venerdì 9 ottobre 2020

IL VESCOVO GIOVANNI D’ASCENZI: AGIVA COME UN UOMO DI PENSIERO E PENSAVA COME UN UOMO DI AZIONE

Eh sì, io e Rossella il vescovo Giovanni l’abbiamo considerato come un padre nella fede, nella rettitudine, nella dedizione, nella capacità di leggere i segni dei tempi, nel desiderio di evangelizzare il popolo.

Io e Rossella gli abbiamo voluto molto bene e abbiamo collaborato con lui con gioia e imparando molto; credo che anche lui ci abbia voluto bene: ci ha lasciato in dono a me un rosario, a Rossella una Madonna con bambino.

Nel maggio 1983, dopo la notizia del suo trasferimento a Vescovo di Arezzo-Cortona-San Sepolcro dell’11 aprile, noi giovani di Azione Cattolica, per bocca di Rossella, in un incontro di congedo al Santuario del Cerreto lo salutammo con le parole di Giobbe: “Così piacque al Signore, così è avvenuto: sia benedetto il nome del Signore”.

Con le stesse parole accogliemmo il suo successore, Eugenio Binini.

Nato il 6 gennaio 1920 a Valentano, muore a 93 anni il 26 febbraio 2013. Nel marzo di quell’anno il direttore del settimanale diocesano, don Mariano Landini, mi fece un’intervista per ricordare il vescovo scomparso. La riporto perché vi è annotato quello che pensavo di lui. E il Vescovo Giovanni è certamente una persona da rammentare nell’amarcord de “Il bianco di Pitigliano”.

Stefano, che ricordo porti con te del Vescovo Giovanni D’Ascenzi?

Lo ricordo con un affetto ancora molto vivo. Fu Vescovo illuminato della nostra diocesi nel delicato e strategico periodo 1975-1983. Ricordo, dopo la sua elezione del 7 ottobre 1975, il suo ingresso il 21 dicembre, in un pomeriggio piuttosto freddo e le sue prime parole sopra un palco in Piazza della Repubblica. E ricordo la sua uscita verso la diocesi di Arezzo, una mattina di gennaio del 1984 con appena una piccola valigia di indumenti personali, accompagnato da me e pochi altri. I saluti ufficiali (mi sembra di ricordare piuttosto freddi) li aveva ricevuti in precedenza. Eppure, nessuno come lui aveva tentato di modificare radicalmente il modo di evangelizzare della nostra Chiesa diocesana. E fu grazie a lui, alla sua intelligenza, che ci si consolidò come diocesi.

 In che senso consolidò la diocesi?

In quel periodo si pose fine alle amministrazioni apostoliche, iniziate dopo la morte del Vescovo Luigi Pirelli nel 1964, e la nostra terra ebbe di nuovo un Vescovo tutto per sé. Grazie a ciò la diocesi prese consistenza territoriale - dopo aver lasciato sul campo le parrocchie di Alberese e Rispescia (11.02.1976) - dapprima, con l’inclusione delle parrocchie di S. Fiora, Bagnolo e Bagnore (28.10.1977), poi con l’aggiunta dell’Abbazia delle Tre Fontane (10.06.1981) - e specie con quest’ultima operazione - assunse una fisionomia definitiva che successivi scossoni non sono stati in grado di modificare.

Hai detto che il Vescovo D’Ascenzi cercò di modificare profondamente il modo di evangelizzare. Spiegati meglio.

Rispetto alla situazione ecclesiale piuttosto stagnate e in declino che si trovò dinanzi, Monsignor D’Ascenzi dette la sveglia e provocò una forte scossa tellurica. Specie attraverso i Convegni di Palidoro (ma anche quelli successivi di Triana, Pitigliano, Orbetello) l’azione della nostra Chiesa fu messa a ferro e a fuoco, nel senso che tutta la sua pastorale fu sottoposta ad un vaglio molto accurato e furono individuati i passi idonei a produrre il cambiamento. Interessante sarebbe rileggere quei documenti che prevedevano una nuova mentalità, soprattutto nel clero, che in larga parte si trovò impreparato.

