L’ultima chance. Il 12 dicembre 1992 a Grosseto insieme a un bel gruppo di amici presentammo le nostre idee per il rilancio. La nostra rottamazione: rimuovere i detriti, il partito è una necropoli, abbattere il clientelismo-nepotismo, fine del professionismo politico, buttare alle ortiche la confusione tra incarichi, fine dell’era dei portaborse, azzerare il tesseramento, cambiare la dirigenza provinciale. Per una politica della speranza, con in mente Padre Bartolomeo Sorge
Perché a
fine ’92 – insieme a Giuseppe Andreini, Paolo Balloni, Raffaele Buonomo,
Daniele Capperucci, Giuliano Carli, Alberto Ceccarelli, Carlo Corridori,
Antonio Esposito, Alerio Fabbreschi, Adalgiso Furzi, Paolo Giulietti, Silvano
Gobbi, Mario Luti, Lorenzo Mascagni, Agostino Megale, Luciano Migliorini,
Roberto Perissi, Bruno Piccolotti, Sandro Pirisi, Franco Rapezzi, Bulfardo
Romualdi, Piero Rossi, Mario Saccardi, Paolo Vignoli, cioè a persone di varia
collocazione interna alla DC e qualcuna con un piede dentro e uno fuori –
decidemmo di dar vita a quella che fu chiamata “Rifondazione democristiana”?
Per tre
motivi di fondo.
• Il primo motivo riguardava il
totale sbando nel quale stava navigando il partito al livello provinciale: inefficiente,
insignificante, chiuso a riccio nelle sue cosucce interne, addirittura
peggiorato nei due anni post-congressuali. Guidato da una direzione prigioniera
del nulla, senza una linea politica, economica, culturale, sanitaria. Un
partito senza proposte per rinnovarsi e che non aveva fatto niente per
equipaggiarsi di un gruppo di responsabili adatto ai tempi nuovi. Dove
stazionavano personaggi logorati dal continuo patteggiamento del potere,
piccolo o grande che fosse e dove le correnti continuavano a sostituire il
partito. Ciascuna con il proprio leader, le proprie riunioni separate, le
proprie sedi, la rispettiva quota di potere nella gestione del partito e nelle
istituzioni locali, la propria clientela da piazzare nei posti che contano. Era
un sistema assimilabile ad una S.p.A. che in base al pacchetto di azioni – in
questo caso le tessere – accumulava quote di potere. Di lavoro insieme, di
linea politica discussa e condivisa non c’era neppure l’ombra: la
disorganizzazione regnava sovrana e la lontananza dalla gente era siderale.
•
A fronte di tanta pochezza, a livello
della Dc nazionale sembrava manifestarsi un tentativo di forte rinnovamento
(ed è il secondo motivo).
La DC si era
trovata a fare i conti con il colpo di acceleratore impresso dalla storia e il
colpo di freno del suo rinnovamento negli ultimissimi anni. Così il ritardo si
era accumulato e la rincorsa era divenuta drammatica. Eppure negli ultimi mesi
quella rincorsa aveva ritrovato slancio e la DC provava a cambiare rotta.
Il drastico
giro di vite della crisi del sistema (l’allargarsi a dismisura della frana di
Tangentopoli, le questioni economiche e valutarie, il trionfo della Lega) aveva
determinato il formarsi di una larga opinione comune che solo la riforma
potesse salvare la DC.
Lo stesso
terreno di scontro era cambiato. La foto di gruppo della DC fino al 5 aprile e
anche subito dopo (che contrapponeva Andreotti a De Mita come i due poli
principali della conservazione e della riforma e lasciava a Forlani lo spazio
di una difficile mediazione tra le loro opposte ragioni) era assai diversa
dalla foto di gruppo di fine ’92: vi campeggiava un nuovo gruppo dirigente che
sulla riforma della politica giocava la sua stessa esistenza; vi figurava De
Mita, più appartato, ma sempre impegnato a realizzare il suo disegno di
riordino istituzionale e vi era Segni, un po’ defilato, ma ancora teso a
conciliare la sua riforma e il suo partito. Al conflitto tra chi immaginava di
restare fermo e chi indicava l’urgenza di muoversi, si era sostituito il conflitto
tra tutti quelli che proponevano di muoversi in direzioni diverse.
