lunedì 26 aprile 2021

POST 28 – RIFONDAZIONE E ROTTAMAZIONE DEMOCRISTIANA

L’ultima chance. Il 12 dicembre 1992 a Grosseto insieme a un bel gruppo di amici presentammo le nostre idee per il rilancio. La nostra rottamazione: rimuovere i detriti, il partito è una necropoli, abbattere il clientelismo-nepotismo, fine del professionismo politico, buttare alle ortiche la confusione tra incarichi, fine dell’era dei portaborse, azzerare il tesseramento, cambiare la dirigenza provinciale. Per una politica della speranza, con in mente Padre Bartolomeo Sorge

Perché a fine ’92 – insieme a Giuseppe Andreini, Paolo Balloni, Raffaele Buonomo, Daniele Capperucci, Giuliano Carli, Alberto Ceccarelli, Carlo Corridori, Antonio Esposito, Alerio Fabbreschi, Adalgiso Furzi, Paolo Giulietti, Silvano Gobbi, Mario Luti, Lorenzo Mascagni, Agostino Megale, Luciano Migliorini, Roberto Perissi, Bruno Piccolotti, Sandro Pirisi, Franco Rapezzi, Bulfardo Romualdi, Piero Rossi, Mario Saccardi, Paolo Vignoli, cioè a persone di varia collocazione interna alla DC e qualcuna con un piede dentro e uno fuori – decidemmo di dar vita a quella che fu chiamata “Rifondazione democristiana”?

Per tre motivi di fondo.

Il primo motivo riguardava il totale sbando nel quale stava navigando il partito al livello provinciale: inefficiente, insignificante, chiuso a riccio nelle sue cosucce interne, addirittura peggiorato nei due anni post-congressuali. Guidato da una direzione prigioniera del nulla, senza una linea politica, economica, culturale, sanitaria. Un partito senza proposte per rinnovarsi e che non aveva fatto niente per equipaggiarsi di un gruppo di responsabili adatto ai tempi nuovi. Dove stazionavano personaggi logorati dal continuo patteggiamento del potere, piccolo o grande che fosse e dove le correnti continuavano a sostituire il partito. Ciascuna con il proprio leader, le proprie riunioni separate, le proprie sedi, la rispettiva quota di potere nella gestione del partito e nelle istituzioni locali, la propria clientela da piazzare nei posti che contano. Era un sistema assimilabile ad una S.p.A. che in base al pacchetto di azioni – in questo caso le tessere – accumulava quote di potere. Di lavoro insieme, di linea politica discussa e condivisa non c’era neppure l’ombra: la disorganizzazione regnava sovrana e la lontananza dalla gente era siderale.

 

A fronte di tanta pochezza, a livello della Dc nazionale sembrava manifestarsi un tentativo di forte rinnovamento (ed è il secondo motivo).

La DC si era trovata a fare i conti con il colpo di acceleratore impresso dalla storia e il colpo di freno del suo rinnovamento negli ultimissimi anni. Così il ritardo si era accumulato e la rincorsa era divenuta drammatica. Eppure negli ultimi mesi quella rincorsa aveva ritrovato slancio e la DC provava a cambiare rotta.

Il drastico giro di vite della crisi del sistema (l’allargarsi a dismisura della frana di Tangentopoli, le questioni economiche e valutarie, il trionfo della Lega) aveva determinato il formarsi di una larga opinione comune che solo la riforma potesse salvare la DC.

Lo stesso terreno di scontro era cambiato. La foto di gruppo della DC fino al 5 aprile e anche subito dopo (che contrapponeva Andreotti a De Mita come i due poli principali della conservazione e della riforma e lasciava a Forlani lo spazio di una difficile mediazione tra le loro opposte ragioni) era assai diversa dalla foto di gruppo di fine ’92: vi campeggiava un nuovo gruppo dirigente che sulla riforma della politica giocava la sua stessa esistenza; vi figurava De Mita, più appartato, ma sempre impegnato a realizzare il suo disegno di riordino istituzionale e vi era Segni, un po’ defilato, ma ancora teso a conciliare la sua riforma e il suo partito. Al conflitto tra chi immaginava di restare fermo e chi indicava l’urgenza di muoversi, si era sostituito il conflitto tra tutti quelli che proponevano di muoversi in direzioni diverse.

