PITIGLIANO, 18 DEL
POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 d)
Riprendiamo il
ragionamento della volta scorsa con questa ultima lettera sul tema della
guerra, dirigendoci sommariamente – sotto la guida di Giulio Cesareo – verso questioni
più specifiche di etica normativa, nei confronti di taluni spinosi
problemi, che riguardano direttamente ciò che è negazione della pace.
• Il
dovere di limitare l’inumanità della guerra. Abbandonato, di fatto, il tono
profetico della condanna assoluta della guerra, così come era stata espressa in
Pacem in terris, si assume, invece,
come realtà l’esistenza dei conflitti armati e, a causa della potenza
distruttiva degli armamenti moderni, è più che mai necessario essere almeno in
grado di gestire e governare la ferocia dei conflitti, potenziando gli
strumenti giuridici internazionali di controllo già esistenti e istituendone di
nuovi. È il caso delle convenzioni sul trattamento dei prigionieri, dei feriti,
ecc.
“Esistono, in materia di guerra, varie
convenzioni internazionali, che un gran numero di nazioni ha sottoscritto per
rendere meno inumane le azioni militari e le loro conseguenze: tali sono le
convenzioni relative alla sorte dei militari feriti o prigionieri e varie
stipulazioni del genere” (GS
79).
• Si parla poi dell’obiezione di coscienza, che viene accettata dai Padri
Conciliari, anche se non con particolare entusiasmo. Il concilio Vaticano II si
pronuncia in modo più cauto, non prende posizione sulla verità oggettiva della
decisione dell’obiettore di coscienza e si limita a raccomandare un benevolo
trattamento giuridico nei suoi confronti da parte delle entità statali.
L’obiezione di
coscienza al servizio militare viene così per la prima volta citata in un documento
magisteriale: essa risulta priva, tuttavia, di ogni connotato e
caratterizzazione cristiana.
“Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi
provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano
l'uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio
della comunità umana” (GS 79).
Nella Gaudium et spes
l’obiezione è imposta per la guerra totale o altamente distruttiva, mentre
l’obiezione di coscienza nella legittima difesa o al servizio militare in tempo
di pace sono solo tollerate. Il documento invita i governanti ad avere
comprensione verso gli obiettori, ma non c’è una fondazione etico-teologica, o
biblica di questa esortazione.
Certo, sempre meglio,
molto meglio, dell’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della
Toscana che “…considerano un insulto alla
patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al
comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà” (11.02.1965) ai
quali rispose don Lorenzo Milani “…se ci
dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il
comandamento del Signore è ‘estraneo al comandamento cristiano dell'amore’
allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo
intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la
sofferenza degli obiettori, almeno tacete!” (Lettera di don Lorenzo Milani
ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell'11
Febbraio 1965).
• A causa della presente situazione dell’umanità,
segnata dal peccato e ancora priva di strumenti adeguati a evitare la guerra,
bisogna continuare a poter esercitare il
diritto alla legittima difesa, poiché uno dei compiti principali
dell’organizzazione nazionale è quella di tutelare la difesa e l’incolumità dei
propri cittadini.
La legittima difesa
(sia personale, sia in guerra), insieme alla pena di morte, secondo la dottrina
tradizionale, consiste in una sorta di deroga al comando “Non uccidere”. “Anzi, proprio se letto a partire da queste
eccezioni, tale divieto acquisterebbe in precisione semantica, dovendo essere
sostanzialmente inteso come divieto di uccidere l’innocente. […]
Non è
innocente, e cioè (oggettivamente) ‘colpevole’, l’ingiusto e violento
aggressore, colui che senza alcun fondamento (almeno legale) pone in pericolo
diritti essenziali della persona aggredita […] senza lasciarle possibilità alcuna
di difenderli se non una reazione caratterizzata da una violenza analoga (cioè
simmetrica) rispetto a quella causata dall’aggressore” (F. D’Agostino).
Difesa, tuttavia, non vuol dire attacco, non vuol dire
rappresaglia o vendetta: il fine della difesa, in altre parole, non rende
tutto lecito e, soprattutto, non autorizza all’uso di qualsiasi tipo di arma.
“E fintantoché esisterà il pericolo della guerra
e non ci sarà una autorità internazionale competente, munita di forze efficaci,
una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si
potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa” (GS 79).
Il Concilio Vaticano II
riafferma, dunque, il diritto di ogni stato ad una legittima difesa, una volta
esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, ma si nega che oggi tale principio possa
trovare ragionevole applicazione, nel senso che la distruttività della
guerra moderna, anche quella condotta con armi convenzionali, supera di gran
lunga i limiti di una legittima difesa.
• Anche l’esercito,
nella misura in cui i componenti agiscono nella legalità e nell’adempimento dei
loro compiti, è una realtà da apprezzare perché finalizzata all’edificazione
della pace.
“Coloro poi che, dediti al servizio della
patria, esercitano la loro professione nelle file dell'esercito, si
considerino anch'essi come ministri
della sicurezza e della libertà dei loro popoli e, se rettamente adempiono il
loro dovere, concorrono anch'essi veramente alla stabilità della pace” (GS 79).
→ Il testo della
Gaudium et spes poi prosegue ad una valutazione
etica di ciò che i vari Stati propongono come mezzi dissuasivi nei
confronti dei conflitti armati e della guerra in generale, vale a dire la corsa
al riarmo e la deterrenza nucleare.
• La corsa
agli armamenti non è valutata dal Concilio con particolare gravità: si
riconosce che ha un qualche valore effettivamente dissuasivo e deterrente ed è,
pertanto, ritenuta accettabile, anche se a denti stretti, sulla scia delle
affermazioni fatte in precedenza circa la legittimità della difesa armata e
della guerra, che può essere considerata, a volte, un male minore.
