Rivendico la serietà e la concretezza della nostra azione politico-amministrativa tesa a far decollare le bonifiche dei siti inquinati delle colline metallifere mettendole in carico a chi aveva provocato l’inquinamento. Anche in risposta al grande inquisitore. Le sue accuse e la nostra risposta
Come detto nel precedente post, per dire le cose da noi fatte riguardo alle problematiche ambientali delle Colline Metallifere legate alle miniere e all’industria chimica, prendo a riferimento le accuse sulle cose non fatte che il consigliere provinciale, Roberto Barocci, ci ha rivolto ‘a freddo’ nel 2000 all’interno del suo pamphlet, ArsENIco. Andiamo, dunque, a vedere le cose di cui ci accusava e ci accusa nel suo pamphlet.
① DOVE ERANO FINITE LE TONNELLATE DI MERCURIO DEL CASONE DI SCARLINO PRESENTI NELLE PIRITI? La prima accusa riguardava la nostra presunta tiepidezza o inadempienza nel verificare le responsabilità dello stabilimento del Casone di Scarlino circa la presenza di mercurio in alcune falde idriche. A tal riguardo Barocci dice nel suo ArsENIco: di aver chiesto “invano ai responsabili provinciali del controllo sui rifiuti, anche con interrogazioni, dove fossero finite le tonnellate di mercurio” (pag. 35) presenti nelle piriti trattate nello stabilimento del Casone di Scarlino tra il 1982 e il 1994. Quesiti a cui volevamo rispondere anche noi, ma la cui risposta non era semplice e non poteva essere inficiata da tesi precostituite. Per questo favorimmo la costituzione di un Comitato Tecnico Scientifico al quale affidare il compito di individuare proprio le cause che avevano determinato la presenza anomala di mercurio in alcune falde idriche della nostra provincia. Tra l’altro, come ebbe a dire l’assessore Daniele Morandi nel Consiglio provinciale del 16 settembre 1998, i quesiti posti dal Barocci furono trasmessi al comitato stesso, tanto che il consigliere di rifondazione si dichiarò soddisfatto della risposta (cosa più unica che rara). Inoltre, sempre Barocci, aggiungeva di aver constato “l’inesistenza dell’incarico”, deciso dalla giunta Provinciale, di dar vita ad un Comitato scientifico proprio per verificare la presenza di mercurio nelle acque (nota 49, pag. 62). Naturalmente il Comitato esisteva, ed era dimostrato dal fatto che si era riunito, aveva prodotto decisioni e affidato incarichi operativi. La Provincia – che insieme alla Regione e altre autorità e aziende aveva costituito un Gruppo di Azione Locale – per lo studio sull’arsenico era addirittura l’unica che aveva messo risorse proprie. E, nella riunione del 28 maggio 1998, era stato stabilito di inserite nel Comitato 15 professionisti di alto valore scientifico tra ingegneri, architetti e professori universitari.
Riguardo alla sostanza della questione inquinamento da mercurio, Barocci – se non ricordo male – sosteneva che la presenza di mercurio nelle falde acquifere della costa follonichese fosse esclusivamente dovuta all’ambiente acido determinato dalle produzioni del Casone di Scarlino. La maggioranza dei tecnici invece sosteneva – sempre se la memoria non mi inganna – che il mercurio si può diffondere nell’acqua in presenza di un ambiente basico e allora, forse, una causa del fenomeno poteva essere l’intrusione e la diffusione del cuneo salino determinata dagli eccessivi pompaggi di acqua dolce e, nel caso, la responsabilità si sarebbe spostata su altri soggetti. Cosa che invece altri tecnici escludevano. E poi, come ricordava Morandi a gennaio 1999, “l’inquinamento di mercurio, purtroppo, non interessa solo l’acqua di alcuni pozzi della piana tra Scarlino e Follonica e nel comune di Orbetello. Il fenomeno è stato rilevato anche nel comune di Castiglione della Pescaia”. Comunque, era stato commissionato “uno studio per determinare le cause naturali e antropiche della eccessiva presenza di mercurio nelle acque da Follonica a Capalbio” (Morandi: ‘Un problema per tutta la provincia’, La Nazione, 22.01.1999).
