Sento dire a mia figlia - che ha deciso autonomamente di prendere parte attiva alle manifestazioni studentesche – che l’idea delle cosiddette classi-ponte (o classi d’inserimento o meglio, come si dice tra la folla, classi per imparare l’italiano) è bene accetta anche da parte di molti che si oppongono ai provvedimenti Gelmini.
La ministra ha parlato di “problema didattico” e il capogruppo leghista Roberto Cota – presentatore della mozione - ha affermato che “le classi di inserimento sono uno strumento per garantire l’integrazione, servono a prevenire il razzismo e a realizzare una vera integrazione”.
Tutto bene quindi.
Come mai, allora, il super-moderato Pierferdinando Casini, leader dell’Udc, ha parlato di “vergogna” e spiegato che: “il principio su cui si regge la democrazia è l’integrazione delle diversità. Se si continua sulla strada della demagogia, davvero il razzismo risorgerà e forse, come in passato qualcuno pensava di mettere una stella di Davide sugli ebrei, oggi qualcuno teorizzerà di mettere le “i” di immigrati sui bambini nelle classi separate”?
Contrari alla mozione sono pure Cgil, Cisl, Ugl; il leader del Partito Democratico Walter Veltroni ha invocato l’Altissimo: “Dio ce ne scampi” e Alessandra Mussolini, presidente della Commissione parlamentare per l'infanzia, ha parlato di “un provvedimento di stampo razzista”?
Cota, all’opposto, ha rincarato dicendo: “chi sostiene che vi sia la volontà di discriminare o non ha letto il testo o è in malafede”.
Dunque, ignoranza o malafede, oppure la proposta non è così ingenua come a prima vista potrebbe apparire?
No, non è ingenua. Tutt’altro.
Ad esempio, la questione dell’insegnamento dell’italiano è solo una scusa. “Tutti sanno che le cosiddette ‘classi di inserimento’ non sono efficaci allo scopo. I risultati migliori si ottengono con classi ordinarie e con ore settimanali di insegnamento della lingua” dicono quelli di Famiglia Cristiana. E in Italia questo, in parte, già avviene.
Poi, andiamo a leggere la mozione approvata dal Parlamento fino in fondo, come suggerisce Cota.
Prevede che i bambini immigrati, oltre alla lingua italiana, debbano apprendere il “rispetto di tradizioni territoriali e regionali”, della “diversità morale e della cultura religiosa del Paese accogliente”, il “sostegno alla vita democratica” e la “comprensione dei diritti e dei doveri”.
Eppoi???
Qualcuno sa dire come spiegarlo a un bambino di 5-6 anni, che deve ancora apprendere l’italiano?
“Se l’integrazione è un bene (tutti la vogliono), dev’essere interattiva – ricordano gli Sciortino-Boys. “E allora, perché non insegniamo agli alunni italiani il rispetto delle ‘tradizioni territoriali e regionali’ degli immigrati? Ha detto bene il cardinale Scola: ‘I buoni educatori devono saper favorire l’integrazione tra le culture, che è una ricchezza per tutti’. Il rischio, altrimenti, è una società spaccata in due, di cui una con meno diritti dell’altra”.
Nel tentativo di comprendere come stiano veramente le cose, mi sembra particolarmente illuminante l’analisi fatta dal prof. Antonio Nanni, docente di filosofia e pedagogia, vicedirettore della rivista ‘Cem-Mondialità’ e responsabile dell’ufficio studi delle Acli.
“La mia convinzione – ha scritto Nanni - è che dietro la proposta delle classi-ponte si nasconda il vero modello di integrazione che vuole la Lega e forse l’intero centro destra, vale a dire quella forma di apartheid etnico e culturale che si chiama ‘comunitarismo’, basato appunto sulla separazione e sulla differenziazione in tutto, anche nei diritti. Ecco perché si cerca di cogliere ogni occasione per fare un passo dopo l’altro nella direzione di una discriminazione razziale a piccole dosi. Ieri con la scusa delle impronte, oggi con la trovata delle classi-ponte. Ciò che più sembra interessare è segregare, dividere, contrapporre”.