Cambiando il
gruppo dirigente la DC cambiava in parte fisionomia e giocando la partita delle
nuove regole si vedeva costretta ad abbandonare il vecchio gioco del pendolo –
uno dei giochi più praticati negli ultimi 15 anni: prima Zaccagnini (sinistra),
poi il Preambolo (centro); poi De Mita (sinistra) e di nuovo Forlani (centro) –
che passava il bastone del comando dal centro alla sinistra, da questa al
centro e così via, in nome della centralità del partito negli equilibri
generali della politica.
A fine ‘92
quel pendolo non funzionava più. Dimostrazione ne era il fatto che a Segretario
della DC era stato acclamato, con poteri quasi commissariali, un personaggio
minoritario come Martinazzoli. La crisi complessiva aveva dissolto di colpo
quella trama nervosa che fino a poco tempo prima regolava gli equilibri interni
alla DC e, tramite essa, della politica italiana.
A nostro
modo di vedere era iniziata la svolta.
Svolta
reale? Illusione totale? Provammo ad optare per la prima soluzione. Altrimenti
c’era solo lo strappo definitivo, l’abbandono.
Le
dure parole di Martinazzoli, nella sua devastante analisi della DC, denotavano
un autentico desiderio di cambiamento: “il
partito è un cimitero, non c’è più il quartier generale, spesso bombardato, ma
che spesso si bombarda da sé. Non è vero che ci assediano, ci assediamo da
soli. Non ci sono più le prime linee, le retrovie, le salmerie… e … i vecchi continuano a invecchiare e i giovani
preoccupano perché sono stati allevati in alambicchi di partito e ora fanno
resistenza perché capiscono che se riusciremo a traghettare la DC finiranno per
essere messi da parte perché sono una classe dirigente inservibile”
(discorso a Mira, riportato in La Repubblica, 2.11.1992, pag. 5).
• Il terzo motivo della nostra decisione, si basava su alcuni barlumi di novità che stavano emergendo dal monolite
comunista. Infatti, se qualcosa si stava muovendo al livello provinciale
questo era intravedibile in alcuni settori del PDS provinciale, allora guidati
da Roberto Baricci. In una intervista a Il Tirreno – riferendosi alla proposta
di legge sulla Elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Provincia e
dei Consigli Comunali e Provinciali – parlava della indizione di elezioni
primarie sia per stabilire il campo dello schieramento che il capo della lista;
e proponeva che il candidato a sindaco indicasse gli assessori esterni che
voleva mettere al proprio fianco come pure le scelte che proponeva per l’Amministrazione.
Il tutto nel
quadro della constatazione – per me ed altri da tempo vera – che la
competizione e la collaborazione elettorale “non
è più un fatto politico tra partiti vicini dal punto di vista ideale, ma tra
partiti che si ritrovano su ipotesi di governo concrete” (Intervista al
segretario provinciale PDS, Roberto Baricci, Il Tirreno, 4.12.1992).
Riguardo al
PDS (pur con tutte le sue contraddizioni e i travagli interni post-Bolognina),
non vedevo più le ragioni per continuare i pregiudizi che un tempo erano pure
fondati. Chiedevo (insieme agli amici) politiche meno ondivaghe, la fine degli
accordi quadro da imporre in tutti i comuni della provincia, osservavo che il
cambiamento dovesse realmente coinvolgere anche loro, autentica struttura di
potere in provincia, sulla quale non mi soffermo perché non la conoscevo
dall’interno. Certo è che se la DC provinciale era quella descritta, gestendo
briciole di potere, è un gioco da ragazzi immaginare cosa poteva accadere
all’interno dell’organismo che aveva in mano il potere reale su tutto il
territorio provinciale, diffuso come una piovra nelle istituzioni, nella
società, nell’economia, con cinghie di trasmissione ancora fortissime nella
CGIL e nelle associazioni di categoria. Non era più quello di un tempo, ma era
ancora assai robusto.
