Mi ha colpito qualche giorno fa la piccola strigliata di José Mourinho a Mario Balotelli.
“Sarà comunque in campo. Non penso che sia un fenomeno perché ha fatto una partita eccezionale a Genova, ma una settimana di lavoro pessima. Stavolta non ho opzioni e giocherà, ma deve lavorare ancora molto. Perché alterna grandi prestazioni a settimane così? Ho parlato con Pea, allenatore della Primavera, e lui che lavora con i ragazzi da tempo mi ha detto che è un problema di generazione, delle persone che girano intorno ai giocatori e che questi fanno le vittime. Un ragazzo di 19-20 che ha genitori equilibrati che non pensa ai soldi, il fratello e la sorella che lo seguono senza disturbare, un ragazzo che è felice di guidare una macchina piccola: questa è l’eccezione, il miracolo. È un problema che riguarda anche Santon? Lui è stato obiettivo e molto sincero. Ho capito quello che mi ha spiegato. È un cosa tipica dei giocatori italiani”.
Il portoghese ha attratto la mia attenzione perche ha messo i piedi sul piatto di una verità nota, ma che si lascia sempre sotto il tappeto: l’incapacità educativa di molte persone che operano con i ragazzi specie nell’ambito sportivo e l’inconsistenza personale di non pochi ragazzi, causata spesso dall’inconsistenza culturale delle famiglie.
Subito come un controcampo mi è venuta in mente una realtà locale che opera nella direzione opposta e sulla quale da tempo volevo intervenire, la Polisportiva San Rocco di Pitigliano e… l’assist dell’allenatore interista è stato troppo invitante.
Non è mia intenzione trattare della Polisportiva nel senso delle sue attività e dell’esplosione di interesse e di adesioni che ha avuto: per questo c’è il sito www.polisportivasanrocco.org facilmente consultabile.
No, a me interessa la risposta offerta a José Mourinho.
E quella della San Rocco mi sembra adeguata e partita prima: evidentemente avevano analizzato la gara nello stesso modo.
Nata 2 anni fa – si dice nella home del sito - con “lo scopo di permettere a giovani e adulti che lo desiderino e ne facciano richiesta la pratica di sport, compresi quelli che, solitamente, non trovano spazio nel nostro territorio” la Polisportiva San Rocco ebbe subito a dichiarare l’architrave della sua costruzione: “la cura dell'aspetto educativo dei ragazzi è l'obiettivo principale e lo scopo prioritario è quello di costruire un luogo di aggregazione dove tutti, famiglie comprese, possono essere protagonisti e dare un piccolo contributo alla sicurezza dei nostri figli”.
Posso confermare che non è stata una risposta solo teorica (la cura dell’aspetto educativo dei ragazzi), ma i responsabili dell’associazione e tutti gli operatori hanno cercato e tuttora cercano di applicarla quotidianamente. con le inevitabili fatiche, i successi e gli insuccessi propri di tutte le attività umane.
E sento l’esigenza di ringraziarli per questo.
Dovrei fare un lungo elenco per ricordare tutti e non posso, ma non posso neppure non citare nessuno. Me la cavo furbescamente citando le persone indicate nel sito alla voce ‘contatti’: Augusto Ronca, Emilio Zacchei, Luigi Bisconti, Luciano Raso.
Tutto qui… e “vi pare poco”?
Stefano Gentili
martedì 27 ottobre 2009
domenica 25 ottobre 2009
IL BEATO CARLO GNOCCHI CI RICORDA CHE "DONARE GLI ORGANI" E' BELLO E FA BENE
Poi, tante volte, dici le cose…
Circa dieci giorni fa è giunto a casa mia un opuscolino edito dalla Fondazione Don Carlo Gnocchi descrittivo di brevi e significativi momenti della vita del sacerdote Don Carlo. Tra le cose che non conoscevo c’era anche che può essere considerato come un profeta del dono d’organi. Si legge a pag. 12 “Minato da un male incurabile muore a Milano il 28 febbraio del 1956 e l’ultimo suo gesto è la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti, quando in Italia il trapianto d’organi non era ancora regolato dalla legge”.
Pochi giorni prima sistemando il materiale cartaceo del passato ho ritrovato la mia tessera dell’AIDO (Associazione Italiana Donatori d’Organi) – la n. 1491 del 17 gennaio 1986 – nella quale dichiaravo "di accettare di essere donatore di organi ed essere regolarmente iscritto presso la sezione di Grosseto via Ginori, 13".