Si parlava di passare dalla sacramentalizzazione alla evangelizzazione, vivere una liturgia rinnovata e carica di significati, prestare attenzione al primo annuncio e ad una catechesi adeguata ai tempi (vi fu il varo del direttorio catechistico e l’organizzazione di Corsi biblici: lo ricordo uno a Triana con il famoso biblista fiorentino, Valerio Mannucci), di individuare una specifica terapia per la evangelizzazione della popolazione di campagna, allora ancora numerosa, di spingere la Chiesa a dialogare e confrontarsi con il mondo moderno alla luce della propria visione dell’uomo, dare il giusto spazio ai laici, visti in primo luogo come trasformatori del mondo. Di far passare l’idea che la dottrina sociale cristiana era parte essenziale dell’evangelizzazione (quanti momenti formativi vi furono!), creare spazi e luoghi per una elaborazione culturale di ispirazione cristiana (nel 1981 nacque il settimanale diocesano ‘Confronto’ e decollarono i Centri culturali Fortezza Orsini di Pitigliano, Tre Fontane di Orbetello e Silvio Piccolomini di Triana). Poi di rianimare l’attività delle parrocchie e favorire l’avvio della pastorale d’ambiente, specie nel campo del lavoro e della scuola e in tal senso riorganizzare la collocazione degli stessi sacerdoti. Di valorizzare il carisma dei religiosi e delle religiose e affermare la centralità della diocesanità, piuttosto latitante in quel periodo.

E i laici furono coinvolti?

Non poche di quelle azioni prevedevano il coinvolgimento diretto dei laici e delle loro organizzazioni, Azione Cattolica in primis, ma anche di categoria (maestri, insegnanti, universitari, medici, lavoratori) sia nella fase della testimonianza che in quella della elaborazione pastorale: videro la luce i primi Consigli Pastorali Diocesani, composti da molti laici, anche di provenienza, per così dire, extra-moenia. Il primo del 1977 era articolato in 20 sacerdoti, 6 suore e 27 laici, oltre al Vescovo. Per allora fu una vera rivoluzione. Ricordo non pochi volti spaesati e altri piacevolmente sorpresi. E poi, la Triana.

Cioè, vuoi dire i campi scuola diocesani.

Si, il Vescovo D’Ascenzi riuscì ad ottenere, credo in comodato d’uso, il suggestivo Castello di Triana, dove l’Azione Cattolica iniziò nel 1978 ad organizzare i campi scuola diocesani. E quelle esperienze furono fondamentali per la fede di molti ragazzi e giovani: da quell’anno al 1993 sono transitati alla Triana una media di 250 ragazzi all’anno.

Ho sentito dire che alcuni lo ricordano più come un vescovo politico, non nel senso partitico, ma molto orientato sul sociale. C’è del vero?

Intendiamoci, Giovanni D’Ascenzi fu in primo luogo un pastore connotato da una forte spiritualità, ma lo fu seguendo i doni che la provvidenza gli aveva concesso.

E lui, un po’ per la sua precedente esperienza nel mondo rurale (consigliere ecclesiastico nazionale della Coltivatori Diretti) giunta sino al livello internazionale, un po’ per i dettami conciliari, voleva una chiesa diocesana più intraprendete, aperta al mondo, non chiusa in sacrestia e in azioni di culto sempre meno vissute. Anche a noi giovani di azione cattolica, che pure ci trattava come figli, più volte ci rimproverò chiamandoci “quelli della chitarra”, per segnalare il rischio che la nostra fede si curvasse pericolosamente in atteggiamenti esclusivamente intimistici, allora piuttosto di moda in campo ecclesiale. Tanto per dire della sua sensibilità, ricordo un episodio apparentemente curioso: durante la predicazione a Triana degli esercizi spirituali ai giovani, nel poco tempo libero che aveva, lo rammento con in mano un testo di Luigi Sturzo. Sacerdote sì, ma che sacerdote!

In concreto quali azioni intraprese?