Quello che ci premeva di più era
ricordare che nella futura politica dei blocchi riformista e conservatore,
anche noi ci candidavamo a guidare il primo.
Non potevamo
immaginarci tra i conservatori, soprattutto per il fuoco riformatore che ci
ardeva dentro e specie se i valori portanti dell’approccio riformista erano
ancora: la giustizia sociale, intesa come uguaglianza della legge rispetto a
tutte le categorie economiche e sociali; l’equità, consistente nell’assenza di
privilegi a favore di qualcuno e di penalizzazione a scapito di qualche altro;
la solidarietà, come attenzione al terzo escluso; la democrazia diffusa, cioè
la garanzia che ogni decisione di rilievo per la vita della comunità fosse
presa dopo una consultazione diretta della comunità stessa; la pulizia,
l’onestà, la voglia di cambiamento. Per tutti questi motivi e chissà per quali
altri (magari, qualche nostra personale ambizione) nacque l’iniziativa della
rifondazione democristiana. Evidentemente anche perché l’asticella della nostra
sopportazione non aveva ancora raggiunto il livello della tracimazione.
Iniziativa che si concretizzò nel CONVEGNO DEL
12 DICEMBRE 1992 presso la sala Friuli di Grosseto, preceduto da una conferenza
stampa di presentazione, dall’emblematico titolo: Per una rifondazione della Democrazia Cristiana. Costituente di un
movimento di orientamento, di partecipazione, di proposta politica, di
mobilitazione.
Relatori
fummo io, Mario Luti, Bulfardo Romualdi. A me fu assegnata la relazione Per una politica della speranza.
Quello che segue è una parte di
quell’articolato intervento che scaturì da 5 o 6 incontri preparatori e che per
esteso può essere letto su http://stefanogentili.blogspot.com/2015/02/
◊ PER UNA
POLITICA DELLA SPERANZA L’ISPIRAZIONE CRISTIANA FONDAMENTO DEL NUOVO, TRA VECCHI
BOIARDI E NUOVI FERMENTI
La prima
parte di quel pomeriggio decollò con il mio intervento dal titolo sopra
riportato.
Dopo
il seguente incipit: “Quello che stiamo
vivendo è un tempo particolare perché tempo di passaggio tra un’Italia che fu
(che è giunta sino a noi, ma che non ha futuro) e un’Italia che verrà. Tempo di
passaggio, quindi, tempo di crisi”, svolsi un’analisi abbastanza ampia su:
crisi e bisogno della politica, crisi e bisogno dei partiti, crisi e bisogno
della DC, il nuovo che avanza a livello nazionale, progressisti e conservatori
in provincia, appello ai liberi forti e ai cattolici. A questi ultimi dedicammo
queste parole: “Rivolgiamo questo s.o.s.
al mondo cattolico delle tre diocesi della provincia di Grosseto con la forza
serena e disarmata di chi vive esistenzialmente all’interno di quel mondo, vi
opera quotidianamente, vi soffre le difficoltà e vi trae alimento per
l’impegno. Fratelli, è ormai tempo di svegliarci dal sonno!”.