Ricordo di aver aderito all’associazione grazie all’opera di sensibilizzazione fatta presso l’I.T.G.C. di Zuccarelli di Pitigliano dall’allora responsabile di zona, Franco Giulietti.
Mi è tornato alla mente che ho conservato lungamente nel mio portafogli la tesserina ricevuta nel maggio del 2000 (spedita a casa, mi pare, a seguito della cosiddetta legge del "silenzio assenso", quella che disponeva in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti) recante il mio nome, cognome, data di nascita, codice fiscale, dichiarazione di volontà, data e firma e quindi il mio assenso alla donazione.
Ricordo con sincerità che mentre compivo la scelta del 1986 e la riconfermavo nel 2000, non mi passava per l’anticamera del cervello che una opportunità del genere sarebbe potuta capitare anche a me.
Mi appariva bello e doveroso pormi sulla linea del dono anche fisico, al tempo opportuno.
La malattia che stava per prendermi non si era ancora manifestata.
Poi, inatteso, ci fu il decollo del male fisico, il non lungo percorso e l’inizio della picchiata. Vicino allo schianto, circa alle 4 di mattina dei primi giorni di gennaio 2007, una telefonata dalle Scotte di Siena ci avvisava che probabilmente era a disposizione un organo donato.
Ricordo ancora quelle sensazioni: il sobbalzo dei figli, i pensieri e i dialoghi con Rossella durante il trasporto col 118, l’arrivo a Siena prima delle 7, il chirurgo di valore e umanità, le care dottoresse che mi avevano seguito fin lì in contatto telefonico, le procedure, il via….
Poi rammento quelle di…qualche giorno dopo, in rianimazione, con immediatamente accanto professionali volti nuovi e quando possibile, poco oltre, gli amati volti di sempre.
E così la mia vita ha continuato ad essere tenuta in vita…dalla vita donata da un’altra persona.
Già, la vita...“quando credi sia finita /un'occasione nuova avrai, /ma chi l'avrebbe detto mai” (come canta Morandi in Grazie a tutti).
Mi fermo su quanto mi riguarda, ma potrei dilungarmi molto. Non l’ho mai fatto finora.
Aggiungo solo la gratitudine che provo per la persona donatrice e la sua famiglia, che non conosco ma….è come se lo fosse. E di tutte le famiglie che hanno reso possibile doni come quello che io ho ricevuto verso altre persone. Come anche l’affetto per le famiglie che non hanno potuto vedere continuare a vivere i loro cari per mancanza di organi disponibili.
Ho dovuto parlarne, con una certa fatica, perché ho sperimentato sulla mia pelle la grandezza di questo “dono” che porterò con me fino a quando, finalmente, potrò restituirlo ad altri.
Sono partito da Don Carlo Gnocchi che oggi - 25 ottobre 2009, giorno della sua nascita (avvenuta nel 1902) - viene solennemente proclamato Beato e poi ho parlato di me.
Nessun parallelismo, naturalmente.
Soltanto l’occasione per ricordare con don Carlo che donare fa bene e rendersi disponibili alla donazione degli organi fa meglio. Parola di uno che se ne intende.
Quindi, forza gente: rendiamoci disponibili al dono.
Stefano Gentili
Circa dieci giorni fa è giunto a casa mia un opuscolino edito dalla Fondazione Don Carlo Gnocchi descrittivo di brevi e significativi momenti della vita del sacerdote Don Carlo. Tra le cose che non conoscevo c’era anche che può essere considerato come un profeta del dono d’organi. Si legge a pag. 12 “Minato da un male incurabile muore a Milano il 28 febbraio del 1956 e l’ultimo suo gesto è la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti, quando in Italia il trapianto d’organi non era ancora regolato dalla legge”.
Pochi giorni prima sistemando il materiale cartaceo del passato ho ritrovato la mia tessera dell’AIDO (Associazione Italiana Donatori d’Organi) – la n. 1491 del 17 gennaio 1986 – nella quale dichiaravo "di accettare di essere donatore di organi ed essere regolarmente iscritto presso la sezione di Grosseto via Ginori, 13".
Ricordo di aver aderito all’associazione grazie all’opera di sensibilizzazione fatta presso l’I.T.G.C. di Zuccarelli di Pitigliano dall’allora responsabile di zona, Franco Giulietti.
Mi è tornato alla mente che ho conservato lungamente nel mio portafogli la tesserina ricevuta nel maggio del 2000 (spedita a casa, mi pare, a seguito della cosiddetta legge del "silenzio assenso", quella che disponeva in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti) recante il mio nome, cognome, data di nascita, codice fiscale, dichiarazione di volontà, data e firma e quindi il mio assenso alla donazione.