Nel settembre del 1977 favorì addirittura la costituzione del Comitato Permanente per la promozione socio-culturale della montagna amiatina, alla luce della perdurante crisi economica e occupazionale di quella zona.  Nel marzo 1979 avviò una serie di interessanti conversazioni sull’occupazione giovanile, l’Europa e di natura religiosa: videro la presenza di relatori d’eccezione, come Giuseppe De Rita, Cesare Dall’Oglio, Mario I. Castellano, Pietro Pavan.

Tutte cose che ai più interni all’ambiente ecclesiastico, a iniziare dalla grande maggioranza dei sacerdoti, apparvero eccentriche nel senso di marginali, periferiche, bizzarre, rispetto al cuore dell’evangelizzazione. Ma tu pensa! In realtà, riuscì ad aprire canali comunicativi con molte persone allora considerate extra-ecclesiam, anzi alcune contra-ecclesiam e lo fece interessandosi della vita reale della gente organizzando, tra l’altro, corsi per la viticoltura, l’agricoltura, l’arte del ferro e del legno, del restauro murario. Era un modo per riaffermare la centralità del lavoro per la dignità della persona ed un segnale alla sua Chiesa di prestarvi le dovute attenzioni. E poi chissà quanto questo suo interessamento ha favorito ripensamenti, avvicinamenti, quanto meno dubbi, nel campo della fede e della stessa chiesa.

Alcuni ricordano ancora un grande convegno di laici cattolici impegnati nel socio-politico. Che ricordi hai?

Ho il ricordo della fatica di dattiloscrivere gli opuscoli che si consegnarono e delle telefonate del Vescovo sin dalle 6,00 della mattina. Era molto mattiniero. Penso si alzasse alle 4,00.
Questo primo incontro di laici cattolici (corredato da due opuscoli dai titoli significativi: “Per una presenza attiva ed efficace della nostra Chiesa nella società” e “Missione dei laici nella Chiesa e nella società”) ebbe luce nel marzo 1982. In quella occasione il Vescovo – dopo avere enucleato una serie di problemi della nostra zona (invecchiamento, disoccupazione-emigrazione giovanile, denatalità, distacco tra sociale e politico) – ricordava: “mio dovere è denunciare i problemi e suscitare la vostra sensibilità all’impegno serio per risolverli con spirito di servizio per amore della giustizia”. Ed invitava i laici cristiani a “conoscere bene, e perciò studiare, lo squilibrio e le distorsioni presenti nel nostro territorio, ricercarne le cause vere e profonde, così da proporre rimedi efficaci”, ad “acquisire una conoscenza adeguata della Dottrina sociale della Chiesa” ed a “lavorare uniti per una presenza efficace”.

E i cattolici impegnati seguirono quelle indicazioni?

Direi proprio di no, purtroppo.
Però, la nostra Chiesa si apriva al mondo, al sociale, alle professioni, spingeva per la creazione di cooperative giovanili, dialogava e sfidava il mondo della politica sia nella parte più istituzionale, allora egemonizzata da personale comunista e socialista, che in quello partitico con l’allora naturale riferimento alla DC sempre più in fase declinante.
Con in mano la dottrina sociale cristiana – presentata in diversi corsi o giornate di riflessione e aggiornamento - la Chiesa diocesana, specie nel suo vertice - appariva all’avanguardia anche rispetto a chi aveva fatto fino allora del progresso e dell’uguaglianza il proprio vessillo.

Qualcun altro lo rammenta come uomo del fare.