◊ RIMUOVERE I
DETRITI E COLLOCARE I MATTONI
“La nostra non è una iniziativa contro
qualcuno, ma per qualcosa o, se vogliamo essere più analitici, è anche contro
quanti volessero procedere mettendo il vino nuovo in otri vecchi o,
gattopardescamente, fingessero di cambiare qualcosa – magari di esterno e
formale – per lasciare tutto come prima nella sostanza, mostrando di non aver
capito la lezione del 5 aprile (c’erano state le elezioni politiche con la Dc
che aveva perso il 5%, l’affermazione della Lega e della Rete, il crollo del
10% dal PCI al PDS), né la forte domanda di rinnovamento che sale dalla gente”. Se, per esempio, “qualcuno pensasse di gestire le decisioni dell’ultima Direzione
Nazionale DC sulla celebrazione dei Congressi provinciali, regionali, comunali,
stancamente o nella vecchia logica delle truppe cammellate, senza cogliere
l’opportunità di una reale apertura del partito all’esterno sarebbe meglio per
lui che si legasse una macina al collo”, dichiaravamo in nota.
◊ MA IL
PARTITO, ANCHE IN PROVINCIA, È UNA NE-CROPOLI
“Il nostro intento è dunque quello di
lavorare sin da subito alla rimozione dei detriti e alla ricollocazione dei
mattoni per restaurare la casa. Prima di indicare i detriti o meglio i grossi
massi che debbono essere rimossi, ci siano consentiti due gesti: uno di umiltà
e l’altro di trasparenza. Con il gesto di umiltà, pur avendo contribuito in
minima parte alla formazione dei detriti o non avendo contribuito affatto,
decidiamo di assumerci in solido le responsabilità delle non poche scorie che
il partito ha accumulato e ne chiediamo pubblicamente scusa. Con il gesto di
trasparenza decidiamo di dire con chiarezza quali sono le scorie che, a nostro
modo di vedere, debbono essere necessariamente eliminate. Precisando che quasi
tutti i detriti che andremo a citare sono presenti anche negli altri partiti,
talvolta in forme ben più gravi della nostra. Ma se vogliamo contribuire al
rinnovamento complessivo della politica ciascuno deve in primo luogo ripulire
se stesso e la propria abitazione”
(e qui, in nota citavamo una frase di Confucio).
◊ ABBATTERE
IL CORRENTISMO
“La prima scoria da eliminare si
chiama correntismo. L’unica realtà solida della Dc provinciale sono le correnti
che sostituiscono (in negativo) il partito. Un sistema quasi moderno, che viene
gestito in modo tribale dai patriarchi che decidono per tutti in base ai loro
particolari interessi.
Che senso ha nella drammatica
situazione attuale, con i Cananei e gli Amorrei alle porte, dirsi sempre della
tribù di Efraim, Beniamino e Manasse? Che senso ha dirsi di De Mita, di Gava,
di Forlani, di Andreotti? Che senso ha dirsi della corrente di Corsi,
Bellettini, Andrei, Brogi, Paolini? Ricordava qualche giorno fa Franco Marini
che solo uno sciagurato potrebbe pensare e ragionare, in questo momento, in
base a logiche di corrente. E il Segretario Martinazzoli nella relazione al
C.N. dichiarava che abbiamo bisogno di un partito aperto all’esterno, liberato
dalle logiche correntizie, oligarchiche. Ecco perché diciamo con forza a chi ha
avuto la ventura di imbattersi nelle torri d’avorio delle correnti: disarmate
queste potenziali bombe ad orologeria che stanno per esplodere distruggendo
tutto e tutti; abbandonatele, fate mancare la vostra presenza. Noi l’abbiamo
fatto!”.
◊
MESSA AL BANDO DEL CLIENTELISMO-NEPOTISMO
“Sarà anche vero – come ebbe a
dichiarare il segretario provinciale Andrei nel Comitato Provinciale del
20.5.1992 – che la DC grossetana è pulita. Quello che però è certo è che in non
poche occasioni ha attecchito il clientelismo, sotto forma di voto di scambio.