Ricordo con sincerità che mentre compivo la scelta del 1986 e la riconfermavo nel 2000, non mi passava per l’anticamera del cervello che una opportunità del genere sarebbe potuta capitare anche a me.
Mi appariva bello e doveroso pormi sulla linea del dono anche fisico, al tempo opportuno.
La malattia che stava per prendermi non si era ancora manifestata.
Poi, inatteso, ci fu il decollo del male fisico, il non lungo percorso e l’inizio della picchiata. Vicino allo schianto, circa alle 4 di mattina dei primi giorni di gennaio 2007, una telefonata dalle Scotte di Siena ci avvisava che probabilmente era a disposizione un organo donato.
Ricordo ancora quelle sensazioni: il sobbalzo dei figli, i pensieri e i dialoghi con Rossella durante il trasporto col 118, l’arrivo a Siena prima delle 7, il chirurgo di valore e umanità, le care dottoresse che mi avevano seguito fin lì in contatto telefonico, le procedure, il via….
Poi rammento quelle di…qualche giorno dopo, in rianimazione, con immediatamente accanto professionali volti nuovi e quando possibile, poco oltre, gli amati volti di sempre.
E così la mia vita ha continuato ad essere tenuta in vita…dalla vita donata da un’altra persona.
Già, la vita...“quando credi sia finita /un'occasione nuova avrai, /ma chi l'avrebbe detto mai” (come canta Morandi in Grazie a tutti).
Mi fermo su quanto mi riguarda, ma potrei dilungarmi molto. Non l’ho mai fatto finora.
Aggiungo solo la gratitudine che provo per la persona donatrice e la sua famiglia, che non conosco ma….è come se lo fosse. E di tutte le famiglie che hanno reso possibile doni come quello che io ho ricevuto verso altre persone. Come anche l’affetto per le famiglie che non hanno potuto vedere continuare a vivere i loro cari per mancanza di organi disponibili.
Ho dovuto parlarne, con una certa fatica, perché ho sperimentato sulla mia pelle la grandezza di questo “dono” che porterò con me fino a quando, finalmente, potrò restituirlo ad altri.
Sono partito da Don Carlo Gnocchi che oggi - 25 ottobre 2009, giorno della sua nascita (avvenuta nel 1902) - viene solennemente proclamato Beato e poi ho parlato di me.
Nessun parallelismo, naturalmente.
Soltanto l’occasione per ricordare con don Carlo che donare fa bene e rendersi disponibili alla donazione degli organi fa meglio. Parola di uno che se ne intende.
Quindi, forza gente: rendiamoci disponibili al dono.
Stefano Gentili
mercoledì 21 ottobre 2009
IL "CUORE DILATATO" DI DON LIDO
Tra pochi giorni il sacerdote don Lido Lodolini – attuale parroco di Manciano – rientrerà dalla nuova visita in un’area di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Recenti inondazioni hanno moltiplicato le endemiche problematiche locali ma, in verità, la sua andata era programmata da tempo.
Perché mi soffermo su questa conosciuta attività di don Lido?
Vi sosto per ricordare il cuore grande di questa persona che, sin da giovane, ha accettato di porsi alla sequela di Gesù Cristo (quindi anche a servizio di ‘tutti i cristi’) lungo la via sacerdotale.
Nell’affresco del dono della vita ha preso colore nel tempo l’attenzione concreta per le persone in difficoltà, specie della terra africana.
Così, accanto ad incroci con altre micro-situazioni del mondo, è nato il sodalizio con Ouagà.
Durante lo scorso luglio ho trascorso con lui alcuni giorni di riposo: passeggiate (lui lunghe, io brevi), letture, preghiere. In certi momenti della giornata io mi occupavo del pranzo o della cena e lui si dedicava a rimettere in ordine l’archivio di tutta l’attività burkinese.
La riservatezza sul materiale che riguarda persone, donazioni, intenti, mi ha consentito solo di conoscere la mole complessiva del lavoro svolto.
Ma tanto basta: 16 anni di attività (dal 1994 al 2009), visite annuali (gennaio-febbraio) e in qualche caso in altri mesi, molte migliaia di euro di valore complessivo transitato tra adozioni, progetti, materiale ed altro, realizzazioni materiali relative a pozzi, strutture sanitarie, scuole, abitazioni, luoghi di micro-lavoro, e altro che non ricordo, realizzazioni immateriali di piccoli corsi di avviamento al lavoro.