Si è vero, era un uomo che faceva, realizzava anche strutture o le restaurava. Ma tutte a servizio della comunità ecclesiale o civile, delle parrocchie, dei giovani. Basti ricordare a Pitigliano i molteplici lavori al Seminario vescovile, il restauro della Chiesa di San Rocco, il complesso restauro della Cattedrale improvvisamente crollata nel 1977, della canonica attigua, della Casa del Giovane, la creazione dell’Oratorio del Getsemani, il pressoché totale recupero del Cassero del Palazzo e delle altre strutture della Fortezza Orsini, il restauro dei ruderi di San Francesco, i lavori nella scuola materna. Poi il recupero e la sistemazione integrale del Castello della Triana, la ristrutturazione della casa canonica di Porto Ercole, di Sovana e della Chiesa dell’Immacolata al Valle di P.S. Stefano, l’acquisizione della Villa di Valentano a servizio del Seminario diocesano, il progetto (e la posa della prima pietra) della nuova Chiesa e delle opere parrocchiali del quartiere di Neghelli ad Orbetello e lavori per l’appartamento delle suore e altro nel Palazzo Abbaziale di Orbetello, la ricostruzione della Chiesa di Poggioferro e poi i cantieri di lavoro in molte altre parrocchie. Non sfugga che furono messi in circuito alcuni miliardi di lire, pagate oltre 20.000 giornate lavorative, provocato un commercio di materiale di oltre 250 milioni. Decine di milioni uscirono dalla tasca sua.

E, sia chiaro, tutte queste strutture le voleva ad opera d’arte, perché mons. D’Ascenzi aveva anche una spiccata sensibilità per il bello e il ben fatto. Alcune volte lo ricordo (e altre lo immagino) mentre rimbrottava e consigliava architetti, muratori, falegnami, fabbri perché facessero opere le più belle possibili e a prezzi contenuti o anche gratis.

Del rapporto tra Vescovo e sacerdoti cosa ricordi?

Da parte del Vescovo, per quello che potei notare, oltre all’affetto paterno di cui non posso dubitare, vi fu attenzione alle loro esigenze personali (con importanti momenti formativi) e logistiche (sistemazione di strutture parrocchiali fatiscenti), ma anche molta franchezza e potestà decisionale. Non pochi furono gli spostamenti di sede di parroci per il bene della diocesi e delle singole parrocchie. Nei documenti di Palidoro si parlava anche di un argomento delicato come quello della perequazione economica tra sacerdoti. Azioni che ad alcuni piacquero, ma che ad altri rimasero sullo stomaco. Ma si sa, chi governa decide, chi decide sceglie, chi sceglie talora scontenta.

Insomma che bilancio faresti?

Non sono in grado di fare un bilancio, perché per molti tratti è misterioso: cosa ne so io, ad esempio, l’effetto che nel cuore delle persone hanno avuto le tante sue bellissime prediche, le sue opere di carità, i consigli e gli aiuti che elargiva. Il suo modo di porsi si muoveva tra atteggiamenti cordiali e raffinati e altri piuttosto ruvidi e schietti. Se doveva dirti che una cosa non andava bene, non lo mandava a dire e l’affetto lo dimostrava più con i fatti che con le parole.

Di lui si può dire che agiva come un uomo di pensiero e pensava come un uomo di azione.

Di quel frangente posso solo ricordare che l’entusiasmo fu tanto specie da parte dei laici e della gente comune, la sorpresa per la sua azione fu enorme e le resistenze lo furono altrettanto. Non mi sorpresero quelle esterne, mi colpirono quelle interne.



Il Vescovo Giovanni D'Ascenzi

Il Vescovo Giovanni con Don Giorgio Gubernari 

1977 - Incontro a Pitigliano con il sociologo di fama internazionale Mons. Pietro Pavan



1994 - Il Vescovo Giovanni riceve il Papa Giovanni Paolo II ad Arezzo 







lunedì 5 ottobre 2020

DON LEOPOLDO: L’ANSIA DI ANNUNCIARE IL VANGELO

Anche don Leopoldo Genovesi è uno dei sacerdoti che la Provvidenza ha posto sulla mia strada. L’ho avuto vicino sin da ragazzetto: ci seguiva come aspiranti e nel 1971 mi fece fare la prima esperienza di un campo scuola a Gerfalco.

Tante volte è entrato in contatto con me, specie dopo la malattia, assicurando la preghiera e l’affetto. E così fa con tutti. Quando penso a lui vedo il suo volto sorridente e leggo l’ansia che lo ha sempre posseduto: quella dell’annuncio del Vangelo. Ringrazio il Provvidente e prego che ce lo mantenga a lungo.

