Eh sì, io e Rossella il vescovo Giovanni l’abbiamo considerato come un padre nella fede, nella rettitudine, nella dedizione, nella capacità di leggere i segni dei tempi, nel desiderio di evangelizzare il popolo.
Io e
Rossella gli abbiamo voluto molto bene e abbiamo collaborato con lui con gioia
e imparando molto; credo che anche lui ci abbia voluto bene: ci ha lasciato in
dono a me un rosario, a Rossella una Madonna con bambino.
Nel maggio
1983, dopo la notizia del suo trasferimento a Vescovo di Arezzo-Cortona-San
Sepolcro dell’11 aprile, noi giovani di Azione Cattolica, per bocca di
Rossella, in un incontro di congedo al Santuario del Cerreto lo salutammo con
le parole di Giobbe: “Così piacque al
Signore, così è avvenuto: sia benedetto il nome del Signore”.
Con le
stesse parole accogliemmo il suo successore, Eugenio Binini.
Nato il 6 gennaio 1920 a Valentano, muore a 93 anni il 26 febbraio 2013. Nel marzo di quell’anno il direttore del settimanale diocesano, don Mariano Landini, mi fece un’intervista per ricordare il vescovo scomparso. La riporto perché vi è annotato quello che pensavo di lui. E il Vescovo Giovanni è certamente una persona da rammentare nell’amarcord de “Il bianco di Pitigliano”.
Stefano, che ricordo porti con te del Vescovo Giovanni D’Ascenzi?
Lo ricordo
con un affetto ancora molto vivo. Fu Vescovo illuminato della nostra diocesi
nel delicato e strategico periodo 1975-1983. Ricordo, dopo la sua elezione del
7 ottobre 1975, il suo ingresso il 21 dicembre, in un pomeriggio piuttosto
freddo e le sue prime parole sopra un palco in Piazza della Repubblica. E
ricordo la sua uscita verso la diocesi di Arezzo, una mattina di gennaio del
1984 con appena una piccola valigia di indumenti personali, accompagnato da me
e pochi altri. I saluti ufficiali (mi sembra di ricordare piuttosto freddi) li
aveva ricevuti in precedenza. Eppure, nessuno come lui aveva tentato di
modificare radicalmente il modo di evangelizzare della nostra Chiesa diocesana.
E fu grazie a lui, alla sua intelligenza, che ci si consolidò come diocesi.
In che senso consolidò la diocesi?
In quel
periodo si pose fine alle amministrazioni apostoliche, iniziate dopo la morte
del Vescovo Luigi Pirelli nel 1964, e la nostra terra ebbe di nuovo un Vescovo
tutto per sé. Grazie a ciò la diocesi prese consistenza territoriale - dopo
aver lasciato sul campo le parrocchie di Alberese e Rispescia (11.02.1976) -
dapprima, con l’inclusione delle parrocchie di S. Fiora, Bagnolo e Bagnore (28.10.1977),
poi con l’aggiunta dell’Abbazia delle Tre Fontane (10.06.1981) - e specie con
quest’ultima operazione - assunse una fisionomia definitiva che successivi
scossoni non sono stati in grado di modificare.
Hai detto che il Vescovo D’Ascenzi cercò di modificare profondamente il modo
di evangelizzare. Spiegati meglio.
Rispetto alla situazione ecclesiale piuttosto stagnate e in declino che si trovò dinanzi, Monsignor D’Ascenzi dette la sveglia e provocò una forte scossa tellurica. Specie attraverso i Convegni di Palidoro (ma anche quelli successivi di Triana, Pitigliano, Orbetello) l’azione della nostra Chiesa fu messa a ferro e a fuoco, nel senso che tutta la sua pastorale fu sottoposta ad un vaglio molto accurato e furono individuati i passi idonei a produrre il cambiamento. Interessante sarebbe rileggere quei documenti che prevedevano una nuova mentalità, soprattutto nel clero, che in larga parte si trovò impreparato.
Si parlava di passare dalla sacramentalizzazione alla evangelizzazione, vivere una liturgia rinnovata e carica di significati, prestare attenzione al primo annuncio e ad una catechesi adeguata ai tempi (vi fu il varo del direttorio catechistico e l’organizzazione di Corsi biblici: lo ricordo uno a Triana con il famoso biblista fiorentino, Valerio Mannucci), di individuare una specifica terapia per la evangelizzazione della popolazione di campagna, allora ancora numerosa, di spingere la Chiesa a dialogare e confrontarsi con il mondo moderno alla luce della propria visione dell’uomo, dare il giusto spazio ai laici, visti in primo luogo come trasformatori del mondo. Di far passare l’idea che la dottrina sociale cristiana era parte essenziale dell’evangelizzazione (quanti momenti formativi vi furono!), creare spazi e luoghi per una elaborazione culturale di ispirazione cristiana (nel 1981 nacque il settimanale diocesano ‘Confronto’ e decollarono i Centri culturali Fortezza Orsini di Pitigliano, Tre Fontane di Orbetello e Silvio Piccolomini di Triana). Poi di rianimare l’attività delle parrocchie e favorire l’avvio della pastorale d’ambiente, specie nel campo del lavoro e della scuola e in tal senso riorganizzare la collocazione degli stessi sacerdoti. Di valorizzare il carisma dei religiosi e delle religiose e affermare la centralità della diocesanità, piuttosto latitante in quel periodo.