L’attività è stata contagiosa perché nel tempo ha coinvolto un numero crescente di persone delle nostre zone sia in veste di adottanti (tantissimi) che di volontari (alcune decine di persone, più vicine a cento che a cinquanta).
Ma ovviamente c’è di più. Don Lido e la sua Band non hanno solo dato, hanno anche ricevuto: hanno portato amore e valige piene di aiuti concreti e hanno ricevuto valige vuote, ma piene di volti riconoscenti.
Qualche giorno fa stavo cercando, se possibile, lo “stupefacente” (non quello pericoloso) nell’ordinario e mi è balzata alla mente la “straordinaria-stupefacente” esperienza che don Lido ha avviato nella quotidianità di una vita donata.
Allora mi sono detto: è bene ricordarlo!
E se pure don Lido, come certamente farà una volta letto il post, mi chiamerà per dirmi “…rincitrullito”, penso che sia l’ora di farla finita di continuare con quella rigidità glaciale che spesso ingabbia noi adulti e ci impedisce di dire anche le cose belle che pensiamo gli uni degli altri.
Grazie don Lido, sacerdote dal “cuore dilatato”.
Stefano Gentili
Perché mi soffermo su questa conosciuta attività di don Lido?
Vi sosto per ricordare il cuore grande di questa persona che, sin da giovane, ha accettato di porsi alla sequela di Gesù Cristo (quindi anche a servizio di ‘tutti i cristi’) lungo la via sacerdotale.
Nell’affresco del dono della vita ha preso colore nel tempo l’attenzione concreta per le persone in difficoltà, specie della terra africana.
Così, accanto ad incroci con altre micro-situazioni del mondo, è nato il sodalizio con Ouagà.
Durante lo scorso luglio ho trascorso con lui alcuni giorni di riposo: passeggiate (lui lunghe, io brevi), letture, preghiere. In certi momenti della giornata io mi occupavo del pranzo o della cena e lui si dedicava a rimettere in ordine l’archivio di tutta l’attività burkinese.
La riservatezza sul materiale che riguarda persone, donazioni, intenti, mi ha consentito solo di conoscere la mole complessiva del lavoro svolto.
Ma tanto basta: 16 anni di attività (dal 1994 al 2009), visite annuali (gennaio-febbraio) e in qualche caso in altri mesi, molte migliaia di euro di valore complessivo transitato tra adozioni, progetti, materiale ed altro, realizzazioni materiali relative a pozzi, strutture sanitarie, scuole, abitazioni, luoghi di micro-lavoro, e altro che non ricordo, realizzazioni immateriali di piccoli corsi di avviamento al lavoro.
L’attività è stata contagiosa perché nel tempo ha coinvolto un numero crescente di persone delle nostre zone sia in veste di adottanti (tantissimi) che di volontari (alcune decine di persone, più vicine a cento che a cinquanta).
Ma ovviamente c’è di più. Don Lido e la sua Band non hanno solo dato, hanno anche ricevuto: hanno portato amore e valige piene di aiuti concreti e hanno ricevuto valige vuote, ma piene di volti riconoscenti.
Qualche giorno fa stavo cercando, se possibile, lo “stupefacente” (non quello pericoloso) nell’ordinario e mi è balzata alla mente la “straordinaria-stupefacente” esperienza che don Lido ha avviato nella quotidianità di una vita donata.
Allora mi sono detto: è bene ricordarlo!
E se pure don Lido, come certamente farà una volta letto il post, mi chiamerà per dirmi “…rincitrullito”, penso che sia l’ora di farla finita di continuare con quella rigidità glaciale che spesso ingabbia noi adulti e ci impedisce di dire anche le cose belle che pensiamo gli uni degli altri.
Grazie don Lido, sacerdote dal “cuore dilatato”.
Stefano Gentili
venerdì 9 ottobre 2009
LE CATASTROFI, NOI E LE GENERAZIONI FUTURE
Enzo Boschi non sarà né santo né santone, ma le sue qualità sono evidenti.
In una breve riflessione fatta sul Magazine del Corriere della Sera (8 ottobre 2009, pag. 27) riferendosi alle violenze dei terremoti e alla devastazione delle città si pone le due classiche domande: si poteva prevenire? Si poteva prevedere?
Come ha fatto altre volte, risponde NO alla prima domanda e SI alla seconda.