La nostra attenzione nel comprendere quel grave fenomeno, come pure verso la realizzazione delle bonifiche minerarie, fu testimoniata sino alla fine della legislatura breve con l’organizzazione, il 19 febbraio 1999, dell’eloquente seminario su Bonifiche minerarie e presenza dell’arsenico negli acquiferi.
② CHI DOVEVA ANALIZZARE LE CENERI E I FANGHI USATI PER RIEMPIRE LA MINIERA DI CAMPIANO? La seconda grave carenza di cui ci accusava era quella di non avere mai voluto procedere a fare analisi sulle ceneri ematitiche di pirite della Nuova Solmine e sui fanghi prodotti dall’impianto di epurazione delle acque, con cui era stato anche riempito, su disposizione del Distretto Minerario di Grosseto, il 45% dei vuoti sotterranei della miniera di Campiano. Dice infatti nel suo pamphlet: “Chiedemmo a Comuni, Provincia e Regione che fossero ripetute le analisi. Risposero che le ceneri erano state già analizzate e valutate” (pagg. 13 e 14). Intanto a noi non competeva fare quelle analisi, quindi la provincia non poteva farle; pertanto non eravamo noi il soggetto che poteva dire se quelle ceneri fossero nocive o meno. Inoltre, ci trovammo in presenza di un Distretto Minerario di Grosseto dal comportamento schizofrenico. All’inizio del 1997 comunicò all’Assessore regionale Claudio Del Lungo (per rispondere ad una interrogazione di tre consiglieri regionali di AN) che il materiale stoccato nella miniera di Campiano “non era tossico”. E lo disse basandosi su analisi effettuate dalla società Solmine e dall’Università di Pisa (Campiano, i fanghi nelle gallerie non sono tossici, La Nazione, 26.01.1997). Lo stesso Distretto Minerario, peraltro, nell’ottobre dello stesso anno rese note le analisi fatte su alcuni campioni di ceneri di pirite – prelevati nel lontano 1990 presso la Nuova Solmine ed elaborati nello stesso anno dalla USL di Piombino – che gli aveva inviato la Procura della Repubblica di Grosseto, segnalando che erano fuori norma per il contenuto in arsenico, per la cessione di elementi quali piombo, rame e cadmio e, pertanto, “erano da ritenersi tossiche e nocive”. Da diventare pazzi!
Continua Barocci: “Quando a fine ’97 e nei primi mesi del ’98 fu chiara l’entità del disastro ambientale, ritornammo a chiedere uno studio analitico sul territorio. L’Assessore provinciale all’Ambiente, Morandi, ci rispose nell’ottobre del ’97, dopo le segnalazioni ricevute dalla Magistratura, che non c’erano problemi, che il contenuto delle ceneri è da tempo noto e che la Regione Toscana le aveva testate e valutate” (pag. 25). Naturalmente Morandi non disse che non c’erano problemi, come dice falsamente il PM Barocci. Precisò, invece, che siccome le ceneri erano una realtà e non era dato farle scomparire, l’unica cosa seria da fare era quella di collocarle adeguatamente affinché non creassero danni all’ambiente. Poi ebbe a ricordare che lo stabilimento del Casone di Scarlino non produceva più ceneri di pirite e larga parte di quelle esistenti erano state stoccate, anni indietro, a piè di fabbrica, con un intervento per il quale fu presentato un progetto che doveva necessariamente certificare la conoscenza qualitativa del materiale – “dunque il loro contenuto è noto da tempo” – e prevedeva sistemi di controllo per monitorare eventuali effetti negativi sulle falde idriche e sull’ambiente in generale. “Quel progetto, approvato dalla Regione Toscana, competente per lo stoccaggio e lo smaltimento, fu eseguito dai proprietari della fabbrica, controllato nelle fasi di esecuzione da una apposita commissione e infine collaudato nel 1996, con prescrizione di ulteriori monitoraggi per i successivi 10 anni”. Infine aggiunse: “è giusto far sapere alla gente che altre ceneri presenti sul territorio sono oggetto di interventi di bonifica da realizzare in attuazione della legge regionale 29 del 1993 e su questo, Provincia e Comuni stanno assiduamente lavorando, pur nei limiti delle proprie competenze” (Morandi: ‘Ceneri, storia già sentita’, La Nazione, 26.10.1997).
