L’importanza, il fascino, la tragicità delle miniere. La nascita del polo chimico del Casone. La miniera entrava nella pelle. Il giacimento minerario di Campiano: dall’avanguardia tecnologica alla fine ingloriosa. Nel 1995 tutto si era dissolto ed erano rimasti solo i problemi
Come detto all’inizio di questa storia, della zona nord conoscevo poche cose. Delle miniere avevo qualche reminiscenza, ma iniziai a studiare, parlai con le persone e alcuni aspetti li compresi cammin facendo. Per lo studio mi affidai a Luciano Bianciardi e Carlo Cassola. E ne trassi molto giovamento soprattutto per l’atteggiamento da tenere rispetto agli ex-minatori e le loro famiglie, al percorso che avevano fatto, alle dure lotte che avevano dovuto combattere, al loro attaccamento a quelle esperienze e alle gioie e ai dolori che avevano provocato. Come pure riguardo allo sviluppo che avevano prodotto, che era giunto quasi al lumicino e ai danni che aveva procurato al territorio. Ma partiamo dalle descrizioni di Bianciardi e Cassola, dei quali ho usufruito anche in questa sommaria ricostruzione, talvolta virgolettandoli, talaltra no. Mi appare utile ripercorrerle, magari con qualche inesattezza, per chi quella storia non conosce.
① LA CONQUISTA DEL WEST. “Nel 1765, quando Pietro Leopoldo diventò granduca di Toscana, la Maremma aveva appena 25 mila abitanti. Grosseto era un borgo di 700 anime, Massa Marittima di 300. Nelle zone di piano era impossibile vivere durante i mesi caldi; ma la malaria arrivava a far vittime anche nei paesi di montagna. Con le bonifiche e le franchigie di Pietro Leopoldo ha inizio la colonizzazione della Maremma. Un’impresa a cui prendono parte popolazioni di varie parti d’Italia: un’impresa epica come la conquista del West. Il nemico qui era meno pittoresco degli indiani, ma certo più micidiale: nello spazio di un secolo e mezzo, la colonizzazione della Maremma è costata qualche decina di migliaia di morti” (Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, ExCogita editore 1956, pag. 165). Nel 1834, quando il francese Porte costituì la prima ‘anonima’ per la riattivazione delle miniere – che avevano avuto una loro storia sin dagli etruschi – la popolazione della provincia era salita a 63 mila abitanti. Le società reclutarono gli operai tra i piccoli proprietari, i braccianti e i pastori del luogo; raramente ricorsero alla manodopera di altre province. I terreni dei paesi di collina e di montagna che sorgevano a mezza costa o in cima a un cucuzzolo, erano segmentati di siepi che recintavano minuscole proprietà. “Tutti questi piccoli e piccolissimi proprietari avevano bisogno di fare un altro lavoro. Ed eccoli diventare braccianti, agricoltori, boscaioli, terrazzieri, pastori e, naturalmente minatori, non appena nelle vicinanze viene aperta una miniera. Nei confronti dei lavori agricoli, a carattere stagionale, il lavoro di miniera presenta il vantaggio della continuità. Anche le paghe sono leggermente più elevate: dalla lira e mezza, che è la giornata del bracciante, si passa alle due lire percepite in media dall’operaio di miniera”.
② LA MINIERA ENTRA NELLA PELLE. L’economia dei paesi iniziò così a legarsi alla vita delle miniere. Quella di Massa Marittima alle miniere di rame di Fenice Capanne, Poggio a Guardione e alla miniera di ematite e limonite di Val d’Aspra. Quella di Tatti, Sassofortino, Roccatederighi, alle miniere di lignite di Ribolla e di Casteani. Quella di Boccheggiano, Prata, Montieri, alla miniera di pirite di Boccheggiano. Quella di Castell’Azzara, Selvena, Santa Fiora, alle miniere di cinabro del Siele, del Morone, del Cornacchino, di Abbadia e anche di Baccinello. Se una miniera chiudeva, o riduceva le sue attività, era una tragedia per tutta una serie di Paesi.
