giovedì 22 aprile 2021

POST 26 – “CARNEADE CHI ERA COSTUI?”. L’INATTESA CANDIDATURA AL CONGRESSO PROVINCIALE DC

Entrai ufficialmente nella Dc nel 1987, impegnandomi nella sezione di Pitigliano. Poi vi fu una proiezione provinciale e partì l’avventura, con l’elmetto

 

Partiamo dunque dall’inizio, preceduto da due o tre anni di attività politica locale, scusandomi se autoincenserò la mia azione e il ricordo apparirà a tratti apologetico. Pur tentando in tutti i modi di presentare un resoconto obiettivo non escludo la possibilità di aver filtrato quel periodo con un’abbondante dose di faziosità. Ma tant’è.


Il 1987 fu l’anno del mio ingresso ufficiale in politica.

Mi iscrissi alla DC nella sezione di Pitigliano. Provammo ad iniziare un po’ di rinnovamento specie insieme a Stefano Renzi e pochi altri amici: aprimmo una nuova sezione in via Marconi (ora via Maddalena Ciacci, 5) al posto di quella carbonara de La Fratta, iniziammo la pubblicazione di un giornalino fatto in casa sulle tematiche politiche locali, provammo anche iniziative di tipo storico-culturale come la commemorazione di Aldo Moro a 10 anni dalla sua barbara uccisione e spesso ci presentavamo alle sedute del consiglio comunale.

A quel tempo erano ancora in auge le bacheche sulle quali ci prendevamo a pesci in faccia con la sezione socialista che rispondeva con la penna di Bruno Giusti e quella comunista con la biro del duo Savelli. Una parte della popolazione sembrava mostrarci rinnovata fiducia e questo si tradusse, probabilmente, anche in consenso. Le comunali del 1985 erano state infatti stravinte dalla coalizione social-comunista con 1338 voti contro i 443 alla lista DC più altri 100 voti andati alla Fiamma Tricolore. Le comunali del 1990, sempre vinte di gran lunga dai social-comunisti (1600 voti circa) con l’acchiappa-voti Augusto Brozzi (che ricordo con affetto), ci videro secondi con circa 900 voti e la Fiamma sempre ancorata ad un’ottantina. Tra l’altro fui anche eletto consigliere comunale subito dopo il capolista Enrico Torrini (che ricordo con amicizia), insieme ad Angelo Biondi e Gianfranco Franci. Nonostante questo attivismo non riuscimmo per nulla a scalfire la mentalità dei pochi iscritti che, non facendo assolutamente niente per il partito, sapevano sempre essere puntuali alle chiamate congressuali dei capibastone provinciali e regionali.

 

Nel frattempo, tramite l’attività della scuola di formazione politica, avevo intessuto rapporti di amicizia con un nutrito gruppo di persone, al 90% residenti nella diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello e la restante parte nella città di Grosseto. Le opinioni che ci scambiavamo avevano sempre sullo sfondo il desiderio di modificare lo stato di cose presente, magari con ricette diverse, perché diverse erano le nostre storie: soprattutto cambiare la forza politica nella quale quasi tutti militavamo (la DC), cambiare la geografia politico-programmatica dei comuni della provincia, spingere, nel nostro piccolo, per un cambiamento anche di quella nazionale.

 

Con questo spirito partecipai al XVII congresso provinciale della DC, convocato il 3-4 febbraio 1990, congresso che si teneva ben 7 anni dopo quello precedente.

Mai mi sarei aspettato che qualcuno pensasse di candidarmi a qualcosa. Invece 3 o 4 giorni prima del congresso ricevetti una telefonata, non ricordo se da parte di Rappezzi, Carli, Paladini o qualcun altro di quella che veniva chiamata la sinistra DC, che mi chiedeva la disponibilità a candidarmi alla segreteria provinciale. Candidatura a perdere, naturalmente, visti i numeri già noti delle sezioni comunali; insomma candidatura di servizio, come si diceva allora. La cosa mi sorprese, ci pensai qualche ora, poi accettai la sfida. Dopo tutto, la differenza tra le persone la fa il coraggio.

La sorpresa non fu solo mia se il giornalista de La Nazione, Salvatore Mannino, il 3 febbraio, iniziava il suo articolo con quel Carneade, chi era costui? di donabbondiana memoria, che è rimasto scolpito fino ad oggi nella mia corteccia cerebrale.