Riguardo al materiale usato per riempire la Miniera di Campiano, la Provincia con il Gruppo di Lavoro Locale, istituito proprio per rendere operante il controllo della parte pubblica, aveva già richiesto dal 2 luglio 1998 l’adeguamento di un progetto preliminare d’indagine presentato dalla Mineraria Campiano e dettate le regole che potevano consentire di effettuare, da parte dell’Arpat, analisi in contradditorio dei campioni prelevati. Ed anzi, fu sancito che “gli adeguamenti richiesti nel verbale di luglio avrebbero costituito la regola per l’attività successiva” (Consiglio provinciale del 16.09.1998). Tengo a segnalare che l’immediata attivazione del già citato Gruppo di Lavoro Locale fu anche la risposta con i fatti ai sindacati della FULC che, dopo la presentazione dei progetti da parte della Mineraria Campiano, avevano detto “a questo punto la palla passa agli enti territoriali” (La Campiano presenta 19 progetti per le bonifiche, La Nazione, 19.04.1998). Noi prendemmo la palla al balzo e volevamo fare goal.
③ LA NOSTRA PRESUNTA INAZIONE RITARDÒ L’AVVIO DELLE BONIFICHE? La precedente risposta di Morandi mi consente di entrare nella terza accusa che Barocci ci rivolgeva. Secondo l’inquisitore, con il nostro tergiversare e addirittura con una specie di azione di boicottaggio, avremmo anche noi contribuito a ritardare l’avvio delle bonifiche.
Nel solito pamphlet del 2000, dopo avere sbeffeggiato il sindaco di Massa Marittima, Luca Sani (utilizzando un intervento della segretaria del circolo di Massa del PRC probabilmente scritto da lui stesso), egli dice: “Altrettanto significativa di un atteggiamento che di fatto ritarda gli interventi di bonifica è la giustificazione data dall’Ass.re Morandi a nome della Giunta provinciale di Grosseto, in Consiglio Provinciale il 26 marzo scorso, quando ha sostenuto che l’art. 17 del recente Decreto Ronchi (22/97), che fissa i tempi di attivazione dei privati, obbligati alle bonifiche e le competenze dei sindaci che debbono diffidare i privati inadempienti e controllare che siano compiuti gli interventi urgenti, non sono applicabili…” (pag. 18).
Il furbacchione per suffragare le sue tesi ha sempre teso a spezzettare le risposte altrui, mettendo i puntini di sospensione (…) dove più gli faceva comodo. Io non ho più il testo della risposta di Morandi, ma sicuramente il mio assessore gli avrà detto che la legge Ronchi, da poco approvata, non era ancora applicabile senza la traduzione normativa regionale.
In effetti il periodo in cui incappammo noi (specie dal 1997 al 1999) fu una fase di profonda evoluzione normativa: ci fu il decreto legislativo n. 22 del 5 febbraio 1997 (decreto Ronchi) sui rifiuti, rifiuti pericolosi, imballaggi e poi, finalmente, la sua attuazione regionale con la legge della Regione Toscana n. 25 del 18 maggio 1998, che dettava norme in materia di gestione dei rifiuti e per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati.
L’evoluzione normativa finché non giunge al punto di caduta finale dà adito ad una molteplicità di interpretazioni su chi deve fare che cosa. E noi ci capitammo nel mezzo, giungendo il punto finale (anche se non definitivo) il 22 febbraio 1999, con la delibera della Giunta Regionale Toscana n. 166 relativa allo stralcio del Piano di gestione dei rifiuti riferito alla bonifica delle aree inquinate. Eravamo a tre mesi dalla conclusione della nostra legislatura.