Tessere o voti accumulati dietro benemerenze, promozioni e assunzioni hanno
rappresentato una certa fetta dei detriti che devono essere rimossi. E non
serve dire che in provincia gli altri partiti, quelli che governano, hanno
fatto anche di peggio. Sta di fatto che tali comportamenti sono moralmente repellenti.
Va quindi espulso dal partito chi ricorre all’uso di mezzi equivoci o illeciti
per conquistare ad ogni costo il potere (citazione ripresa da Christifideles
Laici, n. 42)”.
◊ FINE DEL
PROFESSIONISMO POLITICO
“Quando la politica da passione diventa
professione, quando al provvisorio subentra il permanente vi è una logica
tendenza dell’organizzazione a trasformarsi in oligarchia e viene meno la
partecipazione politica, ossia il contributo diretto o indiretto di tutti
coloro che si riconoscono in un partito, ad una decisione politica. Vi sono
amici della DC grossetana, a livello provinciale e nei singoli comuni, che
ricoprono incarichi di partito ininterrottamente dai primi anni ’60, dal
paleolitico. Questi paleo-amici se vogliono realmente il bene del partito si
defilino dai vari consigli provinciali, comunali, dai comitati di partito
(senza pretendere in cambio posti caldi e di valore). È cambiato mezzo mondo e
le organizzazioni governate sempre dalle stesse facce vengono ripudiate. Non è
un problema di giovanilismo perché per dirla con Fanfani, chi nasce biscaro,
resta biscaro. Però vi è un limite oltre il quale si sfiora l’indecenza”.
◊ BUTTARE
ALLE ORTICHE LA CONFUSIONE TRA IN-CARICHI
“È questa un’altra scoria da
disintegrare. Quando una persona assomma su di sé più incarichi elettivi ai
vari livelli o assomma incarichi elettivi e non elettivi in Enti economici o in
Aziende municipalizzate, vuol dire che di mezzo c’è qualche disfunzione o
qualche interesse e, comunque, si creano i presupposti per la non trasparenza
della vita politica e amministrativa”.
◊
DEMOLIRE I PRESUPPOSTI DELLA LOTTIZZAZIONE
“È proprio l’ora di finirla con le
pratiche della spartizione di incarichi pubblici in spregio alla competenza
professionale e tenendo esclusivamente conto della appartenenza e della fedeltà
al partito, alla corrente, al gruppo, andando, così, a creare i presupposti
della inefficienza del sistema. Questo è un bubbone doloroso perché la cattiva
amministrazione è più grave del malaffare. Il secondo fa infatti parte degli
incerti della politica, mentre la cattiva amministrazione è il sovvertimento
programmatico del fine proprio della politica, ossia la cura scrupolosa del
bene comune. Allora, cosa fare? Oltre ad una specie di autoregolamentazione
morale, si dovrebbe scegliere la via della riduzione del montepremi: cioè
operare una drastica riduzione del numero di posti riservati alla designazione
partitica per dare più largo spazio ai vagli di professionalità, curricolari,
di esperienza”.
◊ FINE
DELL’ERA DEI PORTABORSE
“Altra entità da alienare sono i
portaborse che, per definizione, sono coloro che lavorano servilmente per un
personaggio potente o importante, confidando di trarne vantaggio; anche perché
abbiamo scoperto che alcuni di questi soggetti erano dei veri e propri
portaborse-valori. Sta proprio nel superamento di questo modo d’essere uno
degli snodi fondamentali del rinnovamento del partito. Vi sono, infatti, amici
che operano nel partito con questo difetto di fabbrica che rende il loro prodotto
inservibile, anzi, dannoso”.