“Poiché infatti si ritiene che la solidità della
difesa di ciascuna parte dipenda dalla possibilità fulminea di rappresaglie,
questo ammassamento di armi, che va aumentando di anno in anno, serve in
maniera certo inconsueta, a dissuadere eventuali avversari dal compiere atti di
guerra. E questo è ritenuto da molti il mezzo più efficace per assicurare oggi
una certa pace tra le nazioni”
(GS 81).
Si evidenziano,
tuttavia, anche le contraddizioni di questo incessante incremento del
potenziale bellico.
Con esso, infatti, non
è ragionevole pensare al raggiungimento di una stabile pace, bensì, a lungo
termine, non condurrà a nient’altro che ad una catastrofe di dimensioni
mondiali.
“La corsa agli armamenti […] non è la via sicura
per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta
può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerra anziché venire
eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. […]
C'è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le
stragi, delle quali va già preparando i mezzi” (GS 81).
Si nota, inoltre, che
la continua produzione, ricerca, investimento di capitale finanziario e umano
in questa folle corsa alla costruzione di sempre più sofisticati strumenti di
morte, si dimostra gravemente ingiusta e intollerabile nei confronti dei poveri
del mondo, in modo speciale dei Paesi poveri del Terzo e Quarto Mondo.
“La corsa agli armamenti è una delle piaghe più
gravi dell'umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri” (GS 81).
• La deterrenza
nucleare è trattata nell’insieme del discorso sul riarmo. La prima
affermazione del numero 81, tuttavia, si riferisce direttamente alle armi di
distruzione di massa e, in primis, a quelle nucleari: “le armi scientifiche, è vero, non vengono accumulate con l'unica
intenzione di poterle usare in tempo di guerra”.
Viene dunque proposta
come discriminante, dal punto di vista etico, la distinzione morale tra il semplice
possesso (a fini dissuasivi) di armi di tipo Atomico-Biologico-Chimico (che
è dichiarato moralmente accettabile nella presente situazione
storico-politica), e il loro effettivo utilizzo, chiaramente condannato
al paragrafo precedente.
“Senza dubbio, ebbe a dire il card. B. J.
Alfrink, è necessario stabilire una distinzione tra il possesso delle armi e il
loro uso […] È necessario proclamare apertamente che l’unico rimedio contro
l’equilibrio del terrore sta nella diminuzione, poi nell’abolizione delle armi
moderne” (Fesquet).
Anche la deterrenza,
comunque, viene compresa come una realtà che deve essere di passaggio: il fine
da raggiungere è quello di una sicurezza fondata sulla fiducia e lealtà
internazionali. Su queste basi, poi, sarà possibile organizzare un vero e
proprio disarmo.
“È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno
sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l'accordo delle nazioni,
si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra” (GS 82).
→ In conclusione,
ritengo si possa dire che il passaggio
dalla posizione profetica della Pacem in
Terris a quella politica della
Gaudium et spes fu in parte legato alle contingenze geopolitiche del
periodo e certamente alle posizioni diversificate presenti all’interno dei
Padri conciliari.
Ma una qualche
influenza può averla avuta anche l’intervento di Paolo VI all’ONU - (Discorso
all’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 20° anniversario
dell’organismo, 4.10.1965) - che in
qualche modo deluse le attese di coloro che sostenevano una condanna completa
della guerra atomica, anche per ragioni di legittima difesa e della deterrenza
nucleare: “Tant que l'homme restera
l'être faible, changeant, et même méchant qu'il se montre souvent, les armes
défensives seront, hélas!, nécessaires”.
A partire da queste
affermazioni, è come se il Pontefice avallasse di fatto “la guerra come frutto irrimediabile del peccato e perciò tipico della
condizione attuale dell’uomo e della Chiesa” (Alberto Melloni).
Uno dei protagonisti di quell’assise, il card.
Giacomo Lercaro, nel suo intervento al Concilio presentato scritto dopo il 14
ottobre 1965, si posizionò tra coloro che avrebbero desiderato un testo più
audace perché più legato al Vangelo, nella promozione di una pace fondata sulla
fiducia in Cristo e non nella presunta protezione offerta dalle armi: “Così la Chiesa non può neanche
interinalmente ratificare i discorsi umani sull’equilibrio del terrore […].
Deve invece dire a tutti i possessori di quelle armi che non è lecito produrle
e conservarle e che hanno l’obbligo categorico di giungere assolutamente e
subito […] alla distruzione simultanea e totale di esse. Questo è il compito
della Chiesa”.
Egli riteneva, infatti, che fossero
assolutamente illeciti non solo l’uso, ma anche il possesso e la produzione di
armi nucleari, perché esse, con la loro potenza, ponevano le nazioni
nell’occasione prossima di compiere gravissimi delitti contro l’umanità; in
secondo luogo sosteneva che, raggiunto quello stadio di sviluppo tecnologico, la
guerra e la legittima difesa dovessero essere totalmente bandite.
Ciò
non toglie che le affermazioni forti di Gaudium et spes restano e
continuano ad avere il loro peso e hanno motivato e spingeranno la ricerca e
l’approfondimento.
E provvidenzialmente il
paragrafo 5 del discorso di Paolo VI all’ONU si era aperto con le parole,
profetiche e realiste – “Jamais plus la
guerre, jamais plus la guerre! C'est la paix, la
paix, qui doit guider le destin des peuples et de toute l'humanité!”.
Stefano Gentili