Toscana Oggi Confronto mi ha chiesto un ricordo del
Vecovo Giovanni D’Ascenzi, recentemente defunto.
Riporto
il testo dell’intervista, fatta da Giovanni Gentili, e apparsa questa settimana
sulle pagine del nostro settimanale diocesano (con qualche piccolissima
variante che, probabilmente, non è entrata nello spazio del giornale) e
titolata IL PENSIERO UNITO AL FARE.
Abbiamo chiesto una intervista di
ricordo del Vescovo Giovanni D’Ascenzi a Stefano Gentili, di fatto uno dei
laici che vi operò a più stretto contatto, in ragione della sua nomina a
presidente diocesano dell’Azione Cattolica avvenuta nel 1976 e durata per tutto
il periodo della sua permanenza in diocesi.
Stefano, che ricordo porti con te
del Vecovo Giovanni D’Ascenzi?
Lo
ricordo con un affetto ancora molto vivo. Fu Vescovo illuminato della nostra
diocesi nel delicato e strategico periodo 1975-1983. Ricordo il suo ingresso il
21 dicembre 1975, in
un pomeriggio piuttosto freddo e le sue prime parole sopra un palco in Piazza
della Repubblica. E ricordo la sua uscita verso la diocesi di Arezzo, una mattina
con appena una piccola valigia di indumenti personali, accompagnato da me e
pochi altri. I saluti ufficiali (mi sembra di ricordare piuttosto freddi) li
aveva ricevuti in precedenza. Eppure, nessuno come lui aveva tentato di
modificare radicalmente il modo di evangelizzare della nostra Chiesa diocesana.
E fu grazie a lui, alla sua intelligenza, che ci si consolidò come diocesi.
In che senso consolidò la diocesi?
In quel
periodo si pose fine alle amministrazioni apostoliche, iniziate dopo la morte
del Vescovo Luigi Pirelli nel 1964, e la nostra terra ebbe di nuovo un Vescovo
tutto per sé. Grazie a ciò la diocesi prese consistenza territoriale - dopo
aver lasciato sul campo le parrocchie di Alberese e Rispescia (11.02.1976) -
dapprima, con l’inclusione delle parrocchie di S. Fiora, Bagnolo e Bagnore
(28.10.1977), poi con l’aggiunta dell’Abbazia delle Tre Fontane (10.06.1981) -
e specie con quest’ultima operazione - assunse una fisionomia definitiva che
successivi scossoni non sono stati in grado di modificare.
Hai detto che il Vescovo D’Ascenzi cercò
di modificare profondamente il modo di evangelizzare. Spiegati meglio.
Rispetto
alla situazione ecclesiale piuttosto stagnate e in declino che si trovò
dinanzi, Monsignor D’Ascenzi dette la sveglia e provocò una forte scossa
tellurica.
Specie
attraverso i Convegni di Palidoro (ma anche quelli successivi di Triana,
Pitigliano, Orbetello) l’azione della nostra Chiesa fu messa a ferro e a fuoco,
nel senso che tutta la sua pastorale fu sottoposta ad un vaglio molto accurato
e furono individuati i passi idonei a produrre il cambiamento. Interessante
sarebbe rileggere quei documenti che prevedevano una nuova mentalità,
soprattutto nel clero, che in larga parte si trovò impreparato.
Si parlava
di passare dalla sacramentalizzazione alla evangelizzazione, vivere una
liturgia rinnovata e carica di significati, prestare attenzione al primo
annuncio e ad una catechesi adeguata ai tempi (vi fu il varo del direttorio
catechistico e l’organizzazione di Corsi biblici: lo ricordo uno a Triana con
il famoso biblista fiorentino, Valerio Mannucci), di individuare una specifica terapia
per la evangelizzazione della popolazione di campagna, allora ancora numerosa, di
spingere la Chiesa a dialogare e confrontarsi con il mondo moderno alla luce
della propria visione dell’uomo, dare il giusto spazio ai laici, visti in primo
luogo come trasformatori del mondo. Di far passare l’idea che la dottrina
sociale cristiana era parte essenziale dell’evangelizzazione (quanti momenti
formativi vi furono!), creare spazi e luoghi per una elaborazione culturale di
ispirazione cristiana (nel 1981 nacque il settimanale diocesano ‘Confronto’ e
decollarono i Centri culturali Fortezza Orsini di Pitigliano, Tre Fontane di Orbetello
e Silvio Piccolomini di Triana).
Poi di rianimare
l’attività delle parrocchie e favorire l’avvio della pastorale d’ambiente,
specie nel campo del lavoro e della scuola e in tal senso riorganizzare la
collocazione degli stessi sacerdoti. Di valorizzare il carisma dei religiosi e
delle religiose e affermare la centralità della diocesanità, piuttosto assente
in quel periodo.
E i laici furono coinvolti?
