La riscoperta dell’autentica
vocazione associativa, le diffidenze ecclesiali, il Vaticano II, il rapporto
con la politica e il partito d’ispirazione cristiana
Per 3 trienni ebbi la
responsabilità di guidare l’azione cattolica diocesana come presidente:
1977-1980; 1980-1983; 1983-1986. Ammetto che il terzo triennio non avrei voluto
farlo, ma le cose presero una piega diversa dalle mie intenzioni. Come già
detto, furono anni esaltanti e faticosi. Personalmente ho ricevuto molto di più
di quello che sono riuscito a dare: ho incontrato belle persone sia tra i laici
che tra i sacerdoti e le religiose. Ed anche se quella che provo a riannodare è
la mia storia, per come la ricordo, non posso in questo caso non intrecciarla
con alcune delle persone con le quali ho avuto la ventura di viverla.
Il primo triennio si aprì con la III Assemblea diocesana tenuta in seminario
a Pitigliano il 15 maggio 1977. Di quell’assise non ricordo nulla, solo che
mi trovai eletto nel Consiglio diocesano insieme ad altri 18 membri, che il 18
giugno provvide ad eleggere i responsabili di settore e ad individuare la terna
per la scelta del presidente diocesano da sottoporre al Vescovo Giovanni D’Ascenzi.
Scelta che il vescovo, tramite il vicario generale Mons. Giglio Mastacchini
(gran bella persona), mi comunicò il 1 dicembre di quello stesso anno. Avevo
appena compiuto 20 anni: misi le mani nei capelli e i ginocchi mi si piegarono.
Nonostante lo shock, bisognava iniziare a lavorare. I collaboratori più stretti
scelti nel consiglio diocesano furono, in campo ecclesiastico, gli assistenti
don Girolamo Vagaggini (generale), don Giorgio Gubernari (adulti), don Lido
Lodolini (giovani), don Mario Amati (ragazzi); sul fronte dei laici, Alido
Ronca e Sascia Bergamo vice-presidenti adulti, Roberto Dainelli, Lucio Luzzetti
e Michela Dei Bardi vice-presidenti giovani, Antonio Magliulo, Maddalena Ronca
e Lorella Dainelli rappresentanti ACR. Nella prima presidenza nominai Valeria
Elmi segretaria diocesana.
E così partì l’avventura.
Ovviamente non c’eravamo solo noi
del centro diocesano, ma provvidenzialmente anche le associazioni parrocchiali,
a quel tempo guidate da ottimi presidenti. Associazioni parrocchiali non più
fiorenti come prima del 1969, ma alcune sempre di una certa consistenza, altre
tenaci nel non far spegnere il lumignolo fumigante. In un report delle adesioni
1979/80 si comprendeva chiaramente che l’acquisizione dell’Abbazia delle Tre
Fontane – prima con la diocesi di Grosseto – ci aveva portato in dote un bel
numero di nuovi aderenti, ben 475 su 1182. Rileggendolo anche nelle pagine
successive, nelle quali sono riportati nel dettaglio i nomi, parrocchia per
parrocchia, di tutte le persone entrate, uscite o passate di settore, rammento
quanta attenzione riservavamo alle persone. E chiedevamo ai responsabili
parrocchiali di interessarsi di loro: degli usciti per comprendere cosa non era
andato, degli entrati per registrare cosa li aveva motivati, di coloro che
passavano da un’articolazione all’altra per stare attenti all’evoluzione e alla
loro vocazione; ad anche degli altri, naturalmente. I moduli di adesione, per
me, non hanno mai rappresentato un adempimento burocratico. Spesso leggevo i
nomi e pregavo per loro, per le persone che meglio conoscevo ringraziavo Dio
della loro opera e qualche volta mi rifugiavo nella sesta opera di misericordia
spirituale.
In questo primo triennio mettemmo
non poca carne al fuoco, a parte i campi scuola di cui ho già parlato. Un po’
per mancanza di esperienza e un po’ per una conoscenza superficiale
dell’associazione frequentai molto gli appuntamenti nazionali e regionali e
spinsi gli altri responsabili a fare altrettanto. Questo ci servì molto e ci
aiutò a concentrare l’attenzione nel compito associativo diocesano che
ritenevamo più urgente e che ho già citato: scoprire o riscoprire il proprium
dell’Azione Cattolica. Infatti, l’esercito dei 707 aderenti era un po’
particolare. Ferma restando la presenza di persone veramente sante e magari il
desiderio di molti se non di tutti di diventarlo, dopo una prima fase di
conoscenza, ci rendemmo conto che la stragrande maggioranza del corpo
associativo non sentiva di vivere un’esperienza vocazionale. Molti anziani
rinnovavano il segno di adesione per tradizione, i giovani all’inizio erano
pochi e in seguito pescati quasi esclusivamente dai campi scuola. I ragazzi
andavano e venivano senza troppo sostare, specie dopo i sacramenti. L’attività
formativa soprattutto degli adulti era un po’ datata nella modalità. Raramente
veniva avanzata con convinzione la proposta di venire a far parte della nostra
compagnia, della quale non si riusciva a intravedere l’originalità e la
bellezza.