Quello definitivo ci sarà il 21 dicembre 1999 con il D.C.R.T. 384 (Piano Regionale delle Bonifiche), ma noi eravamo già stati bonificati dall’Azienda Provinciale C.T.P.V.A. (acronimo per eletti), più altri noti che stavano nel back office dell’Azienda.
L’inquisitore, mai sazio del sangue della sua vittima, chiosa nel pamphlet del 2000: “Le motivazioni dei ritardi usate da questi amministratori sono le stesse nel tempo: c’è sempre una legge nuova non applicabile” (pag. 18). Non merita risposta.
Anche perché aggiunge poche righe sotto: “La Giunta provinciale del Presidente Gentili arrivò a sostenere che le analisi chimiche, che potevano certificare l’inquinamento in atto e giustificare l’avvio della legislazione sulle bonifiche, dovevano essere fatte dal soggetto che aveva inquinato e che la pubblica amministrazione non aveva strumenti per imporle. Una amministrazione, che in un solo anno deliberò per incarichi a professionisti esterni oltre 3 mila milioni, non riuscì a trovare una giustificazione migliore!” (pag. 18-19). La volgare sfrontatezza di questo signore – oltre a far finta di non sapere che se un’azione amministrativa non ti compete non puoi proprio farla, anche se costa 50 centesimi – non riesce neppure a dire: bravo Gentili che hai pubblicato, per moralità e trasparenza, tutti gli incarichi professionali, le docenze per la formazione professionale (con nomi e importi dei beneficiari) dati dalla provincia di Grosseto. Non era mai stato fatto prima e, se non sbaglio, non sarà più fatto dopo. Ma per l’inquisitore erano quisquiglie, il moralizzatore era solo lui e quello che contava era mettere fango nel ventilatore.
Ovviamente, in attesa della nuova norma regionale, vigeva ancora il Piano Regionale di Bonifica del 1993, che permetteva di avanzare proposte di inserimento di nuovi siti da bonificare, ma ci volevano i tempi e i passaggi necessari. Ribadisco, peraltro, che il più volte richiamato mancato inserimento dei siti minerari in quel Piano non poteva essere addebitato a noi (che nel ’93 facevamo altre cose), come pure considero una carognata prendere a pretesto la risposta ad una interrogazione orale dell’assessore regionale De Lungo il quale, nel settembre 1996, diceva che “… allo stato attuale non sono pervenute al Servizio richieste puntuali e formali, da parte della stessa Provincia, di inserimento di ulteriori aree minerarie dismesse, nel Piano Bonifiche” (pag. 14). Perbacco si dirà, Gentili e la sua amministrazione erano in Provincia già da un anno. Ma va là.
④ IN REALTÀ NOI ERAVAMO ALL’OPERA, seguendo le procedure previste, insieme ad altri soggetti e istituzioni per mappare con esattezza i siti inquinati. Prova ne è, ad esempio, l’importante convegno tenuto a Massa Marittima il 30.10.1997 – al quale ricordo di aver partecipato insieme ai miei assessori Morandi e Gennai e al consigliere provinciale Tonelli – dal titolo, La bonifica delle aree interessate dall’attività mineraria e industriale, organizzato da noi, i Comuni interessati, l’Arpat e il Dipartimento ambientale della Regione Toscana, coordinato dalla Provincia e introdotto dall’Assessore Daniele Morandi. Fu proprio quest’ultimo ad illustrare che la prima fase di approccio al piano, quello della individuazione delle aree e dei siti da bonificare, poteva dirsi – appunto – completata con la delibera regionale (n. 1118 del 6.10.1997) che le aveva accolte in un elenco, comunque passibile di ulteriori integrazioni. Era stato un lungo e meticoloso lavoro che l’Arpat, di concerto con gli Uffici provinciali, aveva svolto sul territorio in collaborazione con le amministrazioni locali e che avrebbe permesso di dare concretamente avvio alle fasi successive, in cui protagoniste in prima persona sarebbero dovute divenire le società proprietarie delle aree sulle quali, per legge, incombeva l’obbligo della bonifica e del recupero.