Non poche
di quelle azioni prevedevano il coinvolgimento diretto dei laici e delle loro
organizzazioni, Azione Cattolica in primis, ma anche di categoria (maestri,
insegnanti, universitari, medici, lavoratori) sia nella fase della
testimonianza che in quella della elaborazione pastorale: videro la luce i
primi Consigli Pastorali Diocesani, composti da molti laici, anche di
provenienza, per così dire, extra-moenia. Il primo del 1977 era articolato in
20 sacerdoti, 6 suore e 27 laici, oltre al Vescovo. Per allora fu una vera
rivoluzione. Ricordo non pochi volti spaesati e altri piacevolmente sorpresi. E
poi, la Triana.
Cioè, vuoi dire i campi scuola
diocesani.
Si, il
Vescovo D’Ascenzi riuscì ad ottenere, credo in comodato d’uso, il suggestivo
Castello di Triana, dove l’Azione Cattolica iniziò nel 1978 ad organizzare i
campi scuola diocesani.
E quelle
esperienze furono fondamentali per la fede di molti ragazzi e giovani: da
quell’anno alla metà degli anni ’90 sono transitati alla Triana una media di
250 ragazzi all’anno.
Lì
maturarono decisioni e impegni che condussero un bel gruppo di giovani, oggi
adulti, ad acquisire perlomeno una forma mentis conciliare ed a trasferirla nei
gruppi parrocchiali, allora di una certa consistenza numerica. Presero corpo
vocazioni alla vita laicale adulta e trovarono spazio quelle di speciale
consacrazione, come quella della segretaria diocesana del movimento studenti di
azione cattolica, Franca Lacchini, poi diventata monaca di clausura.
Ho sentito dire che alcuni lo
ricordano più come un vescovo politico, non nel senso partitico, ma molto
orientato sul sociale. C’è del vero?
Intendiamoci,
Giovanni D’Ascenzi fu in primo luogo un pastore connotato da una forte
spiritualità, ma lo fu seguendo i doni che la provvidenza gli aveva concesso.
E lui, un
po’ per la sua precedente esperienza nel mondo rurale (assistente ecclesiastico
nazionale della Coltivatori Diretti) giunta sino al livello internazionale, un
po’ per i dettami conciliari, voleva una chiesa diocesana più intraprendete,
aperta al mondo, non chiusa in sacrestia e in azioni di culto sempre meno vissute.
Anche a
noi giovani di azione cattolica, che pure ci trattava come figli, più volte ci
rimproverò chiamandoci “quelli della chitarra”, per segnalare il rischio che la
nostra fede si curvasse pericolosamente in atteggiamenti esclusivamente
intimistici, allora piuttosto di moda in campo ecclesiale.
Tanto per
dire della sua sensibilità, ricordo un episodio apparentemente curioso: durante
la predicazione a Triana degli esercizi spirituali ai giovani, nel poco tempo
libero che aveva, lo rammento con in mano con un testo di Luigi Sturzo.
Sacerdote si, ma che sacerdote!
In concreto quali azioni
intraprese?
Nel
settembre del 1977 favorì addirittura la costituzione del Comitato Permanente
per la promozione socio-culturale della montagna amiatina, alla luce della
perdurante crisi economica e occupazionale di quella zona. Nel marzo 1979 una serie di interessanti
conversazioni sull’occupazione giovanile, l’Europa e di natura religiosa videro
la presenza di relatori d’eccezione, come Giuseppe De Rita, Cesare Dall’Oglio,
Mario I. Castellano, Pietro Pavan.
Tutte
cose che ai più interni all’ambiente ecclesiastico, a iniziare dalla grande
maggioranza dei sacerdoti, apparvero eccentriche nel senso di marginali,
periferiche, bizzarre, rispetto al cuore dell’evangelizzazione. Ma tu pensa!
In realtà,
riuscì ad aprire canali comunicativi con molte persone allora considerate
extra-ecclesiam, anzi alcune contra-ecclesiam e lo fece interessandosi della
vita reale della gente organizzando, tra l’altro, corsi per la viticoltura,
l’agricoltura, l’arte del ferro e del legno, del restauro murario. Era un modo
per riaffermare la centralità del lavoro per la dignità della persona ed un
segnale alla sua Chiesa di prestarvi le dovute attenzioni. E poi chissà quanto
questo suo interessamento ha favorito ripensamenti, avvicinamenti, quanto meno
dubbi, nel campo della fede e della stessa chiesa.
Alcuni ricordano ancora un grande
convegno di laici cattolici impegnati nel socio-politico. Che ricordi hai?
Ho il
ricordo della fatica di dattiloscrivere gli opuscoli che si consegnarono e
delle telefonate del Vescovo sin dalle 6,00 della mattina. Era molto
mattiniero. Penso si alzasse alle 4,00.
Questo primo incontro di laici cattolici (corredato da due opuscoli dai titoli
significativi: “Per una presenza attiva ed efficace della nostra Chiesa nella
società” e “Missione dei laici nella Chiesa e nella società”) ebbe luce nel
marzo 1982. In
quella occasione il Vescovo – dopo avere
enucleato una serie di problemi della nostra zona (invecchiamento,
disoccupazione-emigrazione giovanile, denatalità, distacco tra sociale e
politico) – ricordava: “mio dovere è denunciare i problemi e suscitare la
vostra sensibilità all’impegno serio per risolverli con spirito di servizio per
amore della giustizia”. Ed invitava i laici cristiani a “conoscere bene, e
perciò studiare, lo squilibrio e le distorsioni presenti nel nostro territorio,
ricercarne le cause vere e profonde, così da proporre rimedi efficaci”, ad
“acquisire una conoscenza adeguata della Dottrina sociale della Chiesa” ed a
“lavorare uniti per una presenza efficace”.