“Prevedere un terremoto può forse salvare vite umane – sempre che si riesca a organizzare evacuazioni ordinate – ma non salva le case in cui l’uomo vive, i suoi viadotti, le sue centrali elettriche”.
Al contrario “prevenire gli effetti di un terremoto atteso costruendo in modo adeguato salva sia l’uomo, sia i suoi beni, sia la civiltà”.
“Cosa impedisce – si domanda - all’uomo del XXI secolo di capire questa differenza? Una delle ragioni è certamente il costo della prevenzione, associata a un certo fatalismo che è tipico di molte culture tra cui la nostra”.
Ricordava infatti Kofi Annan, Segretario Generale dell’Onu, nel 1999: “I costi della prevenzione si pagano oggi, i benefici si vedranno in un futuro anche distante; e saranno scarsamente tangibili, perché rappresentati dalle catastrofi che saranno evitate”.
E’ un autentico balzo esistenziale-culturale-politico quello che c’è da compiere, anzi, di più, ci vuole una conversione.
Perché gli ostacoli sono molti.
Ne segnalo tre.
Il primo è esistenziale e rischia di sfociare nella rozzezza: è l’idea che tutto quello che esiste e la sua durata coincida con l’arco della nostra esistenza. E quindi, dopo, chi se ne frega.
Il secondo è culturale e si chiama non curanza, repulsione per le regole, primato del 'faccio quel cavolo che mi pare', come costruire edifici sulle anse dei fiumi, sulle pendici dei vulcani o in aree statisticamente a rischio, trasformare fiumare in discariche o strade.
Il terzo è l’antipolitica: sia ‘l’antipolitica- politica’ che ‘l’antipolitica-antipolitica’.
La prima è quella di chi esercita la nobile arte della polis incurante di quello che fa per il piccolo spazio che amministra e non pensa alle ricadute presenti e future delle sue azioni; pensa a sé, al suo potere, alla sua permanenza.
La seconda è quella di chi la rifiuta perché ritiene che proprio non serva.
Cosa da comprendere diversamente è l’antipolitica da schifo.
Avere lo sguardo lungo, prendersi cura, volere e sapere programmare sono tre antidoti contro le tre derive. Ma tutto si riassume in uno dei termini più belli del nostro lessico: responsabilità.
Si, si, lo so che ritorno al solito fascista me ne frego e al solito milaniano mi prendo a cuore, ma se non si cambia rotta…poi, quando accadrà di nuovo, vattelo pure a prendere... con la Natura, con l’Eterno, col Fato.
Stefano Gentili
In una breve riflessione fatta sul Magazine del Corriere della Sera (8 ottobre 2009, pag. 27) riferendosi alle violenze dei terremoti e alla devastazione delle città si pone le due classiche domande: si poteva prevenire? Si poteva prevedere?
Come ha fatto altre volte, risponde NO alla prima domanda e SI alla seconda.
“Prevedere un terremoto può forse salvare vite umane – sempre che si riesca a organizzare evacuazioni ordinate – ma non salva le case in cui l’uomo vive, i suoi viadotti, le sue centrali elettriche”.
Al contrario “prevenire gli effetti di un terremoto atteso costruendo in modo adeguato salva sia l’uomo, sia i suoi beni, sia la civiltà”.
“Cosa impedisce – si domanda - all’uomo del XXI secolo di capire questa differenza? Una delle ragioni è certamente il costo della prevenzione, associata a un certo fatalismo che è tipico di molte culture tra cui la nostra”.
Ricordava infatti Kofi Annan, Segretario Generale dell’Onu, nel 1999: “I costi della prevenzione si pagano oggi, i benefici si vedranno in un futuro anche distante; e saranno scarsamente tangibili, perché rappresentati dalle catastrofi che saranno evitate”.
E’ un autentico balzo esistenziale-culturale-politico quello che c’è da compiere, anzi, di più, ci vuole una conversione.
Perché gli ostacoli sono molti.
Ne segnalo tre.
Il primo è esistenziale e rischia di sfociare nella rozzezza: è l’idea che tutto quello che esiste e la sua durata coincida con l’arco della nostra esistenza. E quindi, dopo, chi se ne frega.
Il secondo è culturale e si chiama non curanza, repulsione per le regole, primato del 'faccio quel cavolo che mi pare', come costruire edifici sulle anse dei fiumi, sulle pendici dei vulcani o in aree statisticamente a rischio, trasformare fiumare in discariche o strade.
Il terzo è l’antipolitica: sia ‘l’antipolitica- politica’ che ‘l’antipolitica-antipolitica’.