E aggiunge, per quelli ai quali può interessare: “La riflessione di fondo che andrebbe fatta riguarda la distanza abissale tra i valori e le prospettive del pensiero sociale cristiano e le scelte culturali che di fatto sta operando l’attuale governo. Da una parte troviamo l’accoglienza nella legalità, la prospettiva dell’integrazione interculturale e il primato del bene comune. Dall’altra si fa strada la politica della sicurezza al posto dell’accoglienza, il modello del multiculturalismo, invece che l’interculturalità, lo spirito di contrapposizione invece che di unità nazionale”.
L’analisi è seria, magari difficile per i più, ma io penso che in questo tempo tutti dobbiamo fare lo sforzo di ‘pensare andando in profondità’: quindi invito i frequentatori del mio blog ad approfondire i termini “comunitarismo”, “multiculturalismo”, “intercultura” e coglierne le differenze.
Per concludere, usando un linguaggio giornalisticamente più piano, ricorro di nuovo a quei taoisti di Famiglia Cristiana: “Alle difficoltà reali si risponde con proposte adeguate, come s’è fatto col maestro di sostegno. In Italia non abbiamo più classi speciali per portatori di handicap, ci sono scuole dove sordi e muti stanno insieme a chi parla e sente. La mozione approvata dal Parlamento fa scivolare pericolosamente la scuola verso la segregazione e la discriminazione. Si dice ‘classi ponte’, ma si legge ‘classi ghetto’.
Negli anni Sessanta, quando bambini napoletani, calabresi o siciliani andavano a scuola a Novara, nessuno s’è sognato di metterli in una ‘classe differenziale’ perché imparassero italiano, usi e tradizioni del Nord, né di far loro dei test d’ingresso. Perché ora ci pensa il novarese Cota?”
Già.
Stefano Gentili
lunedì 27 ottobre 2008
venerdì 24 ottobre 2008
L’INSEGNAMENTO DEL ’68
“Estirpare dalla scuola i residui del ’68” ha più volte declamato Tremonti, altri da tempo dichiarano di volere “desessantottizzare la cultura”, ora anche il postulatore della causa di beatificazione di Pio XII ha parlato di “sessantottini che non amano Pacelli”.
Ma insomma questo ’68 ha proprio rappresentato la madre di tutte le sciagure?
Mi piacerebbe sapere che ne pensate.
Viene presentato da alcuni come una stagione di violenze e disordini, come se il terrorismo fosse nato allora, come se lì fosse nato il disordine sociale e morale, la crisi della famiglia, della religione, della scuola, dell’economia e…chi più ne ha più ne metta.
Tutti luoghi comuni e pure falsità.
La verità è diversa e anche se oggi viviamo il tempo delle opinioni e i fatti non contano un fico secco, i fatti di quegli anni sono ancora scolpiti nella memoria. Nella mia di rimbalzo, più vivi in quella di Angelo Bertani che li ha rievocati in un articolo sul Messaggero di Sant’Antonio.
Quello fu in realtà un periodo di grande disagio; disagio… quasi doloroso.
Gli anni sessanta erano stati quelli delle folli spese militari per costruire bombe atomiche e missili, della fine ingloriosa del colonialismo, del Vietnam, dei morti per fame nel Terzo mondo, delle repressioni in America Latina, dell’apartheid negli Usa e in Sudafrica.
Erano stati gli anni dello sviluppo selvaggio a base di catrame e cemento, del consumismo fondato su moglie, macchina e mestiere e aveva preso forma un sistema sempre più ricco di denaro, risorse materiali e conformismo e sempre più vuoto di giustizia, di valori veri, di moralità.
Fu anche un momento di grande stordimento: gli americani dovettero fuggire dal Vietnam dopo averlo messo per anni sotto l’incudine e il martello, negli Usa furono uccisi Martin Luther King e Bob Kennedy. Guerre e genocidi devastarono l’Africa (Nigeria e Biafra su tutti) e l’America Latina fu teatro di guerriglia e repressione selvaggia.
In Italia il terremoto del Belice evidenziò la povertà della gente e il malcostume negli aiuti. Ad Avola la polizia uccise alcuni dimostranti.
L’università era un museo delle cere, separato dal mondo vivo e luogo di cultura dei privilegiati.
Come era possibile che non esplodesse un movimento di protesta, di critica e di richiesta di profondi e radicali cambiamenti.
Come era possibile?