Le ditte interessate, entro termini ristretti, avrebbero dovuto presentare studi dettagliati da sottoporre ad un gruppo di lavoro e, dato da questo il nulla osta, iniziare il lavoro di ricerca e quello molto più delicato di analisi anche profonde dei terreni interessati, elaborando il progetto di bonifica. Dopo l’intervento del direttore dell’Arpat, Lippi (che “ha assicurato che quanto previsto dalla legge regionale 29 verrà applicato alla lettera”), presero “la parola Stefanini, Priami e Maddalon dei verdi del comprensorio (alcuni dei protagonisti del comitato di Boccheggiano), Bovicelli della federazione provinciale di Rifondazione Comunista (compagno di Barocci), Salusti della Cisl. Tutti hanno espresso soddisfazione per quanto è stato fatto e programmato, esprimendo parole di elogio nei confronti dell’Arpat, rammaricandosi soltanto per i ritardi accumulati e formulando alcune proposte riguardanti un più diretto coinvolgimento dei sindaci” (Miniere, individuati i luoghi da bonificare, Il Tirreno, 31.10.1997). Il cronista di quel convegno annotava anche un diverbio tra Barocci e il sindaco di Montieri, Giancarlo Bastianini, (ma i due c’erano abituati) relativo all’impiego delle ceneri nel riempimento delle gallerie di Campiano. L’inquisitore non smetteva mai di ringhiare. Era incontenibile.
Ulteriore riprova del nostro attivismo sarà anche il citato seminario del 19 febbraio ’99 dal titolo, Bonifiche minerarie e presenza di mercurio negli acquiferi. Infatti, tre giorni dopo da quel seminario, il 22 febbraio, la Giunta regionale Toscana adotterà la Delibera n. 166 relativa allo stralcio di Piano di gestione dei rifiuti riferito alla “Bonifica delle aree inquinate”. In quella delibera entrarono i siti delle Colline Metallifere (16 a Massa Marittima, 10 a Montieri, 1 a Scarlino) e di altre zone della provincia. Amen!
⑤ LA TESTARDAGGINE. Figurarsi se il famelico Barocci poteva essere soddisfatto del risultato raggiunto. Non sia mai. Iniziò a dare battaglia sulla esclusione dalle bonifiche del sito di Eni Ambiente (detto “ex-impianto di pellettizzazione”) criticando l’Arpat, il Gruppo di Lavoro Locale, il Comitato Tecnico Scientifico perché – a suo dire – non avevano tenuto conto “né degli studi fatti in passato sulle anomalie geochimiche, né soprattutto delle attività industriali esercitate in quel territorio negli ultimi anni”. (ArsENIco, pag. 42).
La risposta toccò di nuovo al paziente assessore Morandi che, nel Consiglio provinciale del 19 gennaio 1999, ricostruì la vicenda. La riporto, perché mi sembra molto istruttiva.
“Nel 1997 il Comune di Scarlino chiese che l’Arpat verificasse le condizioni di alcuni siti utilizzati per la produzione industriale per valutare l’opportunità di chiedere alla Regione Toscana di inserirli nell’elenco previsto dalla legge 29 del 1993 e, conseguentemente, attivare le procedure per la loro bonifica. La Regione Toscana elaborò un rapporto che prevedeva l’inserimento di tutti i siti proposti e tra questi anche un terreno di proprietà di Eni Ambiente denominato ex-impianto di pellettizzazione. Nei 60 giorni successivi, come previsto dalla legge, Eni Ambiente presentò opposizione, motivando la richiesta con una documentazione tendente a dimostrare che l’area in questione era già stata ripulita dai resti della demolizione di una ciminiera e che l’eccesso di arsenico rilevato in quei terreni non era un fatto imputabile all’attività dell’uomo, ma alla natura stessa dei suoli, cioè che la concentrazione anomala di arsenico era, in quei luoghi, ubiquitaria. Di conseguenza la Regione affidò al Gruppo di Lavoro Locale il compito di verificare la documentazione proposta ed esprimere un proprio parere sulla richiesta di esclusione avanzata da Eni Ambiente.