La prima è quella di chi esercita la nobile arte della polis incurante di quello che fa per il piccolo spazio che amministra e non pensa alle ricadute presenti e future delle sue azioni; pensa a sé, al suo potere, alla sua permanenza.
La seconda è quella di chi la rifiuta perché ritiene che proprio non serva.
Cosa da comprendere diversamente è l’antipolitica da schifo.
Avere lo sguardo lungo, prendersi cura, volere e sapere programmare sono tre antidoti contro le tre derive. Ma tutto si riassume in uno dei termini più belli del nostro lessico: responsabilità.
Si, si, lo so che ritorno al solito fascista me ne frego e al solito milaniano mi prendo a cuore, ma se non si cambia rotta…poi, quando accadrà di nuovo, vattelo pure a prendere... con la Natura, con l’Eterno, col Fato.
Stefano Gentili
giovedì 8 ottobre 2009
IL LODO ANGELINO
Pensare che con Angelino Alfano facevamo parte di quel gruppo di persone che dietro iniziativa di Lapo Pistelli animavano una rivista di approfondimento del Centro Toscano di Documentazione Politica di Firenze: Centocittà.
Vedi un po’ la vita…
Ma non è di questo che voglio parlare.
Desidero solo mettere un post sulla pronuncia della Corte Costituzionale di ieri pomeriggio.
Mi avvalgo di un equilibrato articolo di Giovanni Bianconi pubblicato questa mattina sul Corriere della Sera dal titolo: Il no dei 5 giudici nominati dal Quirinale.
A me è piaciuto per la sua tranquilla chiarezza e quindi mi permetto di veicolarlo.
“È arrivata la decisione che s’intravedeva già prima della discussione e della camera di consiglio. Nelle ultime settimane i giudici costituzionali avevano studiato e cominciato ad affrontare tra loro il nodo del Lodo Alfano, sciogliendolo (a maggioranza) con l’idea di rispedire al mittente una legge illegittima.
L’altro ieri hanno ascoltato gli avvocati, tutti schierati a difesa della norma blocca-processi per le più alte cariche dello Stato, ma senza cambiare idea. Anzi. Qualche accenno nelle arringhe ha convinto almeno un paio di indecisi a dire che proprio no, un Lodo così fatto e così scritto non andava bene.
Qualcuno nella minoranza di chi voleva salvare la norma, almeno nella parte che sospendeva il processo milanese a carico di Silvio Berlusconi per la presunta corruzione dell’avvocato Mills, ha provato a proporre le cosiddette «soluzioni intermedie»: sancire l’incostituzionalità ma sanandola con una sentenza che lasciasse intatta la parte che più interessava il governo e la maggioranza che lo sostiene. Non ce l’ha fatta, e nemmeno ha insistito più di tanto. Ha capito in fretta, dopo la decisa introduzione del relatore Gallo, che le sue argomentazioni erano troppo deboli rispetto al «macigno» già individuato dalla maggioranza dei giudici: una legge illegittima due volte, nella forma e nella sostanza. Perché doveva essere costituzionale e non ordinaria; e perché il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge è uno di quei capisaldi che per essere intaccato ha bisogno di tali giustificazioni, filtri e controfiltri (com’era ad esempio la vecchia immunità parlamentare abrogata nel ’93) che forse il Lodo Alfano non sarebbe andato bene nemmeno nella veste di una riforma della Costituzione. Ovviamente bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, ma ieri sera era questa la più accreditata interpretazione della decisione della Corte.
Le voci che filtrano dalla riservatezza che avvolge il palazzo della Consulta parlano di una votazione finita 9 a 6 in favore della bocciatura, ma qualcuno ipotizza un scarto addirittura maggiore, 10 a 5 o anche di più. Circolano liste di nomi coi voti espressi, verosimili ma senza certezze. Nell’elenco di chi avrebbe voluto mantenere in vita la legge ci sono i tre giudici votati dal Parlamento e indicati dal centrodestra (Frigo, Mazzella e Napolitano) più due o tre eletti dalle alte magistrature. Tutti gli altri si sono detti contrari (compresi i cinque nominati dal capo dello Stato e il presidente della Corte Amirante, che nel 2004 aveva steso le motivazioni della bocciatura del Lodo Schifani), al termine di una camera di consiglio dai toni rimasti sempre pacati e tutto sommato sereni. Anche da parte di chi vedeva profilarsi la sconfitta e ha tentato di scongiurarla confidando sui desideri istituzionali di una soluzione meno traumatica.