Nel 1956, su una popolazione di 211 mila abitanti, i minatori costituivano una massa di 8-10 mila unità. Se si eccettuavano lo stabilimento dell’Ilva di Follonica e quello Montecatini di Orbetello, non vi erano nella provincia industrie di rilievo. L’economia generale della provincia era legata all’agricoltura, ma l’economia di tutta una serie di comuni (Massa Marittima, Montieri, Roccastrada, Gavorrano, Santa Fiora, Castell’Azzara, Monte Argentario, Isola del Giglio) dipendeva essenzialmente dalla stabilità e dallo sviluppo dell’industria mineraria. L’origine sociale dei minatori era prevalentemente contadina, tuttavia le guerre e le immigrazioni da altre regioni ne modificarono sensibilmente la composizione. Tanto durante la prima che la seconda guerra mondiale, le miniere maremmane subirono un incremento notevolissimo e il normale afflusso dalle campagne non era più sufficiente a coprire il fabbisogno di manodopera. Furono così ingaggiati lavoratori di ogni categoria, specialmente artigiani. A guerra finita si ebbe una parziale smobilitazione. Così dopo la guerra ’15-’18 chiuse la miniera di rame di Fenice Capanne, che occupava oltre 1000 operai e ridussero il numero anche le miniere di lignite. Dopo la seconda guerra mondiale smobilitò Ribolla, chiuse Baccinello, dimezzò le proprie maestranze la più importante miniera di mercurio del versante grossetano, la miniera del Siele. L’immigrazione da altre regioni, cominciata prima della guerra ’15-’18, si intensificò tra le due guerre ed ebbe una spinta finale dopo la seconda guerra. Gli immigrati erano prevalentemente sardi, siciliani, veneti, marchigiani.
③ LE MINIERE CAMBIARONO LE ABITUDINI, I COSTUMI, LA PSICOLOGIA, LA CULTURA, LA POLITICA, I RITMI DI VITA. L’avvento delle miniere mutò le abitudini e i costumi. Bianciardi e Cassola ricordano come, ad esempio, a Boccheggiano (che nel 1953 contava 1800 abitanti, dei quali oltre 400 occupati nelle miniere) l’alimentazione era cambiata: una statistica indicava che il consumo giornaliero di carne in quell’anno era di 60 grammi pro capite, quando prima ben poca se ne mangiava; ed anche talune abitudini: parecchi minatori possedevano la Lambretta. Ma erano nate anche le malattie professionali: silicosi, tubercolosi, artrite, ecc. “Guardando le facce pallide, terree, degli abitanti di qua, si ha subito l’impressione che la miniera con la sua rapina sotterranea non abbia prodotto guasti solo ai campi e ai boschi, ma anche e soprattutto agli uomini”. Le stesse cose erano accadute a Gavorrano, Massa, Montieri, Prata, Tatti, Roccatederighi, Sassofortino, Giuncarico, Ravi, Scarlino: tutti avevano avuto un fortissimo incremento della popolazione, il graduale declino delle antiche forme di economia, il miglioramento del tenore di vita, la trasformazione politica, sociale, psicologica e culturale.
Vi erano poi i centri di vita sorti ex novo intorno alle miniere. I principali villaggi operai erano Ribolla, Niccioleta, Filare di Gavorrano, Bagno di Gavorrano, Baccinello, tutti, allora, di origine recente. Nei primi decenni le società minerarie non si occuparono del problema delle abitazioni, né di quello dei trasporti. Sarà la Montecatini ad orientarsi per prima verso la creazione di villaggi operai come quello sorto per la miniera di pirite di Gavorrano (acquistata nel 1910) che aveva avuto un rapido sviluppo. La Montecatini costruì case a valle dell’allora minuscolo paese di Gavorrano e così nacquero Filare e Bagno.
La rivoluzione industriale affrettò anche i tempi della trasformazione politica. Le prime sezioni socialiste nacquero nei centri minerari e precisamente a Montieri e Massa (1896). I repubblicani opposero una tenace resistenza alla penetrazione socialista, ma nel 1913 persero addirittura il collegio elettorale di Grosseto. Dopo la prima guerra mondiale, i minatori costituirono la principale massa d’urto dei socialisti prima, dei comunisti dopo.
Ripercussioni si ebbero anche sulla psicologia e la cultura. I minatori, già i primi anni ’50, avevano acquisito la mentalità degli operai industriali, anche se “al paese conservavano l’orticello e il campicello”. Avevano maturato la tendenza a spendere fino all’ultimo centesimo della paga ed anche a indebitarsi persino per cose voluttuarie (le paghe oscillavano tra le 30-35 mila lire mensili per gli esterni e le 40-50 mila agli interni) a differenza dei piccoli borghesi di paese che amministravano oculatamente le proprie entrate. Anche dal punto di vista culturale si erano evoluti. “Ne era una prova – ricordano sempre Bianciardi e Cassola – il circolo culturale di Massa Marittima, con proiezioni cinematografiche, conferenze e una biblioteca che ha un movimento mensile oscillante tra i 120-150 libri”.