“Già – continuava l’articolista – perché di Stefano Gentili, trentenne rampante di Pitigliano, pochi hanno sentito parlare al di fuori del ristretto novero degli addetti ai lavori. Non è membro della direzione, non fa parte del comitato provinciale, non ha mai occupato lo scranno di un consiglio comunale. Di lui si sa soltanto che è molto legato al mondo cattolico e che gode della discreta stima delle gerarchie ecclesiastiche”. Avevo accettato, debole del 28% dei consensi dell’area che mi presentava, perché ritenevo di avere da dire cose di un certo rilievo. Dopo tutto quello che ci eravamo detti con gli amici di cui sopra e nelle attività di formazione politica, era venuta l’occasione di parlare in un consesso provinciale, con la stampa che poteva annotare alcune sollecitazioni che venivano dal mio pensiero.

 

Quanto alle geografie interne al partito non ne sapevo nulla, non essendomene mai interessato. E quindi nel ricordarle commetterò qualche inesattezza. Appresi dalla stampa che lo schieramento che appoggiava Alessandro Andrei (composto dal 38,5% del Grande Centro e dal 20,5% di Presenza Sociale capeggiata da Alfonso Brogi) era quello che avrebbe egemonizzato il congresso. Tra i primi (detti anche Dorotei) c’erano anche “il fanfaniano Gabriele Bellettini” e “l’adreottiano Dondolini”. Affrico, che ricordo commosso. Era candidato anche “il bancario Simoncioli” (per dirla con Mannino), fanfaniano del gruppo Fatarella, “ex consigliere provinciale, da 20 anni consigliere comunale a Cinigiano” ed ex-vice segretario provinciale, forte del 10% dei consensi. Insomma, c’era solo “da aspettare che i gladiatori scudocrociati – per dirla sempre con l’articolista de La Nazione – scendano nell’arena di Gorarella. A decidere la loro sorte saranno 83 delegati del Grande centro, 45 di Presenza sociale, 23 fatarelliani, 61 della Sinistra e 4 del gruppo Terramoccia-Schiano”. Già, c’erano anche questi ultimi valorosi.

I miei ricordi continuano ad essere un po’ confusi ma vi erano delle cose veramente singolari. Dunque, io ero stato candidato alla segreteria perché “nessuno dei maggiorenti corsiani” era “voluto scendere nell’arena di una battaglia che sulla carta” era “perduta in partenza” o come “agnello sacrificale offerto sull’altare di una ricomposizione unitaria” (Mannino). E mi aveva candidato la corrente di Sinistra che di sinistra aveva il giusto. Su una politica delle alleanze – per dirla con l’acuto Giuliano Carli – “tesa a recuperare il tradizionale rapporto con gli alleati di centro-sinistra dopo il giro di valzer con il PCI” verificatosi a Orbetello e Scansano.

Sempre Carli, nel citato articolo de La Nazione, affermava che la mia candidatura era invece dovuta alla necessità “di ricambio generazionale”, di “investimento politico per il futuro”, “della ricerca del legame con il retroterra cattolico”.

L’assai composito gruppone in sostegno ad Andrei, che riteneva la mia candidatura “l’ennesimo errore politico” parlava invece (nella mozione predisposta per il congresso) di “rottura di vecchi schemi” e rivendicava “il senso di responsabilità seguito nell’affrontare e risolvere gravi situazioni in alcune amministrazioni comunali, anche se si trattava di seguire con coraggio strade che non trovano riscontro nella tradizione del partito” (La Nazione, 3 febbraio 1990). Posizione temperata da un inciso dove si recitava che “l’ipotesi del cambiamento intende più fondarsi sui contenuti che sulle formule” e “dovrà in ogni caso passare attraverso un’effettiva disponibilità degli alleati del governo centrale, anche alla luce delle ultime impostazioni del PCI”. Giro di parole per dire che i due gruppi sostenitori di Andrei non erano per niente d’accordo sulla strategia politica: Presenza sociale voleva, dove possibile, allearsi col PCI, il Grande centro era contrario. Documento tipicamente democristiano. Non ricordo i contenuti della mozione dei cosiddetti fanfaniani di Fatarella, detti anche Brandaniani, ma il loro intento nobile era apparentemente quello di favorire un accordo unitario.

