletto dal popolo ero io.
(la foto che segue comprende anche gli altri due assessori, Moreno Canuti e Daniele Morandi, che nominai in un secondo momento)
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