Alcuni anni prima (1962) Giovanni XXIII aveva avviato un Concilio e pubblicato la Pacem in Terris. L’anno prima (1967) Paolo VI aveva lanciato il grido della Populorum progressio, denuncia e sfida planetaria per un diverso modello di sviluppo fondato sull’uguaglianza e la cooperazione tra i popoli.
Come era possibile?
E allora molti giovani si posero il problema di come contribuire al cambiamento, partendo da se stessi e volarono volontari per il Terzo mondo, altri scelsero di cambiare le professioni alle quali erano destinati per censo: fecero i giornalisti invece dei notai, i magistrati invece degli avvocati, i sindacalisti invece dei commercialisti.
Studenti della classe media parteciparono alle azioni sindacali, andarono a fare doposcuola nelle periferie, come aveva insegnato Paulo Freire e Don Milani. Altri cominciarono a rifiutare i matrimoni di convenienza, le cordate politiche.
Chiedevano università aperte non solo ai ricchi, una cultura che fosse motore di cambiamento continuo, che favorisse la creatività, che offrisse competenza professionale ma anche valori da vivere.
Quel movimento denunciava un disagio reale e chiedeva un radicale cambiamento.
E quale fu la risposta? Fu la repressione, l’autoritarismo dentro le università e politicamente una netta svolta all’interno del partito egemone di allora, la DC che, nel congresso del ’69, mise in minoranza Aldo Moro (uno dei pochi che aveva capito la novità della contestazione giovanile) e avviò la politica di centro-destra. Quella fu la vera tragedia: la cecità delle classi dirigenti che non vollero capire la necessità del cambiamento.
Io penso che una cosa analoga, anche se diversa nelle forme, stia per riesplodere, nonostante l’apparente rassegnazione. Lo dico non per analisi sociologica, ma per fatto statistico: ogni certo numero di anni accade qualcosa che chiede, promuove o provoca cambiamento. Io non lo vedrò, ma accadrà.
Anche perché è richiesto da qualcuno molto influente: Papa Benedetto. Quando incontra i giovani li invita ad essere coraggiosi e liberi: “Non arrendetevi, non siate conformisti, abbiate il coraggio di cambiare il mondo!”.
L’attuale crisi insegna che ce ne è veramente bisogno.
O no?
Stefano Gentili
Ma insomma questo ’68 ha proprio rappresentato la madre di tutte le sciagure?
Mi piacerebbe sapere che ne pensate.
Viene presentato da alcuni come una stagione di violenze e disordini, come se il terrorismo fosse nato allora, come se lì fosse nato il disordine sociale e morale, la crisi della famiglia, della religione, della scuola, dell’economia e…chi più ne ha più ne metta.
Tutti luoghi comuni e pure falsità.
La verità è diversa e anche se oggi viviamo il tempo delle opinioni e i fatti non contano un fico secco, i fatti di quegli anni sono ancora scolpiti nella memoria. Nella mia di rimbalzo, più vivi in quella di Angelo Bertani che li ha rievocati in un articolo sul Messaggero di Sant’Antonio.
Quello fu in realtà un periodo di grande disagio; disagio… quasi doloroso.
Gli anni sessanta erano stati quelli delle folli spese militari per costruire bombe atomiche e missili, della fine ingloriosa del colonialismo, del Vietnam, dei morti per fame nel Terzo mondo, delle repressioni in America Latina, dell’apartheid negli Usa e in Sudafrica.
Erano stati gli anni dello sviluppo selvaggio a base di catrame e cemento, del consumismo fondato su moglie, macchina e mestiere e aveva preso forma un sistema sempre più ricco di denaro, risorse materiali e conformismo e sempre più vuoto di giustizia, di valori veri, di moralità.
Fu anche un momento di grande stordimento: gli americani dovettero fuggire dal Vietnam dopo averlo messo per anni sotto l’incudine e il martello, negli Usa furono uccisi Martin Luther King e Bob Kennedy. Guerre e genocidi devastarono l’Africa (Nigeria e Biafra su tutti) e l’America Latina fu teatro di guerriglia e repressione selvaggia.
In Italia il terremoto del Belice evidenziò la povertà della gente e il malcostume negli aiuti. Ad Avola la polizia uccise alcuni dimostranti.
L’università era un museo delle cere, separato dal mondo vivo e luogo di cultura dei privilegiati.