Cambiando il gruppo dirigente la DC cambiava in parte fisionomia e giocando la partita delle nuove regole si vedeva costretta ad abbandonare il vecchio gioco del pendolo – uno dei giochi più praticati negli ultimi 15 anni: prima Zaccagnini (sinistra), poi il Preambolo (centro); poi De Mita (sinistra) e di nuovo Forlani (centro) – che passava il bastone del comando dal centro alla sinistra, da questa al centro e così via, in nome della centralità del partito negli equilibri generali della politica.

A fine ‘92 quel pendolo non funzionava più. Dimostrazione ne era il fatto che a Segretario della DC era stato acclamato, con poteri quasi commissariali, un personaggio minoritario come Martinazzoli. La crisi complessiva aveva dissolto di colpo quella trama nervosa che fino a poco tempo prima regolava gli equilibri interni alla DC e, tramite essa, della politica italiana.

A nostro modo di vedere era iniziata la svolta.

Svolta reale? Illusione totale? Provammo ad optare per la prima soluzione. Altrimenti c’era solo lo strappo definitivo, l’abbandono.

Le dure parole di Martinazzoli, nella sua devastante analisi della DC, denotavano un autentico desiderio di cambiamento: “il partito è un cimitero, non c’è più il quartier generale, spesso bombardato, ma che spesso si bombarda da sé. Non è vero che ci assediano, ci assediamo da soli. Non ci sono più le prime linee, le retrovie, le salmerie… e …  i vecchi continuano a invecchiare e i giovani preoccupano perché sono stati allevati in alambicchi di partito e ora fanno resistenza perché capiscono che se riusciremo a traghettare la DC finiranno per essere messi da parte perché sono una classe dirigente inservibile” (discorso a Mira, riportato in La Repubblica, 2.11.1992, pag. 5).

 

Il terzo motivo della nostra decisione, si basava su alcuni barlumi di novità che stavano emergendo dal monolite comunista. Infatti, se qualcosa si stava muovendo al livello provinciale questo era intravedibile in alcuni settori del PDS provinciale, allora guidati da Roberto Baricci. In una intervista a Il Tirreno – riferendosi alla proposta di legge sulla Elezione diretta del Sindaco, del Presidente della Provincia e dei Consigli Comunali e Provinciali – parlava della indizione di elezioni primarie sia per stabilire il campo dello schieramento che il capo della lista; e proponeva che il candidato a sindaco indicasse gli assessori esterni che voleva mettere al proprio fianco come pure le scelte che proponeva per l’Amministrazione.

Il tutto nel quadro della constatazione – per me ed altri da tempo vera – che la competizione e la collaborazione elettorale “non è più un fatto politico tra partiti vicini dal punto di vista ideale, ma tra partiti che si ritrovano su ipotesi di governo concrete” (Intervista al segretario provinciale PDS, Roberto Baricci, Il Tirreno, 4.12.1992).

Riguardo al PDS (pur con tutte le sue contraddizioni e i travagli interni post-Bolognina), non vedevo più le ragioni per continuare i pregiudizi che un tempo erano pure fondati. Chiedevo (insieme agli amici) politiche meno ondivaghe, la fine degli accordi quadro da imporre in tutti i comuni della provincia, osservavo che il cambiamento dovesse realmente coinvolgere anche loro, autentica struttura di potere in provincia, sulla quale non mi soffermo perché non la conoscevo dall’interno. Certo è che se la DC provinciale era quella descritta, gestendo briciole di potere, è un gioco da ragazzi immaginare cosa poteva accadere all’interno dell’organismo che aveva in mano il potere reale su tutto il territorio provinciale, diffuso come una piovra nelle istituzioni, nella società, nell’economia, con cinghie di trasmissione ancora fortissime nella CGIL e nelle associazioni di categoria. Non era più quello di un tempo, ma era ancora assai robusto.

 

Quello che ci premeva di più era ricordare che nella futura politica dei blocchi riformista e conservatore, anche noi ci candidavamo a guidare il primo.

Non potevamo immaginarci tra i conservatori, soprattutto per il fuoco riformatore che ci ardeva dentro e specie se i valori portanti dell’approccio riformista erano ancora: la giustizia sociale, intesa come uguaglianza della legge rispetto a tutte le categorie economiche e sociali; l’equità, consistente nell’assenza di privilegi a favore di qualcuno e di penalizzazione a scapito di qualche altro; la solidarietà, come attenzione al terzo escluso; la democrazia diffusa, cioè la garanzia che ogni decisione di rilievo per la vita della comunità fosse presa dopo una consultazione diretta della comunità stessa; la pulizia, l’onestà, la voglia di cambiamento. Per tutti questi motivi e chissà per quali altri (magari, qualche nostra personale ambizione) nacque l’iniziativa della rifondazione democristiana. Evidentemente anche perché l’asticella della nostra sopportazione non aveva ancora raggiunto il livello della tracimazione.

