Perché a 60
anni si fanno queste cose un po’ patetiche con la testa rivolta al passato? Non
oso rispondere. Eppure è sorta in me prepotente la voglia di guardarmi
indietro, per provare a comprendere se la mia è stata una esistenza random
oppure ha meritato almeno la dignità di un indice. Poi perché, giunto in quella
zona che gli alpini definiscono dalle altitudini troppo elevate, volevo
raccontarmi ai miei figli.
Solo per
questo, dapprima brevemente nel 2003 sul mio blog, poi diffusamente dal 22
novembre 2013 al 1 aprile 2017 sul mio profilo Fb, ho scritto 100 post. E lì
sono stati inghiottiti dalla quotidiana bulimia di parole. Da un po’ di tempo
alcuni amici hanno iniziato a sollecitarmi perché riportassi quei post su
carta. Ho resistito, dubitato, poi ho ceduto. Ho sentito l’odore del libro e ho
sperato che potesse emanare il mio profumo, quell’accessorio indimenticabile
che – per dirla con Coco Chanel – “preannuncia
il tuo arrivo e prolunga la tua partenza”.
Ho usato Fb
in modo improprio. Laddove bisogna essere fulminei, mi sono dilungato e sono
uscite fuori 144 mila parole. Tante. Ma il ritrovamento di lettere, foto,
scritti, appunti, bigliettini sepolti in soffitta ha avuto in me lo stesso
effetto della madeleine di M. Proust.
Straordinariamente si sono riaffacciate sensazioni, situazioni, persone, ansie,
speranze, gioie, dolori, difficoltà del passato ed era come se le rivivessi.
Confesso di
essermi sforzato di raccontare quelle vicende con onestà intellettuale, ma
quello che ho scritto è il mio punto di vista intrecciato con fatti,
situazioni, persone che sono transitati nella mia vita. Dopo tutto “la memoria è una cosa complicata: è
imparentata con la verità, ma non è la sua gemella” (B. Kingsolver).
100 post non
esauriscono la mia vita, né contengono tutte le sue sfumature e increspature.
Una parte li ho scritti di getto, un’altra dopo attenta meditazione. Alcuni
sono stati brevissimi, altri molto lunghi. Ce n’è per tutti i gusti. La
sproporzione tra il numero di post dedicati al mio impegno in Provincia (dal 34
al 96) e tutto il resto, è dovuta al fatto che li ho utilizzati anche per
raccontare un pezzo di quello straordinario
periodo nel quale mettemmo in campo strategie di sviluppo, progetti
originali, ingenti risorse, realizzando tante opere. Sembrerà strano, ma – come
dico nel post 92 – la Provincia è entrata dentro di me “perché ho notato le sue straordinarie potenzialità e le ho consegnato
tutto il mio tempo” sottraendolo alla famiglia.
Se c’è una
cosa che ho notato, è che sono stato quasi sempre chiamato ad impegnarmi in situazioni di emergenza, ecclesiale,
sociale, politica, amministrativa. Una specie di testa di cuoio. Come pure, ho
intravisto far capolino la Lumachella de
la vanagloria di Trilussa – quella “ch’era
strisciata sopra un obelisco”, e che “guardò
la bava e disse: Già capisco che lascerò un’impronta ne la Storia” – e ho
illuso me stesso al punto da immaginarmi decisivo, importante, solenne in tante
cose dette e fatte. Me ne scuso. Spero si possa intravedere anche la
riconoscenza che nutro verso tutte le persone che ho incontrato, da molte delle
quali ho ricevuto affetto, simpatia, esperienza, competenza, rimproveri, punti
di vista diversi per vedere e giudicare le cose. Le persone sono come le
vetrate, dice Elisabeth Kübler-Ross: alcune hanno brillato solo con il sole,
altre hanno rivelato la loro bellezza anche nell’oscurità, perché avevano la
luce dentro. Quest’ultime le ho impresse nel cuore.
Naturalmente
la vita è molto di più di quanto si possa immaginare o scrivere; è un mistero,
quindi non riducibile a definizioni. Però, se dovessi definirla con un
aggettivo, userei “sorprendente”. Mi
ha sempre preso in contropiede, conducendomi là dove non immaginavo di andare o
dove non volevo proprio recarmi.
La sorpresa
più grande e quella più bella si sono unite allo stupore: la prima è stata l’incontro con Gesù, la seconda sono
stati Rossella, Giovanni, Lucia e Samuele.
Dopo quanto
detto il titolo più adatto per questa raccolta di post sarebbe “La vita che
sorprende”. E infatti la prima ipotesi è stata quella. Poi ha preso il
sopravvento il desiderio di essere un po’ ironici con se stessi e la propria
vita: ecco allora che è nato “Il ‘bianco’ di Pitigliano”.
Titolo che
non si riferisce al buon vino dei nostri colli, ma alla mia caratteristica
somatica, i capelli, brizzolati sin da giovane, poi sempre più bianchi, come
pure alla mia identità territoriale: mi sento cittadino del mondo e, nello
stesso tempo, radicato nello scoglio di Pitigliano, che continua ad
affascinarmi per la struggente bellezza del suo panorama. Del buon vino mi piacerebbe
sprigionare i profumi floreale e fruttato che a me piacciono molto.
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