Ma soprattutto era cambiato il ritmo di vita. Racconta un sacerdote che per due anni era stato a Boccheggiano, la vicinanza esistenziale della miniera e le relazioni speciali che si erano venute a creare specie dove c’era una mamma, una sposa o i figli del minatore. E faceva l’esempio della laveria. Essa era il cuore della miniera. Il rumore dei carrelli della laveria, dei motori, era come il ritmo del cuore: se erano gagliardi o lenti dicevano che qualcosa continuava o era in via di rilassamento. “Le sciagure sono percepite infallibilmente dall’improvviso arresto della laveria”. E poi faceva l’esempio di sua madre, perché uno dei suoi fratelli “fu costretto per oltre un anno a scendere, secondo il giro dei turni, dentro il pozzo di Bacciolo. Inutile ricordare le ansie e le lacrime di mia madre”. “Noi andavamo a letto ma lei restava sola in cucina a far la calza e ad attendere quel suo figliolo sfortunato, così lei lo chiamava. La sentivamo tossire, muoversi da un angolo all’altro, andare alla porta ed aprirla appena ci fosse nell’aria qualche rumore”. “Pensate ad un paese sempre sveglio, a gente che parte e ritorna, a gente stanca dal lavoro, a gente stanca di aspettare, e vi sarà facile comprendere quanto sia ricco di affetti un paese come Boccheggiano”. (Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, op. cit., pagg. 171 e 172)
④ L’ESORDIO DELLA MONTECATINI. Allo scadere del XIX secolo, ad essere precisi nel 1899, era entrata in Maremma la Società Montecatini, nata un anno prima a Montecatini Val di Cecina per lo sfruttamento di un giacimento di solfuri misti. Acquistò la miniera di Fenice Capanne, ma la sua fortuna non derivò dai solfuri misti, quanto invece dalla pirite di ferro, di cui la Maremma era ricca. Con la pirite di ferro si capì che era possibile produrre acido solforico, e quindi dare avvio ad una vera e propria industria chimica, che appunto lo utilizzava nella maggior parte dei processi di lavorazione. Per questo la Montecatini acquistò nel 1910 la piccola miniera di Boccheggiano come pure una consistente quota azionaria dell’Unione Italiana Piriti proprietaria di una miniera a Gavorrano. Con la successiva messa in esercizio dell’impianto minerario di Niccioleta, la società si assicurò il monopolio delle piriti italiane e il 90% della produzione di questo materiale veniva proprio dalle miniere maremmane.
⑤ LE TESTIMONIANZE DI FLORIO, ELIA, OTELLO. Per testimoniare la vita dei minatori e le loro lotte per una vita migliore, specie nel decennio post seconda guerra mondiale, mi avvalgo di un bel saggio di Silvano Polvani, dirigente della CGIL e protagonista di lotte sindacali per l’area della Colline Metallifere anche nel periodo della mia presidenza alla Provincia di Grosseto. Il libro è del 2010 ed è titolato “Com’era rossa la mia terra”.
Florio, Elia e Otello sono tre minatori che hanno vissuto in prima fila i conflitti operai in Maremma nel decennio 1944-1954. È attraverso le loro voci che Polvani tramanda tre storie (realmente accadute) di miniera, coraggio e ribellione sotto forma di brevi racconti. Io riporto in breve qualche passaggio, utilizzando un resoconto scritto da David Lifodi.
