Entrai ufficialmente nella Dc nel 1987, impegnandomi nella sezione di Pitigliano. Poi vi fu una proiezione provinciale e partì l’avventura, con l’elmetto
Partiamo
dunque dall’inizio, preceduto da due o tre anni di attività politica locale,
scusandomi se autoincenserò la mia azione e il ricordo apparirà a tratti
apologetico. Pur tentando in tutti i modi di presentare un resoconto obiettivo
non escludo la possibilità di aver filtrato quel periodo con un’abbondante dose
di faziosità. Ma tant’è.
• Il 1987 fu l’anno del mio ingresso ufficiale
in politica.
Mi iscrissi
alla DC nella sezione di Pitigliano. Provammo ad iniziare un po’ di
rinnovamento specie insieme a Stefano Renzi e pochi altri amici: aprimmo una
nuova sezione in via Marconi (ora via Maddalena Ciacci, 5) al posto di quella
carbonara de La Fratta, iniziammo la pubblicazione di un giornalino fatto in
casa sulle tematiche politiche locali, provammo anche iniziative di tipo
storico-culturale come la commemorazione di Aldo Moro a 10 anni dalla sua barbara
uccisione e spesso ci presentavamo alle sedute del consiglio comunale.
A quel tempo
erano ancora in auge le bacheche sulle quali ci prendevamo a pesci in faccia
con la sezione socialista che rispondeva con la penna di Bruno Giusti e quella
comunista con la biro del duo Savelli. Una parte della popolazione sembrava
mostrarci rinnovata fiducia e questo si tradusse, probabilmente, anche in
consenso. Le comunali del 1985 erano state infatti stravinte dalla coalizione
social-comunista con 1338 voti contro i 443 alla lista DC più altri 100 voti
andati alla Fiamma Tricolore. Le comunali del 1990, sempre vinte di gran lunga
dai social-comunisti (1600 voti circa) con l’acchiappa-voti Augusto Brozzi (che
ricordo con affetto), ci videro secondi con circa 900 voti e la Fiamma sempre
ancorata ad un’ottantina. Tra l’altro fui anche eletto consigliere comunale
subito dopo il capolista Enrico Torrini (che ricordo con amicizia), insieme ad
Angelo Biondi e Gianfranco Franci. Nonostante questo attivismo non riuscimmo
per nulla a scalfire la mentalità dei pochi iscritti che, non facendo
assolutamente niente per il partito, sapevano sempre essere puntuali alle
chiamate congressuali dei capibastone provinciali e regionali.
• Nel frattempo, tramite l’attività
della scuola di formazione politica, avevo intessuto rapporti di amicizia con
un nutrito gruppo di persone, al 90% residenti nella diocesi di
Pitigliano-Sovana-Orbetello e la restante parte nella città di Grosseto. Le
opinioni che ci scambiavamo avevano sempre sullo sfondo il desiderio di
modificare lo stato di cose presente, magari con ricette diverse, perché
diverse erano le nostre storie: soprattutto cambiare la forza politica nella
quale quasi tutti militavamo (la DC), cambiare la geografia
politico-programmatica dei comuni della provincia, spingere, nel nostro
piccolo, per un cambiamento anche di quella nazionale.
Con questo
spirito partecipai al XVII congresso
provinciale della DC, convocato il 3-4 febbraio 1990, congresso che si
teneva ben 7 anni dopo quello precedente.
Mai mi sarei
aspettato che qualcuno pensasse di candidarmi a qualcosa. Invece 3 o 4 giorni
prima del congresso ricevetti una telefonata, non ricordo se da parte di
Rappezzi, Carli, Paladini o qualcun altro di quella che veniva chiamata la
sinistra DC, che mi chiedeva la
disponibilità a candidarmi alla segreteria provinciale. Candidatura a
perdere, naturalmente, visti i numeri già noti delle sezioni comunali; insomma
candidatura di servizio, come si diceva allora. La cosa mi sorprese, ci pensai
qualche ora, poi accettai la sfida. Dopo tutto, la differenza tra le persone la
fa il coraggio.
La sorpresa
non fu solo mia se il giornalista de La Nazione, Salvatore Mannino, il 3
febbraio, iniziava il suo articolo con quel Carneade,
chi era costui? di donabbondiana memoria, che è rimasto scolpito fino ad
oggi nella mia corteccia cerebrale.