Nemmeno l’argomento che ancora ieri sera veniva sbandierato dai parlamentari del centrodestra (la sentenza sul Lodo Schifani non aveva detto che serviva una legge costituzionale) ha fatto breccia tra i giudici. Che in grande maggioranza, 11 su 15, non facevano parte del collegio del 2004. Però sanno leggere le motivazioni dei giuristi; è vero che nel precedente verdetto è scritto che il vecchio Lodo era illegittimo «in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione», senza menzionare il 138 che regola le riforme della Carta, ma subito dopo c’era un’aggiunta: «Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale ». Il che può significare che una volta individuate le due violazioni citate potevano essercene anche altre, ma si decise di non entrare nel merito. Perché considerate «assorbite», appunto, dalla prima bocciatura.
Questa dunque la sintesi della discussione di palazzo della Consulta, per come s’è svolta sul piano tecnico e giuridico. Però tutti i giudici erano consapevoli che la loro decisione avrebbe avuto anche significati ed effetti politici, e quindi può esserci una lettura anche «politica» della sentenza. C’è chi pensa, ad esempio, che con questo verdetto la maggioranza degli inquilini della Consulta ha voluto rivendicare la propria autonomia rispetto a qualunque pressione o tentativo di influenzare le proprie decisioni; dai più felpati ai più espliciti, come la drammatizzazione dell’attesa nei palazzi della politica, gonfiata dalle dichiarazioni sempre più allarmate accavallatesi fino a pochi minuti prima della sentenza.
La Corte ha fatto vedere di essere impermeabile a tutto ciò, e ha fatto sapere che se si vogliono riformare la Costituzione e i suoi principi fondamentali bisogna farlo con chiarezza e con le procedure previste, non attraverso qualche scorciatoia. È come se le argomentazioni usate nell’udienza pubblica dai difensori di Berlusconi su una Costituzione materiale ormai diversa da quella scritta — quando l’avvocato Pecorella ha evocato un capo del governo eletto direttamente dal popolo; o quando l’avvocato Ghedini ha sostenuto che la legge è uguale per tutti ma la sua applicazione no — avessero svelato un tentativo di cambiare le regole (o darle per cambiate) senza rispettare le procedure. Disegnando una situazione di fatto diversa da quella scritta nelle leggi, e prima ancora nella Costituzione.
Così non è e non può essere, hanno stabilito i giudici della Consulta.
Certamente alcune immunità o protezioni dai processi penali si possono prevedere e stabilire, ma assumendosi la responsabilità di farlo con gli strumenti adeguati. Che non a caso prevedono l’ipotesi del referendum confermativo. Passando da quella porta la riforma è praticabile, altrimenti no. Anche quando le esigenze della politica fossero diverse”.
A me sembra tutto molto chiaro.
Stefano Gentili
Vedi un po’ la vita…
Ma non è di questo che voglio parlare.
Desidero solo mettere un post sulla pronuncia della Corte Costituzionale di ieri pomeriggio.
Mi avvalgo di un equilibrato articolo di Giovanni Bianconi pubblicato questa mattina sul Corriere della Sera dal titolo: Il no dei 5 giudici nominati dal Quirinale.
A me è piaciuto per la sua tranquilla chiarezza e quindi mi permetto di veicolarlo.
“È arrivata la decisione che s’intravedeva già prima della discussione e della camera di consiglio. Nelle ultime settimane i giudici costituzionali avevano studiato e cominciato ad affrontare tra loro il nodo del Lodo Alfano, sciogliendolo (a maggioranza) con l’idea di rispedire al mittente una legge illegittima.
L’altro ieri hanno ascoltato gli avvocati, tutti schierati a difesa della norma blocca-processi per le più alte cariche dello Stato, ma senza cambiare idea. Anzi. Qualche accenno nelle arringhe ha convinto almeno un paio di indecisi a dire che proprio no, un Lodo così fatto e così scritto non andava bene.