“La miniera offre un lavoro sicuro in tempi di ristrettezze economiche, certo, ma al tempo stesso uccide: lentamente, come succedeva ai lavoratori che si ammalavano di silicosi, oppure in un attimo. Bastava uno scoppio per una perforazione errata, un crollo improvviso, e gli operai non risalivano più dalla ‘gabbia’, l’ascensore che li conduceva sottoterra. La continua richiesta di pirite, dovuta soprattutto alle necessità belliche, era fonte di lavoro per i minatori, che potevano godere di uno stipendio garantito, ma li costringeva a lavorare in condizioni disumane, oltre che a sottostare ai diktat imposti dalla Montecatini, la Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica, denominata anche la ‘piovra’. La Montecatini era padrona della vita degli operai, dalle case che sorgevano nei villaggi minerari agli spacci alimentari: se un lavoratore non era più in grado di lavorare perdeva anche il diritto alla casa. Gli stessi ritmi di vita degli abitanti erano scanditi dalla Montecatini: il circolo ricreativo, la banda, la squadra di calcio, e le stesse sedi del Pci e della Cgil erano di sua proprietà. Al cinema la proiezione del film non aveva inizio finché non si era seduto il direttore della miniera”. La Maremma era una zona fortemente politicizzata, soprattutto quei borghi e paesi dove si praticava l’estrazione mineraria: “a Niccioleta, Massa Marittima, Roccastrada, Montemassi, Gavorrano, Ribolla e Boccheggiano la presenza del Partito Comunista e della Cgil era considerevole, ma i diritti sindacali continuamente attaccati. La miniera era ‘un terreno fangoso’ e le sue gallerie dei ‘gironi infernali’, ma per guadagnarsi da vivere, nonostante il lavoro duro, in tanti giungevano non solo dai paesi del Monte Amiata (Santa Fiora e Castell’Azzara), ma anche dalla Sicilia e dalla Calabria”.
• Il 9 giugno 1944 – narra l’autore Polvani, che dà voce al minatore FLORIO nel primo dei suoi tre racconti – gli operai attendevano con preoccupazione l’arrivo dei tedeschi e dei picchiatori fascisti locali. In ritirata, i nazisti distruggevano tutto ciò che incontravano sul loro cammino, comprese le fabbriche: questo avrebbe significato per i minatori perdere il lavoro, per cui era necessario organizzare dei turni di guardia per difendere la miniera. Molti paesi dell’Amiata e della Maremma al giorno d’oggi hanno dedicato una via ai Martiri di Niccioleta, quei minatori che furono rastrellati per aver organizzato la difesa della miniera: buona parte di loro fu fucilata nei pressi di Castelnuovo Val di Cecina il 14 giugno 1944, gli altri inviati in Germania nei campi di lavoro. Florio fu uno di questi e riuscì a tornare a Niccioleta dopo oltre un anno, con l’orrore negli occhi e in seguito a indicibili sofferenze, quando tutti ormai lo credevano morto. Negli anni successivi arrivò la dismissione: le miniere chiudevano, dal Sulcis Iglesiente alla Toscana. Niccioleta chiuse in silenzio, ma restano vivi nel ricordo quei martiri che hanno scritto una delle più belle e strazianti pagine della storia operaia: “Li vedrai avanzare rischiarati dal chiarore della lampada, potrai riconoscerli e chiamarli, ti appariranno rinfrancati e distesi, fortificati dalla pace che hanno trovato dove la malvagità degli uomini è bandita”.
• Dietro alle lotte dei minatori c’era un’intera comunità che li sosteneva e si faceva carico dei loro sacrifici, annunciati quotidianamente dal suono della corna, la sirena che decretava l’inizio e la fine dei turni in miniera. ELIA, protagonista della lotta dei cinque mesi a Gavorrano, aveva vissuto in prima persona tutto questo. La Montecatini, che ne conosceva la sua indole ribelle, aveva consigliato ai carabinieri di tenerlo d’occhio in occasione delle manifestazioni: apparteneva alla sezione locale del Pci, attiva anche in clandestinità. La lotta dei cinque mesi, un lungo periodo di proteste e scioperi dei minatori contro l’impresa per ottenere migliori condizioni di lavoro, e che nel 1951 coinvolse l’intero paese, stavolta non sarebbe stato argomento di discussione o rivendicazione politica. Elia, scrive Polvani, avrebbe dovuto raccontare la lotta mineraria ad una classe di ragazzini, quella lotta che i minatori delle Colline Metallifere condussero contro la piovra di sempre, la Montecatini, che imponeva di scavare pirite e carbone da inviare alle fabbriche del nord. Negli anni ’50 la miniera di Gavorrano, 2000 dipendenti, era la più grande d’Europa. Gli scioperi sistematici e i picchetti misero in crisi la Montecatini: il sindacato non cedeva di un metro e l’impresa giocò sporco: prima ridusse il salario agli operai al 70%, poi inviò 700 lettere di licenziamento. Anche in questa circostanza la solidarietà operaia ebbe un ruolo chiave: nacque un comitato popolare che provvedeva a raccogliere viveri da destinare alle famiglie dei lavoratori in lotta. In alcune fabbriche gli operai sottoscrissero un’intera giornata del proprio lavoro a favore dei minatori maremmani. Una solidarietà diffusa contro un vero e proprio regime poliziesco, quello della Montecatini, che al momento opportuno cercava di usare la carota per abbindolare i suoi nemici.