E i laici
furono coinvolti?
Non poche di quelle azioni prevedevano
il coinvolgimento diretto dei laici e delle loro organizzazioni, Azione
Cattolica in primis, ma anche di categoria (maestri, insegnanti, universitari,
medici, lavoratori) sia nella fase della testimonianza che in quella della
elaborazione pastorale: videro la luce i primi Consigli Pastorali Diocesani,
composti da molti laici, anche di provenienza, per così dire, extra-moenia. Il
primo del 1977 era articolato in 20 sacerdoti, 6 suore e 27 laici, oltre al
Vescovo. Per allora fu una vera rivoluzione. Ricordo non pochi volti spaesati e
altri piacevolmente sorpresi. E poi, la Triana.
Cioè, vuoi
dire i campi scuola diocesani.
Si, il Vescovo D’Ascenzi riuscì ad ottenere, credo in comodato d’uso, il suggestivo Castello di Triana, dove l’Azione Cattolica iniziò nel 1978 ad organizzare i campi scuola diocesani. E quelle esperienze furono fondamentali per la fede di molti ragazzi e giovani: da quell’anno al 1993 sono transitati alla Triana una media di 250 ragazzi all’anno.
Ho sentito
dire che alcuni lo ricordano più come un vescovo politico, non nel senso
partitico, ma molto orientato sul sociale. C’è del vero?
Intendiamoci,
Giovanni D’Ascenzi fu in primo luogo un pastore connotato da una forte
spiritualità, ma lo fu seguendo i doni che la provvidenza gli aveva concesso.
E lui, un po’ per la sua precedente esperienza nel mondo rurale (consigliere ecclesiastico nazionale della Coltivatori Diretti) giunta sino al livello internazionale, un po’ per i dettami conciliari, voleva una chiesa diocesana più intraprendete, aperta al mondo, non chiusa in sacrestia e in azioni di culto sempre meno vissute. Anche a noi giovani di azione cattolica, che pure ci trattava come figli, più volte ci rimproverò chiamandoci “quelli della chitarra”, per segnalare il rischio che la nostra fede si curvasse pericolosamente in atteggiamenti esclusivamente intimistici, allora piuttosto di moda in campo ecclesiale. Tanto per dire della sua sensibilità, ricordo un episodio apparentemente curioso: durante la predicazione a Triana degli esercizi spirituali ai giovani, nel poco tempo libero che aveva, lo rammento con in mano un testo di Luigi Sturzo. Sacerdote sì, ma che sacerdote!
In concreto quali azioni intraprese?
Nel
settembre del 1977 favorì addirittura la costituzione del Comitato Permanente
per la promozione socio-culturale della montagna amiatina, alla luce della
perdurante crisi economica e occupazionale di quella zona. Nel marzo
1979 avviò una serie di interessanti conversazioni sull’occupazione giovanile,
l’Europa e di natura religiosa: videro la presenza di relatori d’eccezione,
come Giuseppe De Rita, Cesare Dall’Oglio, Mario I. Castellano, Pietro Pavan.
Tutte cose che ai più interni all’ambiente ecclesiastico, a iniziare dalla grande maggioranza dei sacerdoti, apparvero eccentriche nel senso di marginali, periferiche, bizzarre, rispetto al cuore dell’evangelizzazione. Ma tu pensa! In realtà, riuscì ad aprire canali comunicativi con molte persone allora considerate extra-ecclesiam, anzi alcune contra-ecclesiam e lo fece interessandosi della vita reale della gente organizzando, tra l’altro, corsi per la viticoltura, l’agricoltura, l’arte del ferro e del legno, del restauro murario. Era un modo per riaffermare la centralità del lavoro per la dignità della persona ed un segnale alla sua Chiesa di prestarvi le dovute attenzioni. E poi chissà quanto questo suo interessamento ha favorito ripensamenti, avvicinamenti, quanto meno dubbi, nel campo della fede e della stessa chiesa.
Alcuni ricordano ancora un grande convegno di laici cattolici impegnati nel socio-politico. Che ricordi hai?
Ho il
ricordo della fatica di dattiloscrivere gli opuscoli che si consegnarono e
delle telefonate del Vescovo sin dalle 6,00 della mattina. Era molto
mattiniero. Penso si alzasse alle 4,00.