E i cattolici impegnati seguirono
quelle indicazioni?
Direi
proprio di no, purtroppo.
Però, la nostra Chiesa si apriva al mondo, al sociale, alle professioni,
spingeva per la creazione di cooperative giovanili, dialogava e sfidava il
mondo della politica sia nella parte più istituzionale, allora egemonizzata da
personale comunista e socialista, che in quello partitico con l’allora naturale
riferimento alla DC sempre più in fase declinante.
Con in mano la dottrina sociale cristiana – presentata in diversi corsi o
giornate di riflessione e aggiornamento - la Chiesa diocesana, specie nel suo
vertice - appariva all’avanguardia anche rispetto a chi aveva fatto fino allora
del progresso e dell’uguaglianza il proprio vessillo.
Qualcun altro lo rammenta come
uomo del fare.
Si è
vero, era un uomo che faceva, realizzava anche strutture o le restaurava. Ma
tutte a servizio della comunità ecclesiale o civile, delle parrocchie, dei
giovani. Basti ricordare a Pitigliano il restauro della Chiesa di San Rocco, il
complesso restauro della Cattedrale improvvisamente crollata nel 1977, della
canonica attigua, della Casa del Giovane, la creazione dell’Oratorio del
Getsemani, il pressoché totale recupero del Cassero del Palazzo e delle altre strutture
della Fortezza Orsini, il restauro dei ruderi di San Francesco. Poi il recupero
e la sistemazione integrale del Castello della Triana, la ristrutturazione
della casa canonica di Porto Ercole, l’acquisizione della Villa di Valentano a
servizio del Seminario diocesano, il progetto (e la posa della prima pietra)
della nuova Chiesa e delle opere parrocchiali del quartiere di Neghelli ad
Orbetello, la ricostruzione della Chiesa di Poggioferro.
E, sia
chiaro, tutte queste strutture le voleva ad opera d’arte, perché mons.
D’Ascenzi aveva anche una spiccata sensibilità per il bello e il ben fatto.
Alcune volte lo ricordo (e altre lo immagino) mentre rimbrottava e consigliava
architetti, muratori, falegnami, fabbri perché facessero opere le più belle
possibili e a prezzi contenuti o anche gratis.
Del rapporto tra Vescovo e
sacerdoti cosa ricordi?
Da parte
del Vescovo, per quello che potei notare, oltre all’affetto paterno di cui non
posso dubitare, vi fu attenzione alle loro esigenze personali (con importanti
momenti formativi) e logistiche (sistemazione di strutture parrocchiali
fatiscenti), ma anche molta franchezza e potestà decisionale. Non pochi furono gli
spostamenti di sede di parroci per il bene della diocesi e delle singole
parrocchie. Nei documenti di Palidoro si parlava anche di un argomento delicato
come quello della perequazione economica tra sacerdoti.
Azioni
che ad alcuni piacquero, ma che ad altri rimasero sullo stomaco. Ma si sa, chi
governa decide, chi decide sceglie, chi sceglie talora scontenta.
Insomma che bilancio faresti?
Non sono
in grado di fare un bilancio, perché per molti tratti è misterioso: cosa ne so
io, ad esempio, l’effetto che nel cuore delle persone hanno avuto le tante sue
bellissime prediche, le sue opere di carità, i consigli e gli aiuti che
elargiva. Il suo modo di porsi si muoveva tra atteggiamenti cordiali e
raffinati e altri piuttosto ruvidi e schietti. Se doveva dirti che una cosa non
andava bene, non lo mandava a dire e l’affetto lo dimostrava più con i fatti
che con le parole.
Di lui si
può dire che “agiva come un uomo di pensiero e pensava come un uomo di azione”.
Di quel
frangente posso solo ricordare che l’entusiasmo fu tanto specie dai parte dei
laici e della gente comune, la sorpresa per la sua azione fu enorme e le
resistenze lo furono altrettanto. Non mi sorpresero quelle esterne, mi colpirono
quelle interne.
Rimpianti?
No, il
rimpianto non è contemplato nel vocabolario cristiano.
Io e Rossella gli abbiamo voluto molto bene e abbiamo collaborato con lui con gioia
e imparando molto nel campo della fede, credo che anche lui ci abbia voluto
bene: ci ha lasciato in dono, a me un rosario, a Rossella una Madonna con
bambino.
Anche
allora, noi giovani di Azione Cattolica, per bocca di Rossella, in un incontro
di congedo al Santuario del Cerreto (nel maggio 1983) lo salutammo con le
parole di Giobbe: “Così piacque al Signore, così è avvenuto: sia benedetto il
nome del Signore”.
Con le
stesse parole accogliemmo il suo successore.
Stefano
Gentili