L’occasione dei suoi 50 anni di sacerdozio mi ha spinto a fargli una piccola intervista e lui mi ha subito detto che la pandemia non gli ha permesso di assistere ai momenti formativi nella sala conferenze del seminario, di continuare a fare le ripetizioni di latino e accompagnare spiritualmente le persone. Ma non gli ha certo impedito di pregare per tutti e per ciascuno. È ancora interiormente tonico don Leopoldo Genovesi, nonostante la carrozzina lo accompagni da 12 anni e la malattia non gli faccia tanti sconti.

La sua è stata una vocazione adulta. Nato l’8 novembre 1937 a Magliano Sabina è diventato sacerdote di santa romana chiesa nel 1970, all’età di 33 anni. Fu incardinato nella nostra diocesi di Sovana-Pitigliano (si chiamava così), perché Alberese, insieme a Rispescia ne facevano parte.

Don Leopoldo, mi parli della sua vita prima del 1970.

Sono figlio unico, molto seguito specie dalla mamma Rosa e poco dopo la nascita mi son trovato ad Alberese, dove la famiglia si era dovuta spostare per il lavoro di mio babbo Lamberto. Ho fatto le elementari ad Alberese e le medie a Grosseto: lì ho iniziato Ragioneria sino al secondo anno, quando sono stato bocciato e trasferito in un collegio a Roma per concludere gli studi. Facevo la vita di tutti i ragazzi: frequentavo il bar e il ballo ad Alberese, giocavo a calcio, anche come riserva nella prima squadra e non andavo in chiesa.

Si è mai innamorato?

Proprio innamorato no, ma ho provavo qualche sincera simpatia.

Cosa accadde per farle intraprendere la strada del sacerdozio?

Ricordo che iniziai a sfogliare un vangelo che aveva portato un missionario e verso i 18 anni lessi un libro che illustrava i problemi della vita ponendo le domande esistenziali. Cominciai a chiedermi: la mia vita cosa vale? Perché si vive, soffre, muore? E dopo cosa c’è? Non ero contento della vita che conducevo. Specie dal periodo del collegio notai che desideravo fare cose diverse da quelle degli altri ragazzi. Poi, un giorno il mio parroco mi disse: ‘Perché non vai in seminario’?

E la sua risposta?

Nei primi anni ’60 entrai in seminario a Pitigliano. Era il tempo del vescovo Pacifico Giulio Vanni e del rettore don Ruggero Bancalà: per due anni, grazie anche a don Aldo Vagaggini, approfondii il latino, il greco e l’ebraico che non avevo studiato a ragioneria. Poi fui inviato in seminario ad Arezzo a seguire 5 anni di teologia, terminati con la vestizione a Pitigliano. Il percorso si concluse con l’ordinazione del 17 gennaio 1970, celebrata ad Alberese ad opera del Vescovo ausiliare Renato Spallanzani, insieme al parroco don Filippo Cornali. E la prima messa il giorno dopo l’andai a celebrare a Collevalenza.

A proposito di Collevalenza. Perché questo suo rapporto così viscerale con Madre Speranza di Gesù e i Figli dell’Amore misericordioso?

Avevo sentito parlare di lei e del suo carisma e andai ad affidargli mamma Rosa gravemente malata. Promise una intensa preghiera per lei, ma mi disse che non sarebbe guarita. Tornai da lei dopo la morte della mamma e Madre Speranza mi disse che mamma Rosa era in paradiso. Tempo dopo quando la mia salute cominciava ed essere accidentata sono stato di nuovo da lei e Madre Speranza mi disse che mia mamma stava cercando preghiere per me. Addirittura era andata anche da lei a cercare preghiere. Sono rimasto molto legato alla Congregazione anche dopo la morte di Madre Speranza e c’ho portato tantissime persone. Il suo messaggio che Dio è misericordioso è stupendo e può aprire i cuori di tutti.

Facciamo un passo in dietro, perché dunque decise per la strada del sacerdozio?

Perché secondo me rispondeva ai problemi della vita in modo più totale ed esauriente.

E uno avanti: dove ha esercitato l’attività pastorale?