◊ AZZERARE
IL TESSERAMENTO
“Meno male che i nuovi dirigenti
nazionali stanno imponendo scelte sagge e coraggiose: una di queste è
l’azzeramento del tesseramento. Il tesseramento che abbiamo è in buona parte
truccato. Basti pensare ai pacchetti di tessere che talvolta giungono nelle
sezioni senza un volto, cioè senza che dietro vi siano persone realmente
impegnate e simpatizzanti. Per non parlare poi dei Congressi provinciali che
dovrebbero essere il momento di maggiore coinvolgimento di tutta la base e che,
invece, sono pertinenza di un ristrettissimo nucleo di uomini, che si
combattono, si accordano, poi si ricombattono e, in fondo, si riaccordano,
sostenuti da un manipolo di iscritti. L’azzeramento del tesseramento è allora
indispensabile per purificare il partito e per rappresentare il punto di
partenza di un partito senza più tessere, aperto, trasparente, dove l’adesione
sia sancita dall’impegno a favore di una causa e continuamente verificata nel
crogiuolo della partecipazione”.
◊ SBLOCCARE
L’ATTUALE MECCANISMO DI SELEZIONE DEI RESPONSABILI
“Una forza politica autenticamente
popolare ha il dovere e la necessità di dotarsi di un gruppo di responsabili
capaci, preparati, intelligenti, moralmente irreprensibili. Un tempo vi erano
un insieme di elementi vivi della comunità, di circuiti che consentivano questa
selezione: erano il mondo cattolico, le categorie economiche, l’associazionismo
in genere, il sindacato. Ad un certo punto – anche da noi – questa valvola
naturale, che sapientemente calibrava i ritmi del ricambio, si è occlusa. Ed
allora le segreterie particolari e i centri studi sono rimasti gli unici
magazzini nei quali pescare il personale politico che tra l’altro assicuravano,
proprio per le loro origini, le maggiori garanzie di fedeltà e di cieca e
incondizionata servitù.
Se veramente vogliamo un partito
diverso, dobbiamo dire che non è possibile costruirlo senza una diversa chiave
di accesso all’assunzione delle responsabilità. Dobbiamo riaprire nuovi canali,
provenienti dalle realtà vive della società, senza ovviamente ripescare forme
di neo-collateralismo, ma pensando ad una repubblica dei cittadini”.
◊
CAMBIAMENTO DELLA DIRIGENZA PROVINCIALE
“È l’ultimo grosso masso che ci sembra
debba essere rimosso: il cambiamento della dirigenza provinciale (di
maggioranza e di minoranza) perché delegittimata. Infatti, quando l’assunzione
e la suddivisione delle responsabilità non è fatta per concorrere al bene del
Paese, della provincia, della città, ma è fatta per allargare l’area di potere
controllata, cade la motivazione su cui si fonda l’esercizio del ruolo; quindi
cade la legittimità. Non ci riferiamo alle singole persone in quanto tali,
alcune animate da buona volontà; delegittimata è la logica che ha prodotto
questa classe dirigente. E anche arrugginiti, sino all’inverosimile, sono i
rapporti personali.
Se vogliamo rinnovare questo partito,
a livello provinciale, abbiamo bisogno di gente nuova, nella quale non sia
depositata quella ruggine che impedisce ad alcuni dirigenti di rivolgersi
financo la parola”.
◊ CI
CANDIDIAMO ALLA GUIDA DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA PROVINCIALE
“Per muovere
i detriti accennati e collocare mattoni nuovi – da noi intravisti nel filone
del cattolicesimo democratico – ci candidiamo alla guida del partito. Non da
soli; magari insieme ai tanti che vorranno condividere l’avventura del
rinnovamento e con chiunque non abbia la pretesa di portare a casa qualcosa per
sé, ma si ponga nella disponibilità a perdere se stesso, il proprio tempo, le
proprie cose”.
Ritenevamo
infatti che “il cattolicesimo democratico
può essere, e di fatto oggi è, l’unica area di pensiero in cui permane e può
essere alimentata una nuova progettualità politica.