“Già – continuava l’articolista – perché di Stefano Gentili, trentenne
rampante di Pitigliano, pochi hanno sentito parlare al di fuori del ristretto
novero degli addetti ai lavori. Non è membro della direzione, non fa parte del
comitato provinciale, non ha mai occupato lo scranno di un consiglio comunale.
Di lui si sa soltanto che è molto legato al mondo cattolico e che gode della
discreta stima delle gerarchie ecclesiastiche”. Avevo accettato, debole del
28% dei consensi dell’area che mi presentava, perché ritenevo di avere da dire
cose di un certo rilievo. Dopo tutto quello che ci eravamo detti con gli amici
di cui sopra e nelle attività di formazione politica, era venuta l’occasione di
parlare in un consesso provinciale, con la stampa che poteva annotare alcune
sollecitazioni che venivano dal mio pensiero.
• Quanto alle geografie interne al
partito non ne sapevo nulla, non essendomene mai interessato. E quindi nel
ricordarle commetterò qualche inesattezza. Appresi dalla stampa che lo
schieramento che appoggiava Alessandro Andrei (composto dal 38,5% del Grande
Centro e dal 20,5% di Presenza Sociale capeggiata da Alfonso Brogi) era quello
che avrebbe egemonizzato il congresso. Tra i primi (detti anche Dorotei)
c’erano anche “il fanfaniano Gabriele
Bellettini” e “l’adreottiano
Dondolini”. Affrico, che ricordo commosso. Era candidato anche “il bancario Simoncioli” (per dirla con
Mannino), fanfaniano del gruppo Fatarella, “ex
consigliere provinciale, da 20 anni consigliere comunale a Cinigiano” ed
ex-vice segretario provinciale, forte del 10% dei consensi. Insomma, c’era solo
“da aspettare che i gladiatori
scudocrociati – per dirla sempre con l’articolista de La Nazione – scendano nell’arena di Gorarella. A decidere
la loro sorte saranno 83 delegati del Grande centro, 45 di Presenza sociale, 23
fatarelliani, 61 della Sinistra e 4 del gruppo Terramoccia-Schiano”. Già,
c’erano anche questi ultimi valorosi.
I miei
ricordi continuano ad essere un po’ confusi ma vi erano delle cose veramente
singolari. Dunque, io ero stato candidato alla segreteria perché “nessuno dei maggiorenti corsiani” era “voluto scendere nell’arena di una battaglia
che sulla carta” era “perduta in
partenza” o come “agnello sacrificale
offerto sull’altare di una ricomposizione unitaria” (Mannino). E mi aveva
candidato la corrente di Sinistra che di sinistra aveva il giusto. Su una
politica delle alleanze – per dirla con l’acuto Giuliano Carli – “tesa a recuperare il tradizionale rapporto
con gli alleati di centro-sinistra dopo il giro di valzer con il PCI”
verificatosi a Orbetello e Scansano.
Sempre Carli,
nel citato articolo de La Nazione, affermava che la mia candidatura era invece
dovuta alla necessità “di ricambio
generazionale”, di “investimento
politico per il futuro”, “della
ricerca del legame con il retroterra cattolico”.
L’assai
composito gruppone in sostegno ad Andrei, che riteneva la mia candidatura “l’ennesimo errore politico” parlava
invece (nella mozione predisposta per il congresso) di “rottura di vecchi schemi” e rivendicava “il senso di responsabilità seguito nell’affrontare e risolvere gravi
situazioni in alcune amministrazioni comunali, anche se si trattava di seguire
con coraggio strade che non trovano riscontro nella tradizione del partito”
(La Nazione, 3 febbraio 1990). Posizione temperata da un inciso dove si
recitava che “l’ipotesi del cambiamento
intende più fondarsi sui contenuti che sulle formule” e “dovrà in ogni caso passare attraverso
un’effettiva disponibilità degli alleati del governo centrale, anche alla luce
delle ultime impostazioni del PCI”. Giro di parole per dire che i due
gruppi sostenitori di Andrei non erano per niente d’accordo sulla strategia
politica: Presenza sociale voleva, dove possibile, allearsi col PCI, il Grande
centro era contrario. Documento tipicamente democristiano. Non ricordo i
contenuti della mozione dei cosiddetti fanfaniani di Fatarella, detti anche
Brandaniani, ma il loro intento nobile era apparentemente quello di favorire un
accordo unitario.