Qualcuno nella minoranza di chi voleva salvare la norma, almeno nella parte che sospendeva il processo milanese a carico di Silvio Berlusconi per la presunta corruzione dell’avvocato Mills, ha provato a proporre le cosiddette «soluzioni intermedie»: sancire l’incostituzionalità ma sanandola con una sentenza che lasciasse intatta la parte che più interessava il governo e la maggioranza che lo sostiene. Non ce l’ha fatta, e nemmeno ha insistito più di tanto. Ha capito in fretta, dopo la decisa introduzione del relatore Gallo, che le sue argomentazioni erano troppo deboli rispetto al «macigno» già individuato dalla maggioranza dei giudici: una legge illegittima due volte, nella forma e nella sostanza. Perché doveva essere costituzionale e non ordinaria; e perché il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge è uno di quei capisaldi che per essere intaccato ha bisogno di tali giustificazioni, filtri e controfiltri (com’era ad esempio la vecchia immunità parlamentare abrogata nel ’93) che forse il Lodo Alfano non sarebbe andato bene nemmeno nella veste di una riforma della Costituzione. Ovviamente bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, ma ieri sera era questa la più accreditata interpretazione della decisione della Corte.
Le voci che filtrano dalla riservatezza che avvolge il palazzo della Consulta parlano di una votazione finita 9 a 6 in favore della bocciatura, ma qualcuno ipotizza un scarto addirittura maggiore, 10 a 5 o anche di più. Circolano liste di nomi coi voti espressi, verosimili ma senza certezze. Nell’elenco di chi avrebbe voluto mantenere in vita la legge ci sono i tre giudici votati dal Parlamento e indicati dal centrodestra (Frigo, Mazzella e Napolitano) più due o tre eletti dalle alte magistrature. Tutti gli altri si sono detti contrari (compresi i cinque nominati dal capo dello Stato e il presidente della Corte Amirante, che nel 2004 aveva steso le motivazioni della bocciatura del Lodo Schifani), al termine di una camera di consiglio dai toni rimasti sempre pacati e tutto sommato sereni. Anche da parte di chi vedeva profilarsi la sconfitta e ha tentato di scongiurarla confidando sui desideri istituzionali di una soluzione meno traumatica.
Nemmeno l’argomento che ancora ieri sera veniva sbandierato dai parlamentari del centrodestra (la sentenza sul Lodo Schifani non aveva detto che serviva una legge costituzionale) ha fatto breccia tra i giudici. Che in grande maggioranza, 11 su 15, non facevano parte del collegio del 2004. Però sanno leggere le motivazioni dei giuristi; è vero che nel precedente verdetto è scritto che il vecchio Lodo era illegittimo «in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione», senza menzionare il 138 che regola le riforme della Carta, ma subito dopo c’era un’aggiunta: «Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale ». Il che può significare che una volta individuate le due violazioni citate potevano essercene anche altre, ma si decise di non entrare nel merito. Perché considerate «assorbite», appunto, dalla prima bocciatura.
Questa dunque la sintesi della discussione di palazzo della Consulta, per come s’è svolta sul piano tecnico e giuridico. Però tutti i giudici erano consapevoli che la loro decisione avrebbe avuto anche significati ed effetti politici, e quindi può esserci una lettura anche «politica» della sentenza. C’è chi pensa, ad esempio, che con questo verdetto la maggioranza degli inquilini della Consulta ha voluto rivendicare la propria autonomia rispetto a qualunque pressione o tentativo di influenzare le proprie decisioni; dai più felpati ai più espliciti, come la drammatizzazione dell’attesa nei palazzi della politica, gonfiata dalle dichiarazioni sempre più allarmate accavallatesi fino a pochi minuti prima della sentenza.
La Corte ha fatto vedere di essere impermeabile a tutto ciò, e ha fatto sapere che se si vogliono riformare la Costituzione e i suoi principi fondamentali bisogna farlo con chiarezza e con le procedure previste, non attraverso qualche scorciatoia. È come se le argomentazioni usate nell’udienza pubblica dai difensori di Berlusconi su una Costituzione materiale ormai diversa da quella scritta — quando l’avvocato Pecorella ha evocato un capo del governo eletto direttamente dal popolo; o quando l’avvocato Ghedini ha sostenuto che la legge è uguale per tutti ma la sua applicazione no — avessero svelato un tentativo di cambiare le regole (o darle per cambiate) senza rispettare le procedure. Disegnando una situazione di fatto diversa da quella scritta nelle leggi, e prima ancora nella Costituzione.
Così non è e non può essere, hanno stabilito i giudici della Consulta.
Certamente alcune immunità o protezioni dai processi penali si possono prevedere e stabilire, ma assumendosi la responsabilità di farlo con gli strumenti adeguati. Che non a caso prevedono l’ipotesi del referendum confermativo. Passando da quella porta la riforma è praticabile, altrimenti no. Anche quando le esigenze della politica fossero diverse”.
A me sembra tutto molto chiaro.
Stefano Gentili
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