Va precisato che le mie condizioni di salute non mi hanno mai consentito di seguire da solo una parrocchia. Ho iniziato a collaborare con don Francesco Mascalzi a Scansano, dopo di che un collasso mi costrinse a sospendere, per poi riprendere in seguito a Manciano con don Fosco Bindi. In seguito sono stato per diversi anni con don Enzo Baccioli di Sorano occupandomi di Montebuono, Elmo, San Valentino e Pratolungo. Sono stati periodi entusiasmanti e porto nel cuore tante persone.

Gli anni della sua formazione sacerdotale sono stati tra il pre-concilio e il concilio. E come sacerdote ha dovuto attuarlo. Cosa pensa del Concilio Vaticano II?

È stato una grazia, ma la sua interpretazione non è sempre stata corretta. E soprattutto alla gente comune è giunto secondo i commenti dei mezzi d’informazione, senza una vera analisi dello spirito e della lettera del Concilio, a cominciare dai documenti, perlopiù sconosciuti.

Se io le dico grazia, peccato, preghiera, lei cosa mi risponde?

Che senza la grazia di Dio alimentata dalla preghiera e dai sacramenti il cristiano perde tutte le forze. Che ormai da tempo si è smarrito il senso del peccato perché si è perso il metro dei comandamenti e delle beatitudini. Soprattutto è venuta a mancare la fede in Dio e di conseguenza il senso del peccato, trasformato al più in una colpa sociale. È invece dal cuore che nasce il peccato ed è lì che bisogna agire. Infine che la preghiera deve essere pane quotidiano, specie di noi sacerdoti. Sia la preghiera comandata che la vita donata fatta preghiera.

Che consigli darebbe ai giovani sacerdoti?

Siate umili; confrontatevi anche con i sacerdoti più anziani; non abbiate fretta e prestate attenzione alle persone; avvicinatevi spesso alla Parola di Dio, per poterla poi spezzare sapientemente alla mensa domenicale.

Senta don Leopoldo, una curiosità: perché non ha mai smesso di portare la “tonacona”?

Devo ammettere di avere assorbito quel modo di vestire pre-conciliare e non ho mai voluto cambiarlo.

Sono testimone della sua attenzione pastorale specie verso i giovani, ai quali spesso ha parlato o ha fatto parlare della sessualità. Perché questa insistenza? Anche in questo caso non posso negare l’influsso della mentalità del prete di un tempo che mi ha sempre accompagnato. In seguito ho compreso che la questione va affrontata con modalità un po’ differenti. Ma ciò non toglie la straordinaria importanza di questa dimensione nella vita delle persone e specie dei giovani ai quali è bene annunciare anche oggi la morale cristiana in questo campo.

Lei si è spesso recato, ha accompagnato e invitato ad andare a Medjugorje. Cosa ci trova?

Ho verificato che fanno sul serio. C’è tanta gente che prega, molti giovani. E il messaggio che non è possibile costruire un mondo nuovo, che renda felici, senza Dio, mi sembra assai importante.

Mi ricorda una cosa bella?

Avere incontrato in anzianità l’infermiere Jose Joyesh che mi è stato molto vicino.

Per quale squadra di calcio tifa?

Il Torino. Il grande Torino.

Ecco alcuni aspetti della ricca personalità di don Leopoldo Genovesi, don Poldo o Poldino come lo chiamavano da bambino ad Alberese. Un sacerdote che è scolpito nel mio cuore.



2016 Alberese



 

sabato 3 ottobre 2020

GIUSEPPINA GESTRI, UNA SANTA DEL NOSTRO TEMPO

“Una delle donne più esemplari della nostra Chiesa diocesana”, la volle definire nell’omelia del funerale nel 2010 l’allora vescovo di Prato, Gastone Simoni. Io direi più sinteticamente, una santa.