• Il 4 maggio 1954 l’esplosione del Pozzo Camorra di Ribolla, dove si trovava una miniera di lignite, dovuta allo scoppio di grisou CAUSÒ LA MORTE DI 43 LAVORATORI. La Montecatini riuscì ad insabbiare il processo, ma pretendeva addirittura che OTELLO Tacconi, minatore ed esponente di spicco del sindacato, ritrattasse un articolo che aveva scritto per l’Unità il 25 febbraio 1954, ben prima della strage, dal titolo: “Nelle miniere della Montecatini usano ancora il porcellino d’india per segnalare l’ossido di carbonio”. Gli avvocati della Montecatini provarono a comprarlo in tutti i modi, lo invitarono a Milano per proporgli un lavoro in uno stabilimento della società o un assegno da 25 milioni. Durante la travagliata notte che passò a Milano, Otello sognò i suoi compagni morti nella miniera, la condanna a morte che gli avevano già riservato se avesse accettato la proposta della Montecatini, li vide allontanarsi sulle note di Bandiera Rossa. Otello non tradì i suoi compagni, così come non lo fecero mai Elia e Florio.
⑥ LA NASCITA DEL POLO CHIMICO DEL CASONE DI SCARLINO E L’INGRESSO DELL’ENI. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, prima gli impianti di carbone quindi, più lentamente, anche quelli di pirite entrarono in crisi. I primi non riuscirono a reggere la concorrenza dei carboni esteri, poi la sciagura di Ribolla fece saltare tutto e dopo pochi anni il comparto lignifero fu totalmente liquidato.
La pirite maremmana ebbe un percorso più articolato. Inizialmente veniva trasportata fuori provincia, poi nacque lo stabilimento del Casone per la produzione di acido solforico, che come scarto produceva le ceneri ematitiche. Ceneri che in seguito saranno pellettizzate e conferite alle acciaierie di Piombino, Cornigliano, Bagnoli, Cogne, Trieste. Poi sopravvenne la crisi per effetto dell’utilizzo del rottame di ferro in siderurgia, che portò alla dismissione dell’impianto di pellettizzazione e al conseguente accumulo delle ceneri a piè di fabbrica. La stessa pirite maremmana entrò in crisi a causa dell’invasione del mercato di grosse quantità di zolfo derivante, come sottoprodotto, dall’industria degli idrocarburi in espansione ed anche per la concorrenza delle piriti russe, spagnole e di Cipro. E questo condurrà alla inarrestabile chiusura delle miniere.
A metà anni ’50 la situazione era, però, quella iniziale, della pirite trasportata fuori provincia. E non era soddisfacente.
Nella relazione al VII congresso dei minatori tenuto a Gavorrano il 7 e 8 dicembre 1955, il segretario Duilio Betti ricordava, infatti, che esistevano “i presupposti per modificare radicalmente la situazione industriale e quindi quella economica della Maremma, utilizzando la pirite estratta a Gavorrano, a Boccheggiano, a Niccioleta in impianti da costruire localmente per la fabbricazione dell’acido solforico, accanto ai quali dovrebbero sorgere stabilimenti chimici per l’utilizzazione dell’acido…”. (Silvano Polvani, Giuseppe Di Vittorio e i minatori di Maremma, 2012 Edizioni Effigi, pag. 74) Questa proposta, che prese avvio durante la cosiddetta Lotta dei cinque mesi, sarà ripresentata anche in seguito nelle lotte e nelle piattaforme rivendicative dei minatori e troverà attuazione negli anni ’60.
Nel 1961, infatti, iniziò a Scarlino la costruzione di un grande impianto, istallato e funzionante nel reparto acido solforico alla fine del 1962, capace di trattare 380.000 tonnellate annue di pirite grezza fornita da Niccioleta. “Fu anche costruito un raccordo ferroviario lungo oltre 3 km tra la stazione F.S. di Scarlino e lo stabilimento del Casone, nel quale fu impiantata una vasta rete di binari” (Silvano Polvani, Il lavoro le lotte l’impresa. Miniere e minatori, editrice Leopoldo II, 2002, pag. 35). Nel 1972 nacque la SOLMINE (Società di lavorazione di minerali e derivati), all’interno del gruppo Egam, per ricevere dalla Montedison (la Montecatini infatti nel 1967 a seguito della sua incorporazione nella Edison, era divenuta Montedison) le attività del complesso industriale scarlinese. Con la soppressione di Egam nel ’78, fu assegnata all’ENI, che la pose sotto la controllata Samim. Nel 1980 a causa della crisi siderurgica – come detto – fu interrotta la produzione di ossidi di ferro e nel 1987 fu rinominata Nuova Solmine. Tra il 1996 e il 1997 sarà privatizzata e ceduta alla Sol.Mar. S.p.A., composta da Luigi Mansi (già amministratore delegato) e altri due manager interni all’azienda. Oggi ha circa 100 milioni di fatturato, 220 dipendenti ed è il primo produttore italiano di acido solforico.