 

Iniziativa che si concretizzò nel CONVEGNO DEL 12 DICEMBRE 1992 presso la sala Friuli di Grosseto, preceduto da una conferenza stampa di presentazione, dall’emblematico titolo: Per una rifondazione della Democrazia Cristiana. Costituente di un movimento di orientamento, di partecipazione, di proposta politica, di mobilitazione.

Relatori fummo io, Mario Luti, Bulfardo Romualdi. A me fu assegnata la relazione Per una politica della speranza.

Quello che segue è una parte di quell’articolato intervento che scaturì da 5 o 6 incontri preparatori e che per esteso può essere letto su http://stefanogentili.blogspot.com/2015/02/

 

◊ PER UNA POLITICA DELLA SPERANZA L’ISPIRAZIONE CRISTIANA FONDAMENTO DEL NUOVO, TRA VECCHI BOIARDI E NUOVI FERMENTI

La prima parte di quel pomeriggio decollò con il mio intervento dal titolo sopra riportato.

Dopo il seguente incipit: “Quello che stiamo vivendo è un tempo particolare perché tempo di passaggio tra un’Italia che fu (che è giunta sino a noi, ma che non ha futuro) e un’Italia che verrà. Tempo di passaggio, quindi, tempo di crisi”, svolsi un’analisi abbastanza ampia su: crisi e bisogno della politica, crisi e bisogno dei partiti, crisi e bisogno della DC, il nuovo che avanza a livello nazionale, progressisti e conservatori in provincia, appello ai liberi forti e ai cattolici. A questi ultimi dedicammo queste parole: “Rivolgiamo questo s.o.s. al mondo cattolico delle tre diocesi della provincia di Grosseto con la forza serena e disarmata di chi vive esistenzialmente all’interno di quel mondo, vi opera quotidianamente, vi soffre le difficoltà e vi trae alimento per l’impegno. Fratelli, è ormai tempo di svegliarci dal sonno!”.

 

◊ RIMUOVERE I DETRITI E COLLOCARE I MATTONI

“La nostra non è una iniziativa contro qualcuno, ma per qualcosa o, se vogliamo essere più analitici, è anche contro quanti volessero procedere mettendo il vino nuovo in otri vecchi o, gattopardescamente, fingessero di cambiare qualcosa – magari di esterno e formale – per lasciare tutto come prima nella sostanza, mostrando di non aver capito la lezione del 5 aprile (c’erano state le elezioni politiche con la Dc che aveva perso il 5%, l’affermazione della Lega e della Rete, il crollo del 10% dal PCI al PDS), né la forte domanda di rinnovamento che sale dalla gente”. Se, per esempio, “qualcuno pensasse di gestire le decisioni dell’ultima Direzione Nazionale DC sulla celebrazione dei Congressi provinciali, regionali, comunali, stancamente o nella vecchia logica delle truppe cammellate, senza cogliere l’opportunità di una reale apertura del partito all’esterno sarebbe meglio per lui che si legasse una macina al collo”, dichiaravamo in nota.

 

◊ MA IL PARTITO, ANCHE IN PROVINCIA, È UNA NE-CROPOLI

“Il nostro intento è dunque quello di lavorare sin da subito alla rimozione dei detriti e alla ricollocazione dei mattoni per restaurare la casa. Prima di indicare i detriti o meglio i grossi massi che debbono essere rimossi, ci siano consentiti due gesti: uno di umiltà e l’altro di trasparenza. Con il gesto di umiltà, pur avendo contribuito in minima parte alla formazione dei detriti o non avendo contribuito affatto, decidiamo di assumerci in solido le responsabilità delle non poche scorie che il partito ha accumulato e ne chiediamo pubblicamente scusa. Con il gesto di trasparenza decidiamo di dire con chiarezza quali sono le scorie che, a nostro modo di vedere, debbono essere necessariamente eliminate. Precisando che quasi tutti i detriti che andremo a citare sono presenti anche negli altri partiti, talvolta in forme ben più gravi della nostra. Ma se vogliamo contribuire al rinnovamento complessivo della politica ciascuno deve in primo luogo ripulire se stesso e la propria abitazione” (e qui, in nota citavamo una frase di Confucio).