Giuseppina Gestri, la Giusy, l’ho incontrata ai campi scuola regionali dei primi anni ’70, poi in seguito quando veniva nella nostra diocesi per incontri formativi e di spiritualità come responsabile nazionale dell’Azione Cattolica, invitata da don Giorgio Gubernari. L’ultima volta che ho potuto godere della sua presenza è stato a metà anni ’80, quando insieme a Rossella – e accompagnato dagli amici Lidia De Caro e Riccardo Bonechi – siamo andati a trovarla nella casa “La Colombaia” a Firenze dove accoglieva ragazze minorenni con alle spalle gravi problemi familiari.

Giovanissima lasciò la natia Casale per una scelta vocazionale che la condusse nel 1955 ad entrare nell’Istituto Secolare delle Spigolatrici della Chiesa. Sono “laiche consacrate” che vivono “la consacrazione a Dio, attraverso i consigli evangelici (povertà, obbedienza e castità), nelle comuni condizioni di vita, condividendo la quotidianità delle persone” del proprio ambiente. E si impegnano “a vivere con competenza il lavoro, la professione, l’impegno nel mondo e nella Chiesa. Solidali con i poveri, in ricerca della giustizia e attente ai segni dei tempi”, cercano “di discernere con sapienza le luci e le ombre presenti nel mondo e nella storia per fare spazio al progetto di Dio su di essa”.

Forte di questa scelta radicale capace di dilatarla a tutti nell’annuncio e nel servizio, divenne assistente sociale e lavorò a lungo con questo incarico in un importante lanificio, facendosi apprezzare per l’attenzione ai lavoratori e alle loro famiglie. Presidente della Gioventù Femminile di AC della diocesi di Prato a metà anni ‘60, girava instancabilmente per tutte le parrocchie organizzando incontri formativi e ritiri spirituali. Le sue capacità carismatiche la fecero apprezzare anche a livello nazionale e nel 1972 fu chiamata a Roma prima come segretaria del settore giovanile di tutta l’Azione Cattolica, poi al più delicato ruolo di Responsabile nazionale del rapporto con le regioni e le diocesi. E qui svolse un ruolo di tessitura di relazioni e contatti che si riveleranno fondamentali per l’associazione in quel cruciale tempo post-conciliare, periodo anche lacerato dal referendum sul divorzio, gli anni di piombo con l’assassinio di Aldo Moro nel 1978 e del presidente Vittorio Bachelet nel 1980.

Fu proprio quest’ultimo l’anno del suo rientro a Prato e, fedele alla sua vocazione, entra in una comunità fondata da un sacerdote pratese, Danilo Aiazzi, la Pro Verbo e su invito dello stesso diviene direttrice della Casa La Colombaia dove l’ho incontrata.

Di lei ho chiesto un ricordo all’attuale parroco dell’Isola del Giglio, don Lido Lodolini, che l’ha conosciuta molto bene.

“Giuseppina è stata la presenza importante di una spigolatrice che ci ha aiutato ad innamorarci di Gesù, come lo era lei … gioiosa ed entusiasta della sua vita donata a Lui. Ricordo con tanta gratitudine la sua presenza ai campi scuola. La Giusy ti coinvolgeva parlando con tanta semplicità “de’iSSignore” (come diceva) - che, buono e grande nel suo amore, infinitamente misericordioso da buon samaritano, era sempre pronto a venirci incontro nei nostri problemi di giovani e adolescenti - con la tenerezza e la forza che trasparivano dallo sguardo dolce e dal parlare pacato della sua voce.

La vedevo spesso prendere sottobraccio qualcuno o qualcuna. Si usava dire ai campi scuola che la Giuseppina (madre spirituale) confessava (preparava alla confessione) e don Icilio poi dava l’assoluzione.

Ancora oggi ringrazio il Signore per aver incontrato ai campi scuola un padre spirituale, don Icilio, e una madre spirituale, la carissima Giuseppina che, ormai da tempo in cielo, accanto all’Amore sorgivo, ci vuole infinitamente più bene”.

Ipse dixit, e io confermo.

 


Campo scuola di Campitello, 1970, Giuseppina insieme a don Lido Lodolini e Daniela Bonci

Campo scuola di Campitello, 1970, Giuseppina insieme a don Icilio Rossi, Aurelio Leoni, Emma Dominici


Giuseppina in tempi più recenti