Rischi di efficientismo e di burocratizzazione fecero capolino da un sondaggio interno. La chiusura di alcune associazioni parrocchiali. Il calo delle adesioni. Rapporti personali scoppiettanti. La polemica di un parroco e il duro giudizio di un altro sacerdote.
Spero che i
miei ricordi del periodo trascorso nell’AC diocesana non diano l’idea di una
situazione assolutamente ideale e sempre positiva. Ci furono momenti di crisi, alcune realtà non riuscivamo a modificarle
e poi si sa, non tutto andò sempre liscio; siamo uomini impastati di creta e
talvolta ci facciamo prendere la mano dalle nostre fregole. Ci furono momenti difficili: il
dispiacere per la messa in luce dei limiti nella nostra azione, per la fine di
alcune associazioni, per le adesioni che tendevano sempre a calare. Ci fu anche
il dolore per qualche screzio personale,
per le critiche sferzanti da parte di
alcuni sacerdoti, per un certo modo
di pensare tra le persone anche interne alle parrocchie.
Tra i primi
ricordo un’osservazione assai rilevante che emerse in seguito ad una verifica
personale e riservata che facemmo in prossimità del 1982 tra i consiglieri
diocesani e parrocchiali. La maggior parte delle risposte furono di
condivisione dell’azione diocesana, mentre alcune segnalavano che nel centro
diocesano stavamo marciando a tappe troppo forzate (facendo incontri, sfornando
documenti, materiali, iniziative) senza tener troppo conto del passo molto più
lento delle realtà parrocchiali.
Che forse
ero (eravamo) caduto (caduti) nel tranello dell’efficientismo? Avevamo
burocratizzato troppo il nostro rapporto con le associazioni di base? C’eravamo
chiusi nel Palazzo? Queste opportune puntualizzazioni non nego che ci fecero
soffrire.
Altri
momenti difficili furono legati alla chiusura di alcune associazioni. Ricordo
in particolare quella di Sorano, della quale conservo una lettera dell’allora
presidente Antonio Magliulo, nella quale egli esprimeva il suo profondo dolore
e la sua delusione. E poneva una pressante domanda a se stesso, a me, a “chiunque aveva gravitato in quegli anni
intorno alla parrocchia”: “perché si
è verificato questo?”.
Già,
perché? Perché non ci eravamo accorti di quel disagio e non avevamo quindi
posto in atto misure straordinarie?
Anche le
adesioni delle associazioni parrocchiali sono sempre state una nostra corona di
spine. Assai ballerine, purtroppo tendevano quasi sempre a diminuire. In realtà
vi era un discreto ricambio tra coloro che entravano e le persone che uscivano.
Tra il 1981 e il 1982 ad esempio uscirono 213 aderenti e ne entrarono 137. A
parte le articolazioni ACR da sempre caratterizzate da forte ricambio,
preoccupante fu l’uscita di 93 tra giovani e giovanissimi a fronte di un
ingresso di appena 16. Meno preoccupante poteva essere considerato il turnover
tra gli adulti (-41 e + 33) perché lo consideravamo come il ricambio tra chi
aveva perso stimoli e coloro che invece volevano intraprendere un nuovo
percorso.
Era un
fatto fisiologico oppure dipendeva dalla nostra azione insufficiente? Che
tradotto voleva dire: dalla nostra poca testimonianza di fede.
Nel secondo
gruppo di spine colloco situazioni che ebbero a che fare con i rapporti
personali.
Specie in
un certo periodo ci fu una piccola frizione con qualche membro del settore
giovani e credo che quegli eventi dipesero dai tratti caratteriali e dalla
difficoltà di mantenere una stabilità di rapporti. Ma se non era solo questo?
Se dipendeva da un deficit di attenzione e di valorizzazione da parte mia? La
cosa fu un pochino fastidiosa e provocò dispiacere in me e in altre persone.
Un altro
problema nacque con l’assistente parrocchiale dell’associazione di Poggioferro
che era, per così dire, suscettibile assai. Un articoletto di resoconto apparso
sulla pagina del settimanale diocesano Confronto – interamente dedicata ad
un’iniziativa da noi promossa tesa a favorire la “comunione fraterna tra le associazioni (!)” – paradossalmente
scatenò l’arrabbiatura di don Pietro Natali che si concretizzò in una
telefonata di fuoco e in una lettera piuttosto pepata. Alla quale risposi con
fermezza e rispetto mettendo sul tavolo anche le mie dimissioni. In realtà, nel
giugno 1983 avevo presentato per iscritto alla presidenza diocesana una breve
analisi sullo stato di salute delle associazioni parrocchiali. Essa si limitava
a registrare alcuni dati di fatto incontrovertibili e desumibili dall’analisi
dei comportamenti e degli atteggiamenti delle associazioni, dalla conoscenza
personale delle situazioni e dai dati numerici. Quello sguardo rivolto alle
associazioni parrocchiali, lungi dall’essere stato l’espressione di un giudizio
di assoluzione o condanna (e chi ero per poterlo esprimere), era invece
un’attenzione fraterna che faceva della franchezza la leva per consolidare le
cose buone e migliorare quello che ancora c’era di problematico. Ma si sa, la
franchezza ha pochi amici.
Comunque
anche inavvertitamente potevamo essere caduti nell’errore di giudicare lo zelo
apostolico delle associazioni e delle persone che ne facevano parte. E questo
mi lasciò un po’ di amaro in bocca.
Il giudizio di un altro sacerdote mi amareggiò molto. Fu quello di Don Girolamo Vagaggini. In risposta ad un questionario presentato dal nuovo Vescovo diocesano, Mons. Eugenio Binini, teso a saggiare il parere dei sacerdoti su quanto si faceva in diocesi, alla terza domanda relativa alle forme di cammino di fede presenti, egli il 12 dicembre 1984 rispondeva così: “l’esperienza maggiore in questo campo ci è offerta dall’Azione Cattolica diocesana, pur notando generosi e riusciti tentativi con altre organizzazioni (vedi P. S. Stefano, Carige e con ‘Gruppi ecclesiali’ in alcune parrocchie). L’AC è stata in questo campo un buon punto di riferimento in passato (parola sottolineata); oggi (sottolineato), a parte la buona volontà degli attuali dirigenti, mi sembra che si viva un clima di ghettizzazione familiare (entrambe le parole sottolineate). Forse sarà necessaria un’infusione di aria nuova, con un cambio quasi radicale dei dirigenti, perché l’Azione Cattolica esca dal guscio di alcune parrocchie e possa diventare veramente diocesana”. Osservazioni assolutamente legittime, s’intende. E in parte rispondenti al vero. Non venni a conoscenza della risposta perché riservata. Ma quando in seguito ho ritrovato tra le scartoffie questa lettera mi è molto dispiaciuto.
Ghettizzazione familiare, necessità
di un cambio quasi radicale dei dirigenti era un evidente atto di sfiducia nei
nostri confronti,
anche se quelle osservazioni l’ex-assistente diocesano non ce le aveva mai
dette guardandoci negli occhi. Si era rifugiato dietro una lettera riservata.
Pensai ai
motivi che potevano averlo indotto ad un giudizio così sferzante. Confesso che
ne trovai soltanto uno: non aveva ben digerito il nostro essere dalla parte del
vescovo D’Ascenzi e delle sue proposte pastorali, mentre lui ed altri
confratelli lo contrastarono quasi sin dall’inizio.
Ma non si
dà azione cattolica senza un legame strettissimo con il vescovo diocesano. Era
quello che noi avevamo fatto.
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