 

◊ ABBATTERE IL CORRENTISMO

“La prima scoria da eliminare si chiama correntismo. L’unica realtà solida della Dc provinciale sono le correnti che sostituiscono (in negativo) il partito. Un sistema quasi moderno, che viene gestito in modo tribale dai patriarchi che decidono per tutti in base ai loro particolari interessi.

Che senso ha nella drammatica situazione attuale, con i Cananei e gli Amorrei alle porte, dirsi sempre della tribù di Efraim, Beniamino e Manasse? Che senso ha dirsi di De Mita, di Gava, di Forlani, di Andreotti? Che senso ha dirsi della corrente di Corsi, Bellettini, Andrei, Brogi, Paolini? Ricordava qualche giorno fa Franco Marini che solo uno sciagurato potrebbe pensare e ragionare, in questo momento, in base a logiche di corrente. E il Segretario Martinazzoli nella relazione al C.N. dichiarava che abbiamo bisogno di un partito aperto all’esterno, liberato dalle logiche correntizie, oligarchiche. Ecco perché diciamo con forza a chi ha avuto la ventura di imbattersi nelle torri d’avorio delle correnti: disarmate queste potenziali bombe ad orologeria che stanno per esplodere distruggendo tutto e tutti; abbandonatele, fate mancare la vostra presenza. Noi l’abbiamo fatto!”.

 

◊ MESSA AL BANDO DEL CLIENTELISMO-NEPOTISMO

“Sarà anche vero – come ebbe a dichiarare il segretario provinciale Andrei nel Comitato Provinciale del 20.5.1992 – che la DC grossetana è pulita. Quello che però è certo è che in non poche occasioni ha attecchito il clientelismo, sotto forma di voto di scambio. Tessere o voti accumulati dietro benemerenze, promozioni e assunzioni hanno rappresentato una certa fetta dei detriti che devono essere rimossi. E non serve dire che in provincia gli altri partiti, quelli che governano, hanno fatto anche di peggio. Sta di fatto che tali comportamenti sono moralmente repellenti. Va quindi espulso dal partito chi ricorre all’uso di mezzi equivoci o illeciti per conquistare ad ogni costo il potere (citazione ripresa da Christifideles Laici, n. 42)”.

 

◊ FINE DEL PROFESSIONISMO POLITICO

“Quando la politica da passione diventa professione, quando al provvisorio subentra il permanente vi è una logica tendenza dell’organizzazione a trasformarsi in oligarchia e viene meno la partecipazione politica, ossia il contributo diretto o indiretto di tutti coloro che si riconoscono in un partito, ad una decisione politica. Vi sono amici della DC grossetana, a livello provinciale e nei singoli comuni, che ricoprono incarichi di partito ininterrottamente dai primi anni ’60, dal paleolitico. Questi paleo-amici se vogliono realmente il bene del partito si defilino dai vari consigli provinciali, comunali, dai comitati di partito (senza pretendere in cambio posti caldi e di valore). È cambiato mezzo mondo e le organizzazioni governate sempre dalle stesse facce vengono ripudiate. Non è un problema di giovanilismo perché per dirla con Fanfani, chi nasce biscaro, resta biscaro. Però vi è un limite oltre il quale si sfiora l’indecenza”.

 

◊ BUTTARE ALLE ORTICHE LA CONFUSIONE TRA IN-CARICHI

“È questa un’altra scoria da disintegrare. Quando una persona assomma su di sé più incarichi elettivi ai vari livelli o assomma incarichi elettivi e non elettivi in Enti economici o in Aziende municipalizzate, vuol dire che di mezzo c’è qualche disfunzione o qualche interesse e, comunque, si creano i presupposti per la non trasparenza della vita politica e amministrativa”.

 

◊ DEMOLIRE I PRESUPPOSTI DELLA LOTTIZZAZIONE

“È proprio l’ora di finirla con le pratiche della spartizione di incarichi pubblici in spregio alla competenza professionale e tenendo esclusivamente conto della appartenenza e della fedeltà al partito, alla corrente, al gruppo, andando, così, a creare i presupposti della inefficienza del sistema. Questo è un bubbone doloroso perché la cattiva amministrazione è più grave del malaffare. Il secondo fa infatti parte degli incerti della politica, mentre la cattiva amministrazione è il sovvertimento programmatico del fine proprio della politica, ossia la cura scrupolosa del bene comune. Allora, cosa fare? Oltre ad una specie di autoregolamentazione morale, si dovrebbe scegliere la via della riduzione del montepremi: cioè operare una drastica riduzione del numero di posti riservati alla designazione partitica per dare più largo spazio ai vagli di professionalità, curricolari, di esperienza”.