I preti anziani ci guardavano con
gli occhi rivolti al passato, quelli giovani ci vedevano poco.
Si era già iniziato a dire che il
battesimo bastava e avanzava e alle comunità ecclesiali serviva solo essere
organizzate attorno ad un parroco efficiente e animate da presenze laicali
disponibili. Non serviva altro: niente AC, niente laicato associato.
Purtroppo questa autentica
cretinata in seguito si è addirittura rafforzata e ancora oggi è viva e vegeta.
Dico la verità: quella debolezza non ci impensieriva; anzi, ci dava la
possibilità di comprendere che poco del bene e del Regno dipendeva da noi. Ci
spettava solo far dimorare in noi la potenza di Cristo, come aveva detto Paolo,
l’apostolo: “quando sono debole, è allora
che sono forte”.
Naturalmente dovevamo fare la
nostra parte e ci impegnammo ad attivare scuole associative, incontri zonali,
tre giorni parrocchiali, singoli incontri dedicati alla specificità dell’Azione
Cattolica, alla sua vocazione. Ed anche a veicolare il Concilio Vaticano II, il
suo spirito, i suoi documenti ad iniziare da quelli che ridisegnavano la chiesa
e indicavano un nuovo modo di rapportarsi col mondo. Provammo a far nostra ed a
trasmettere la novità della scelta religiosa, che i vertici nazionali dell’AC e
quelli della Conferenza episcopale italiana avevano fatto, spinti dal grande
Paolo VI. Ed anche questa impresa fu difficile specie tra gli adulti,
storicamente abituati ad un’associazione ancora molto geddiana e quindi
propensa in certi momenti a trasformarsi in comitato civico. E che facciamo, ci
dicevano, ci ritiriamo in convento? Abbandoniamo il partito d’ispirazione
cristiana? Lasciamo spazio ai laicisti ed ai comunisti?
Per la verità alcuni adulti
(pochi) accolsero con senso di liberazione la nuova linea, che piaceva
soprattutto ai giovani: una Chiesa e un’AC libere da tutte le compromissioni
mondane.
Quest’ultima novità, propria
dell’associazione dal 1969, anche a seguito delle decisioni prese dalla I
Assemblea Nazionale del 1971, definiva con chiarezza i confini che l’Azione
Cattolica e i suoi primi responsabili dovevano avere ben chiari nei rapporti
specialmente col mondo della politica. Ne fa fede una lettera riservata che il
presidente nazionale Mario Agnes inviò ai presidenti diocesani d’Italia il 5
maggio 1979 (un mese prima delle elezioni politiche del 3 giugno) nella quale si
diceva: “gli aderenti candidati a cariche
politiche ed amministrative lascino eventuali incarichi associativi a qualunque
livello essi si riferiscano, ferma restando la loro appartenenza
all’Associazione in qualità di soci”.
Per me fu la conferma di quello
che avevamo pensato e fatto sin dall’inizio della nostra esperienza, che del
resto ci era già stato segnalato. L’AC
era un’associazione ecclesiale a tal punto unita alla Chiesa locale e al suo
Vescovo che, nel nuovo quadro post-conciliare, non poteva essere di parte in
sede politico-partitica. Personalmente, nei lunghi 9 anni di presidente,
per scelta, non ho mai avuto relazioni politiche con la Democrazia Cristiana,
né con gli altri partiti politici. Fatti salvi i rapporti di amicizia e
istituzionali che anzi erano doverosi, simpatici e quasi sempre sereni. Come AC
diocesana definimmo i nostri compiti associativi con maggior dettaglio in un
documento del 2 febbraio 1982 dal titolo: “L’Azione
Cattolica: specificità, ruoli e responsabilità nell’ambito ecclesiale, sociale
e della politica”.
Un bel manualetto, che
varrebbe la pena rileggere.