• Prendo spunto da quest’ultimo
aggettivo per domandarmi. Cosa c’era di
nobile in tutto quel dimenarsi di correnti? Purtroppo nulla. Al di là dei
sinceri intenti di qualcuno, la stragrande maggioranza dei responsabili
provinciali giocavano in proprio: conquistare o comunque posizionarsi negli
organi dirigenti provinciali o regionali per poi ottenere candidature al
parlamento, alla regione, alla provincia e nei comuni più importanti. Per
essere indicati tra i sindaci revisori dell’Unità sanitaria locale e dei
comuni, supportati nelle carriere professionali, collocati nei posti apicali di
banche, cooperative, Provincia, in aziende private. Purtroppo la situazione si
replicava a livello territoriale, nelle sezioni comunali: sarebbe interessante
ricercare quanti di coloro che erano tesserati alla DC videro i propri figli o
altri parenti collocati nelle banche (specie Banca Toscana, MPS, Cassa di
risparmio di Firenze) o in altri enti pubblici. E queste persone, naturalmente,
tutte le volte che c’era da portare voti congressuali o politici a questo o a
quel capobastone, erano sempre in prima linea. Sia però chiaro, che se ripenso
alle persone che transitavano in quegli anni nel partito debbo per onestà
riconoscere che alcuni mostravano acume politico maturato nel tempo, altri una
buona preparazione culturale, altri ancora passione ideale e democratica. Erano
tutto fuorché degli sprovveduti. Molti si erano fatti sul campo. Quindi, onore
al merito. Ma l’andazzo che trovai nel 1990 (e anche qualche anno prima) era
ormai quello detto in precedenza. Tristemente quello.
• Dunque, io mi trovai candidato al
congresso provinciale della DC in quella situazione e in quel periodo.
Già, in quel periodo. Era da poco trascorso
il magico ’89 con l’autodistruzione del comunismo a causa del suo errore
antropologico, la fine dei regimi dittatoriali dell’Est, la caduta del muro di
Berlino. E l’unica cosa che i responsabili nazionali del partito avevano saputo
fare, era stato rievocare la scelta degasperiana del ’48 (senza dubbio allora
giusta e provvidenziale), non pensando minimamente che i sassi di quel muro
sarebbero caduti, di lì a poco, addosso alle democrazie occidentali, specie
quelle che si erano rette sulla diga al comunismo, travolgendo tutto: sistema
politico, partiti politici, cultura politica, nomenclatura politica, coperture
politiche. I responsabili locali della DC non avevano fatto nulla.
Ai miei occhi
(e a quelli di altri) si stava chiudendo una stagione politica caratterizzata a
livello nazionale dalla centralità democristiana per come l’avevamo conosciuta.
Vecchia centralità venuta meno per missione compiuta e non per le stupidaggini
di alcune ricostruzioni storiche farlocche.
Le circostanze di quel periodo stavano pertanto creando le condizioni per
uscire dalla stagione della democrazia bloccata ed entrare in quella della
democrazia matura.
Passaggio
questo che stava improvvisamente evidenziando come la forma-partito in cui si
era concretizzato per 50 anni il cattolicesimo democratico in Italia – quella
DC – avesse esaurito storicamente il suo compito, come detto, per aver compiuto
la sua missione.
Ora,
confrontare le necessità culturali e politiche di quella fase con il terminale
stato di salute della DC provinciale di allora (simile a quella dei comitati
provinciali DC di tutta Italia, superati solo dai socialisti rampanti del
periodo, largamente presente nel PCI anche se occultato dalla ideologia, dal
centralismo democratico e dalle organizzazioni collaterali, devastante anche nei
cosiddetti partiti laici) rende chiara la drammaticità e paradossalità del
contesto nel quale venni a trovarmi. C’era
da capire e provare ad evitare una quasi tragedia, ci si trovò a vivere una
farsa, tanto c’era da ridere, amaramente.
Capisco perfettamente che quanto detto può dare l’idea del Davide contro tutti: colui che ha capito tutto (io, il presuntuoso) e quasi tutti gli altri che non hanno compreso nulla. Non era proprio così, perché diverse volpi avevano ben capito l’aria che tirava, ma erano obnubilate solo dal proprio tornaconto personale. Molti non volevano arrendersi all’evidenza. Ed io non ero solo, perché altri amici avevano ben colto il tempo che stavamo vivendo.
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