 

◊ FINE DELL’ERA DEI PORTABORSE

“Altra entità da alienare sono i portaborse che, per definizione, sono coloro che lavorano servilmente per un personaggio potente o importante, confidando di trarne vantaggio; anche perché abbiamo scoperto che alcuni di questi soggetti erano dei veri e propri portaborse-valori. Sta proprio nel superamento di questo modo d’essere uno degli snodi fondamentali del rinnovamento del partito. Vi sono, infatti, amici che operano nel partito con questo difetto di fabbrica che rende il loro prodotto inservibile, anzi, dannoso”.

 

◊ AZZERARE IL TESSERAMENTO

“Meno male che i nuovi dirigenti nazionali stanno imponendo scelte sagge e coraggiose: una di queste è l’azzeramento del tesseramento. Il tesseramento che abbiamo è in buona parte truccato. Basti pensare ai pacchetti di tessere che talvolta giungono nelle sezioni senza un volto, cioè senza che dietro vi siano persone realmente impegnate e simpatizzanti. Per non parlare poi dei Congressi provinciali che dovrebbero essere il momento di maggiore coinvolgimento di tutta la base e che, invece, sono pertinenza di un ristrettissimo nucleo di uomini, che si combattono, si accordano, poi si ricombattono e, in fondo, si riaccordano, sostenuti da un manipolo di iscritti. L’azzeramento del tesseramento è allora indispensabile per purificare il partito e per rappresentare il punto di partenza di un partito senza più tessere, aperto, trasparente, dove l’adesione sia sancita dall’impegno a favore di una causa e continuamente verificata nel crogiuolo della partecipazione”.

 

◊ SBLOCCARE L’ATTUALE MECCANISMO DI SELEZIONE DEI RESPONSABILI

“Una forza politica autenticamente popolare ha il dovere e la necessità di dotarsi di un gruppo di responsabili capaci, preparati, intelligenti, moralmente irreprensibili. Un tempo vi erano un insieme di elementi vivi della comunità, di circuiti che consentivano questa selezione: erano il mondo cattolico, le categorie economiche, l’associazionismo in genere, il sindacato. Ad un certo punto – anche da noi – questa valvola naturale, che sapientemente calibrava i ritmi del ricambio, si è occlusa. Ed allora le segreterie particolari e i centri studi sono rimasti gli unici magazzini nei quali pescare il personale politico che tra l’altro assicuravano, proprio per le loro origini, le maggiori garanzie di fedeltà e di cieca e incondizionata servitù.

Se veramente vogliamo un partito diverso, dobbiamo dire che non è possibile costruirlo senza una diversa chiave di accesso all’assunzione delle responsabilità. Dobbiamo riaprire nuovi canali, provenienti dalle realtà vive della società, senza ovviamente ripescare forme di neo-collateralismo, ma pensando ad una repubblica dei cittadini”.

 

◊ CAMBIAMENTO DELLA DIRIGENZA PROVINCIALE

“È l’ultimo grosso masso che ci sembra debba essere rimosso: il cambiamento della dirigenza provinciale (di maggioranza e di minoranza) perché delegittimata. Infatti, quando l’assunzione e la suddivisione delle responsabilità non è fatta per concorrere al bene del Paese, della provincia, della città, ma è fatta per allargare l’area di potere controllata, cade la motivazione su cui si fonda l’esercizio del ruolo; quindi cade la legittimità. Non ci riferiamo alle singole persone in quanto tali, alcune animate da buona volontà; delegittimata è la logica che ha prodotto questa classe dirigente. E anche arrugginiti, sino all’inverosimile, sono i rapporti personali.

Se vogliamo rinnovare questo partito, a livello provinciale, abbiamo bisogno di gente nuova, nella quale non sia depositata quella ruggine che impedisce ad alcuni dirigenti di rivolgersi financo la parola”.