Sempre nel 1972 la Montedison accanto allo stabilimento della Solmine ne aveva costruito un altro: nei suoi impianti si produceva (e si produce) biossido di titanio (il pigmento bianco più usato per una vastissima gamma di prodotti, dalle vernici ai farmaci, carte, plastiche) in virtù di un processo attivato dall’acido solforico e dal vapore prodotto dalla Solmine che le giungeva attraverso una conduttura. Poi lo vendette alla Sibit e, nel 1984, alla TIOXIDE Europe, ramo italiano di una multinazionale che aveva propaggini in tutto il mondo.
⑦ IL GIACIMENTO MINERARIO DI CAMPIANO: DALL’AVANGUARDIA TECNOLOGICA ALLA FINE INGLORIOSA.
A metà degli anni ’70 lo stabilimento Solmine sembrava destinato ad un radioso futuro, soprattutto grazie alla scoperta del grande giacimento minerario di Campiano presso la vecchia miniera di Boccheggiano (Montieri): si parlava, a regime, di una produzione annua di 100.000 tonnellate, tutte destinate allo stabilimento scarlinese. Per la realizzazione degli impianti della nuova miniera di Campiano (che decollò nel 1974) furono utilizzate tecnologie d’avanguardia. Non eravamo più ai livelli occupazionali degli anni precedenti, comunque l’estrazione di pirite in quella fase dava ancora lavoro ad oltre 2.000 minatori e quasi 500 operai erano impiegati negli stabilimenti di trattamento del Casone.
Proprio quando il sole sembrava quasi accecante, si stava già preparando il sopraggiungere della notte. A metà anni ’80 accadde l’imprevedibile: la base per la produzione dell’anidride solforosa sino ad allora prodotta dall’arrostimento della pirite sarà sostituita con la combustione dello zolfo. La cosa condusse alla crisi irreversibile dell’estrazione mineraria ed alla chiusura, nel 1994, dell’ultima miniera, quella di Campiano e portò con sé la perdita di migliaia di posti di lavoro. Fu una tragedia per le Colline Metallifere.
Da annotare, inoltre, che nel 1993 il ramo d’azienda delle attività minerarie passò da Nuova Solmine a Mineraria Campiano S.p.A. entrata poi in liquidazione il 27 ottobre 1994. In particolare, a Mineraria Campiano furono conferite la miniera di Campiano e le miniere di Niccioleta, Fenice Capanne e Gavorrano, comprendenti i beni in proprietà (terreni, impianti, macchinari e attrezzature). “Eppure la miniera di Campiano era diventata il simbolo di tremila anni di vicende minerarie in Maremma. È come se il coraggio, l’esperienza, l’intelligenza che dagli Etruschi in più generazioni si sono andate accumulando, si fossero depositate, strato su strato, nelle sue gallerie. Ma la storia fa brutti scherzi. Una volta arrivati al traguardo può anche chiedere di ricominciare. Peggio, può dirci che il viaggio è stato inutile. E infatti, portate le autostrade sottoterra, sconfitta la silicosi, superato il pericolo del gas e degli allagamenti, una volta reso il lavoro delle miniere né migliore né peggiore, solo diverso dagli altri, oggi in Maremma non c’è più bisogno di miniere. Tanto vale riempire i pozzi, chiudere le gallerie, far tornare in superficie le talpe e le pale meccaniche, e pensare di guadagnarsi da vivere in un altro modo” (Maurizio Naldini, Si arrende l’ultima miniera, La Nazione, 1994).
Pensare che quando divenni Presidente della Provincia di Grosseto, quasi tutte le buone cose di quella storia si erano dissolte (dall’occupazione allo sviluppo industriale, dalla nascita della coscienza operaia alle lotte per la propria emancipazione) ed erano rimaste solo quelle negative (perdita di migliaia di posti di lavoro e territorio ferito da bonificare) faceva venire la pelle d’oca.
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