Questo primo incontro di laici cattolici (corredato da due opuscoli dai titoli
significativi: “Per una presenza attiva ed efficace della nostra Chiesa nella
società” e “Missione dei laici nella Chiesa e nella società”) ebbe luce nel marzo
1982. In quella occasione il Vescovo – dopo avere enucleato una serie di
problemi della nostra zona (invecchiamento, disoccupazione-emigrazione
giovanile, denatalità, distacco tra sociale e politico) – ricordava: “mio dovere è denunciare i problemi e
suscitare la vostra sensibilità all’impegno serio per risolverli con spirito di
servizio per amore della giustizia”. Ed invitava i laici cristiani a “conoscere bene, e perciò studiare, lo
squilibrio e le distorsioni presenti nel nostro territorio, ricercarne le cause
vere e profonde, così da proporre rimedi efficaci”, ad “acquisire una conoscenza adeguata della Dottrina sociale della
Chiesa” ed a “lavorare uniti per una
presenza efficace”.
E i cattolici impegnati seguirono quelle indicazioni?
Direi proprio di no, purtroppo.
Però, la nostra Chiesa si apriva al mondo, al sociale, alle professioni,
spingeva per la creazione di cooperative giovanili, dialogava e sfidava il
mondo della politica sia nella parte più istituzionale, allora egemonizzata da
personale comunista e socialista, che in quello partitico con l’allora naturale
riferimento alla DC sempre più in fase declinante.
Con in mano la dottrina sociale cristiana – presentata in diversi corsi o
giornate di riflessione e aggiornamento - la Chiesa diocesana, specie nel suo
vertice - appariva all’avanguardia anche rispetto a chi aveva fatto fino allora
del progresso e dell’uguaglianza il proprio vessillo.
Qualcun
altro lo rammenta come uomo del fare.
Si è vero,
era un uomo che faceva, realizzava anche strutture o le restaurava. Ma tutte a
servizio della comunità ecclesiale o civile, delle parrocchie, dei giovani.
Basti ricordare a Pitigliano i molteplici lavori al Seminario vescovile, il
restauro della Chiesa di San Rocco, il complesso restauro della Cattedrale
improvvisamente crollata nel 1977, della canonica attigua, della Casa del
Giovane, la creazione dell’Oratorio del Getsemani, il pressoché totale recupero
del Cassero del Palazzo e delle altre strutture della Fortezza Orsini, il
restauro dei ruderi di San Francesco, i lavori nella scuola materna. Poi il
recupero e la sistemazione integrale del Castello della Triana, la
ristrutturazione della casa canonica di Porto Ercole, di Sovana e della Chiesa
dell’Immacolata al Valle di P.S. Stefano, l’acquisizione della Villa di
Valentano a servizio del Seminario diocesano, il progetto (e la posa della
prima pietra) della nuova Chiesa e delle opere parrocchiali del quartiere di
Neghelli ad Orbetello e lavori per l’appartamento delle suore e altro nel
Palazzo Abbaziale di Orbetello, la ricostruzione della Chiesa di Poggioferro e
poi i cantieri di lavoro in molte altre parrocchie. Non sfugga che furono messi
in circuito alcuni miliardi di lire, pagate oltre 20.000 giornate lavorative,
provocato un commercio di materiale di oltre 250 milioni. Decine di milioni
uscirono dalla tasca sua.
E, sia
chiaro, tutte queste strutture le voleva ad opera d’arte, perché mons. D’Ascenzi
aveva anche una spiccata sensibilità per il bello e il ben fatto. Alcune volte
lo ricordo (e altre lo immagino) mentre rimbrottava e consigliava architetti,
muratori, falegnami, fabbri perché facessero opere le più belle possibili e a
prezzi contenuti o anche gratis.
Del rapporto tra Vescovo e sacerdoti cosa ricordi?
Da parte del Vescovo, per quello che potei notare, oltre all’affetto paterno di cui non posso dubitare, vi fu attenzione alle loro esigenze personali (con importanti momenti formativi) e logistiche (sistemazione di strutture parrocchiali fatiscenti), ma anche molta franchezza e potestà decisionale. Non pochi furono gli spostamenti di sede di parroci per il bene della diocesi e delle singole parrocchie. Nei documenti di Palidoro si parlava anche di un argomento delicato come quello della perequazione economica tra sacerdoti. Azioni che ad alcuni piacquero, ma che ad altri rimasero sullo stomaco. Ma si sa, chi governa decide, chi decide sceglie, chi sceglie talora scontenta.
Insomma che bilancio faresti?
Non sono in
grado di fare un bilancio, perché per molti tratti è misterioso: cosa ne so io,
ad esempio, l’effetto che nel cuore delle persone hanno avuto le tante sue
bellissime prediche, le sue opere di carità, i consigli e gli aiuti che
elargiva. Il suo modo di porsi si muoveva tra atteggiamenti cordiali e
raffinati e altri piuttosto ruvidi e schietti. Se doveva dirti che una cosa non
andava bene, non lo mandava a dire e l’affetto lo dimostrava più con i fatti
che con le parole.
Di lui si
può dire che agiva come un uomo di pensiero e pensava come un uomo di azione.
Di quel
frangente posso solo ricordare che l’entusiasmo fu tanto specie da parte dei
laici e della gente comune, la sorpresa per la sua azione fu enorme e le
resistenze lo furono altrettanto. Non mi sorpresero quelle esterne, mi
colpirono quelle interne.
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