 

◊ CI CANDIDIAMO ALLA GUIDA DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA PROVINCIALE

“Per muovere i detriti accennati e collocare mattoni nuovi – da noi intravisti nel filone del cattolicesimo democratico – ci candidiamo alla guida del partito. Non da soli; magari insieme ai tanti che vorranno condividere l’avventura del rinnovamento e con chiunque non abbia la pretesa di portare a casa qualcosa per sé, ma si ponga nella disponibilità a perdere se stesso, il proprio tempo, le proprie cose”.

Ritenevamo infatti che “il cattolicesimo democratico può essere, e di fatto oggi è, l’unica area di pensiero in cui permane e può essere alimentata una nuova progettualità politica.

In una fase di crisi delle ideologie e di rampante pragmatismo e in un momento storico nel quale la sinistra ha da molto tempo cessato di elaborare proposte politiche originali (al punto di doversi spesso aggrappare alle componenti più avanzate dell’un tempo odiato liberalismo), nell’area cattolico democratica vi è una potente carica di progettualità. Tratto caratteristico della storia e della cultura di ispirazione cristiana, non sempre raccolto degnamente dai suoi eredi ed interpreti, ma costituente una sorta di fiume carsico capace di riemergere periodicamente e di fecondare, con le sue acque, nuove stagioni della storia”.

Concludevamo la prima parte della nostra analisi affermando che “il futuro ha bisogno anche dell’impegno dei cattolici perché alla centralità della persona non si sostituisca il primato del mondo delle cose”.

 

Il documento che consegnammo proseguiva con la seconda parte intitolata Per una politica della moralità e della competenza, esposta da Mario Luti e articolata in: regole e frammenti per il partito nuovo e per la selezione dei candidati alle elezioni; il concetto della nuova forma partito; le regole nuove. E una terza parte intitolata: Per una politica della solidarietà, presentata da Bulfardo Romualdi, e così strutturata: la politica economica nazionale e provinciale: analisi e proposte; l’economia regionale.

Seguirono svariati interventi: Donati, Saccardi, Piccolotti e altri, tutti tesi a motivare il significato della nostra iniziativa ed anche a precisare quello che avevo affermato nel primo intervento:

“Di fronte alla rovina della antica casa, alcuni amici hanno reagito sposando le suggestioni de Il Movimento per la democrazia-La Rete, altri quelle dei Popolari per la riforma, altri ancora, specie nel Nord, quelle della Lega Nord. Movimenti sui quali abbiamo giudizi assai diversificati, ma che anche per molti cattolici rappresentano scialuppe di salvataggio nel caso che l’evoluzione dei prossimi mesi dovesse dimostrare che la barca principale (la DC) non regge.

Noi rispettiamo queste espressioni della società civile ed anzi ci sforziamo di cogliere le sfide positive che da loro provengono: la riforma dei partiti e il ricambio della classe politica, la questione morale, la revisione della politica del Mezzogiorno, la lotta alla Mafia e, per le alleanze, la centralità dei contenuti e il superamento degli schieramenti a favore delle competenze. Ci permettiamo, però, di affermare che noi lavoriamo per il rinnovamento della politica e per dare una risposta utile a quelle e ad altre sfide che il nostro tempo ci pone dinanzi, non subendo il fascino di certi trasversalismi che rischiano di diventare obliqui, ma presupponendo ancora la necessità di uno strumento in politica che chiaramente si ispiri alla identità cristiana”.

Insistevamo, cioè, su una linea alla quale la storia e le nostre biografie un po’ ci costringevano: quella di pensare che vi erano “tutta una serie di valori-base che dovrebbero essere realizzati e che hanno una loro intrinseca unitarietà. Sono i valori della dottrina sociale cattolica che, per inverarsi in politica, hanno anche bisogno di uno strumento che a quegli ideali espressamente si riferisca”.

“Perché mai – pensavamo con Martinazzoli – dovremmo sciogliere il nostro partito in un indistinto di cui non conosciamo i contenuti? Oltretutto non abbiamo alcun dubbio sul fatto che la nostra idea è fresca, originale e non ha bisogno di nascondersi, ma anzi di rendersi visibile”.

 

Era l’idea sturziana di dar vita ad un soggetto politico di sinistra liberal-sociale, aperto a tutti i riformisti, credenti e non credenti, che era ancora nella nostra mente e legna del nostro fuoco.

Era il progetto che P. Bartolomeo Sorge stava da tempo suggerendo in Italia.

Ecco, se proprio vogliamo cercare un indiretto ispiratore del mio e del nostro agire politico di quel periodo, possiamo trovarlo in quel gesuita lucidissimo.

 





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