Nello svolgimento del lavoro il Gruppo non si limitò all’analisi e alla valutazione della documentazione presentata dalla società, ma ritenne opportuno che venissero effettuati una serie di sondaggi per estrarre campioni dei terreni, secondo un programma che prevedeva la realizzazione di 12 carotaggi, 3 nel terreno detto ex-impianto di pellettizzazione e 9 all’esterno del perimetro industriale. I sondaggi furono effettuati sino a raggiungere 6 metri di profondità e provvidero ad eseguire esami su campioni prelevati ad ogni metro di carota estratta. Questo metodo fece rilevare una presenza anomala di arsenico, anche se disomogenea, sia che provenisse dalla zona incriminata che dall’esterno. In ragione di ciò l’Arpat, che coordinava il Gruppo di Lavoro, elaborò una relazione tecnica in cui esprimeva il proprio parere favorevole dall’esclusione del sito dall’elenco della legge 29. La relazione fu inviata alla Regione Toscana per la sua scelta finale, dopo avere anche sentito il parere del Comitato Tecnico per lo smaltimento dei rifiuti. Tuttavia nell’ultima fase della procedura intervenne la modifica della legislazione nazionale (il decreto Ronchi) e regionale che produsse cambiamenti delle competenze e dei ruoli, cosicché la Regione non poté giungere, ai primi del 1999, ad una decisione finale”.
Sentiti i componenti del Gruppo di Lavoro Locale, Morandi escluse anche “che fossero stati presi in esame studi tecnici relativi allo spolverio dei rifiuti della lavorazione industriale. Ma il problema, serio e rilevante, dello spolverio affrontato in passato anche con interventi prescrittivi emessi nei confronti delle aziende chimiche e minerarie e accompagnati da ampia pubblicità, era ben presente a molti componenti del Comitato Tecnico Scientifico, ma non fu da loro ritenuto attinente a quella specifica ricerca. Né furono presi in esame altri studi sui sedimenti del bacino del fiume Pecora e nessuno dei partecipanti informò dell’esistenza di lavori di ricerca specifica effettuati negli anni precedenti”.
⑥ L’AMBIGUO INQUISITORE E LA NOSTRA COSCIENZA PULITA. Dunque, ammesso anche che i cattivi fossimo io, Morandi, la mia Giunta e la maggioranza del nostro Consiglio Provinciale, come mai il Consiglio Provinciale n. 90 del 30 luglio 1999, Presidente Lio Scheggi, con Rifondazione Comunista finalmente in maggioranza e presente in Giunta provinciale con l’assessore Bovicelli, non prese minimamente in considerazione la formale opposizione alla “esclusione del sito Eni dalle Bonifiche” (ArsENIco, pag. 47) presentata da Barocci e altri? Anzi, prese formale parere di esclusione del sito Eni dalle bonifiche? Perché, se la cosa era così seria e grave, Rifondazione Comunista non andò all’opposizione e perché Bovicelli non si dimise? Lo so, sono stato lungo. Ma dovevo rispondere alle accuse di Barocci rivolte a me e alla mia amministrazione.
Alla luce di quanto detto – anche in risposta al grande inquisitore che certamente rimarrà chiuso nelle sue convinzioni (“… quel bacio gli brucia nel cuore, ma il vecchio non muta la sua idea”, F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov) – posso rivendicare la serietà, correttezza e concretezza della nostra azione politico-amministrativa volta a far decollare le bonifiche dei siti inquinati delle Colline Metallifere.
Mentre scrivo mi viene in mente un ingenuo Daniele Morandi che, già nel Consiglio provinciale del 16 settembre 1998, invitava Barocci a ricredersi rispetto alla volontà politica della nostra amministrazione, che “era sempre stata e rimaneva quella di risanare il territorio ponendo i relativi oneri a carico di coloro che avevano provocato l’inquinamento”.
Allora fu come dare il concime alle colonne e anche in seguito sarà lo stesso, vista l’accusa contenuta nel suo pamphlet del 2000, rivolta anche a noi, di aver contribuito “ad avvelenare la Maremma sino alla catastrofe ambientale”.
Accusa che ancora oggi respingo con sdegno.
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