 

Prendo spunto da quest’ultimo aggettivo per domandarmi. Cosa c’era di nobile in tutto quel dimenarsi di correnti? Purtroppo nulla. Al di là dei sinceri intenti di qualcuno, la stragrande maggioranza dei responsabili provinciali giocavano in proprio: conquistare o comunque posizionarsi negli organi dirigenti provinciali o regionali per poi ottenere candidature al parlamento, alla regione, alla provincia e nei comuni più importanti. Per essere indicati tra i sindaci revisori dell’Unità sanitaria locale e dei comuni, supportati nelle carriere professionali, collocati nei posti apicali di banche, cooperative, Provincia, in aziende private. Purtroppo la situazione si replicava a livello territoriale, nelle sezioni comunali: sarebbe interessante ricercare quanti di coloro che erano tesserati alla DC videro i propri figli o altri parenti collocati nelle banche (specie Banca Toscana, MPS, Cassa di risparmio di Firenze) o in altri enti pubblici. E queste persone, naturalmente, tutte le volte che c’era da portare voti congressuali o politici a questo o a quel capobastone, erano sempre in prima linea. Sia però chiaro, che se ripenso alle persone che transitavano in quegli anni nel partito debbo per onestà riconoscere che alcuni mostravano acume politico maturato nel tempo, altri una buona preparazione culturale, altri ancora passione ideale e democratica. Erano tutto fuorché degli sprovveduti. Molti si erano fatti sul campo. Quindi, onore al merito. Ma l’andazzo che trovai nel 1990 (e anche qualche anno prima) era ormai quello detto in precedenza. Tristemente quello.

 

Dunque, io mi trovai candidato al congresso provinciale della DC in quella situazione e in quel periodo.

Già, in quel periodo. Era da poco trascorso il magico ’89 con l’autodistruzione del comunismo a causa del suo errore antropologico, la fine dei regimi dittatoriali dell’Est, la caduta del muro di Berlino. E l’unica cosa che i responsabili nazionali del partito avevano saputo fare, era stato rievocare la scelta degasperiana del ’48 (senza dubbio allora giusta e provvidenziale), non pensando minimamente che i sassi di quel muro sarebbero caduti, di lì a poco, addosso alle democrazie occidentali, specie quelle che si erano rette sulla diga al comunismo, travolgendo tutto: sistema politico, partiti politici, cultura politica, nomenclatura politica, coperture politiche. I responsabili locali della DC non avevano fatto nulla.

Ai miei occhi (e a quelli di altri) si stava chiudendo una stagione politica caratterizzata a livello nazionale dalla centralità democristiana per come l’avevamo conosciuta. Vecchia centralità venuta meno per missione compiuta e non per le stupidaggini di alcune ricostruzioni storiche farlocche. Le circostanze di quel periodo stavano pertanto creando le condizioni per uscire dalla stagione della democrazia bloccata ed entrare in quella della democrazia matura.

Passaggio questo che stava improvvisamente evidenziando come la forma-partito in cui si era concretizzato per 50 anni il cattolicesimo democratico in Italia – quella DC – avesse esaurito storicamente il suo compito, come detto, per aver compiuto la sua missione.

Ora, confrontare le necessità culturali e politiche di quella fase con il terminale stato di salute della DC provinciale di allora (simile a quella dei comitati provinciali DC di tutta Italia, superati solo dai socialisti rampanti del periodo, largamente presente nel PCI anche se occultato dalla ideologia, dal centralismo democratico e dalle organizzazioni collaterali, devastante anche nei cosiddetti partiti laici) rende chiara la drammaticità e paradossalità del contesto nel quale venni a trovarmi. C’era da capire e provare ad evitare una quasi tragedia, ci si trovò a vivere una farsa, tanto c’era da ridere, amaramente.

 

Capisco perfettamente che quanto detto può dare l’idea del Davide contro tutti: colui che ha capito tutto (io, il presuntuoso) e quasi tutti gli altri che non hanno compreso nulla. Non era proprio così, perché diverse volpi avevano ben capito l’aria che tirava, ma erano obnubilate solo dal proprio tornaconto personale. Molti non volevano arrendersi all’evidenza. Ed io non ero solo, perché altri amici avevano ben colto il tempo che stavamo vivendo.






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