In una fase di crisi delle ideologie e
di rampante pragmatismo e in un momento storico nel quale la sinistra ha da
molto tempo cessato di elaborare proposte politiche originali (al punto di
doversi spesso aggrappare alle componenti più avanzate dell’un tempo odiato
liberalismo), nell’area cattolico democratica vi è una potente carica di
progettualità. Tratto caratteristico della storia e della cultura di
ispirazione cristiana, non sempre raccolto degnamente dai suoi eredi ed
interpreti, ma costituente una sorta di fiume carsico capace di riemergere
periodicamente e di fecondare, con le sue acque, nuove stagioni della storia”.
Concludevamo
la prima parte della nostra analisi affermando che “il futuro ha bisogno anche dell’impegno dei cattolici perché alla
centralità della persona non si sostituisca il primato del mondo delle cose”.
Il documento
che consegnammo proseguiva con la seconda parte intitolata Per una politica della moralità e della competenza, esposta da
Mario Luti e articolata in: regole e frammenti per il partito nuovo e per la
selezione dei candidati alle elezioni; il concetto della nuova forma partito;
le regole nuove. E una terza parte intitolata: Per una politica della solidarietà, presentata da Bulfardo
Romualdi, e così strutturata: la politica economica nazionale e provinciale:
analisi e proposte; l’economia regionale.
Seguirono
svariati interventi: Donati, Saccardi, Piccolotti e altri, tutti tesi a
motivare il significato della nostra iniziativa ed anche a precisare quello che
avevo affermato nel primo intervento:
“Di fronte alla rovina della antica
casa, alcuni amici hanno reagito sposando le suggestioni de Il Movimento per la
democrazia-La Rete, altri quelle dei Popolari per la riforma, altri ancora,
specie nel Nord, quelle della Lega Nord. Movimenti sui quali abbiamo giudizi
assai diversificati, ma che anche per molti cattolici rappresentano scialuppe
di salvataggio nel caso che l’evoluzione dei prossimi mesi dovesse dimostrare
che la barca principale (la DC) non regge.
Noi rispettiamo queste espressioni
della società civile ed anzi ci sforziamo di cogliere le sfide positive che da
loro provengono: la riforma dei partiti e il ricambio della classe politica, la
questione morale, la revisione della politica del Mezzogiorno, la lotta alla
Mafia e, per le alleanze, la centralità dei contenuti e il superamento degli
schieramenti a favore delle competenze. Ci permettiamo, però, di affermare che
noi lavoriamo per il rinnovamento della politica e per dare una risposta utile
a quelle e ad altre sfide che il nostro tempo ci pone dinanzi, non subendo il
fascino di certi trasversalismi che rischiano di diventare obliqui, ma
presupponendo ancora la necessità di uno strumento in politica che chiaramente
si ispiri alla identità cristiana”.
Insistevamo,
cioè, su una linea alla quale la storia e le nostre biografie un po’ ci
costringevano: quella di pensare che vi erano “tutta una serie di valori-base che dovrebbero essere realizzati e che
hanno una loro intrinseca unitarietà. Sono i valori della dottrina sociale
cattolica che, per inverarsi in politica, hanno anche bisogno di uno strumento
che a quegli ideali espressamente si riferisca”.
“Perché mai – pensavamo con Martinazzoli – dovremmo sciogliere il nostro partito in un
indistinto di cui non conosciamo i contenuti? Oltretutto non abbiamo alcun
dubbio sul fatto che la nostra idea è fresca, originale e non ha bisogno di
nascondersi, ma anzi di rendersi visibile”.
Era l’idea
sturziana di dar vita ad un soggetto politico di sinistra liberal-sociale,
aperto a tutti i riformisti, credenti e non credenti, che era ancora nella
nostra mente e legna del nostro fuoco.
Era
il progetto che P. Bartolomeo Sorge stava
da tempo suggerendo in Italia.
Ecco, se proprio vogliamo cercare un indiretto ispiratore del mio e del nostro agire politico di quel periodo, possiamo trovarlo in quel gesuita lucidissimo.