Come era possibile che non esplodesse un movimento di protesta, di critica e di richiesta di profondi e radicali cambiamenti.
Come era possibile?
Alcuni anni prima (1962) Giovanni XXIII aveva avviato un Concilio e pubblicato la Pacem in Terris. L’anno prima (1967) Paolo VI aveva lanciato il grido della Populorum progressio, denuncia e sfida planetaria per un diverso modello di sviluppo fondato sull’uguaglianza e la cooperazione tra i popoli.
Come era possibile?
E allora molti giovani si posero il problema di come contribuire al cambiamento, partendo da se stessi e volarono volontari per il Terzo mondo, altri scelsero di cambiare le professioni alle quali erano destinati per censo: fecero i giornalisti invece dei notai, i magistrati invece degli avvocati, i sindacalisti invece dei commercialisti.
Studenti della classe media parteciparono alle azioni sindacali, andarono a fare doposcuola nelle periferie, come aveva insegnato Paulo Freire e Don Milani. Altri cominciarono a rifiutare i matrimoni di convenienza, le cordate politiche.
Chiedevano università aperte non solo ai ricchi, una cultura che fosse motore di cambiamento continuo, che favorisse la creatività, che offrisse competenza professionale ma anche valori da vivere.
Quel movimento denunciava un disagio reale e chiedeva un radicale cambiamento.
E quale fu la risposta? Fu la repressione, l’autoritarismo dentro le università e politicamente una netta svolta all’interno del partito egemone di allora, la DC che, nel congresso del ’69, mise in minoranza Aldo Moro (uno dei pochi che aveva capito la novità della contestazione giovanile) e avviò la politica di centro-destra. Quella fu la vera tragedia: la cecità delle classi dirigenti che non vollero capire la necessità del cambiamento.
Io penso che una cosa analoga, anche se diversa nelle forme, stia per riesplodere, nonostante l’apparente rassegnazione. Lo dico non per analisi sociologica, ma per fatto statistico: ogni certo numero di anni accade qualcosa che chiede, promuove o provoca cambiamento. Io non lo vedrò, ma accadrà.
Anche perché è richiesto da qualcuno molto influente: Papa Benedetto. Quando incontra i giovani li invita ad essere coraggiosi e liberi: “Non arrendetevi, non siate conformisti, abbiate il coraggio di cambiare il mondo!”.
L’attuale crisi insegna che ce ne è veramente bisogno.
O no?
Stefano Gentili
sabato 18 ottobre 2008
CAPITALISMO
Non ho nulla da aggiungere alle profetiche ed elementari considerazioni sul sistema capitalistico fatte da Papa Giovanni Paolo II nel lontano 1991, salvo ricordare che sono state da ‘tutti’ confinate nel dimenticatoio.
“Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società?
È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile?
La risposta è ovviamente complessa.
Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d'impresa», o di «economia di mercato», o semplicemente di «economia libera».
Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa.
La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli.
C'è anzi il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all'insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.” (Centesimus annus 42).
Stefano Gentili
“Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società?
È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile?
La risposta è ovviamente complessa.
Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di «economia d'impresa», o di «economia di mercato», o semplicemente di «economia libera».
Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa.
La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli.
C'è anzi il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all'insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato.” (Centesimus annus 42).
Stefano Gentili
giovedì 16 ottobre 2008
QUELL’ISTITUZIONE CHE CHIAMATE SCUOLA
1. Un’altra modalità per fare cassa partorita dal ministro Gelmini riguarda la riduzione delle ore di permanenza dei soggetti a scuola.
Forse tifosa della ‘didattica breve’ Mariastella risolve le difficoltà di apprendimento dei ragazzi in alcune discipline con l’offerta di un tempo di formazione più limitato.
Insomma, gli allievi stanno troppo a scuola! Che tornino a casa quanto prima!
Si chiede cioè alla famiglia, già alle prese con qualche problemino (!), che pensi lei a migliorare o a integrare quello che la scuola non riesce a fare.
Le famiglie che non riescono a farlo direttamente, e che hanno qualche soldino da parte (?), possono sempre ricorrere a centri o a soggetti specializzati.
Con il maestro unico i bambini delle scuole elementari dovranno tornare a casa alle 12,30: l’orario scolastico di 24 ore settimanali, cioè 4 al giorno, non potrà prevedere moduli pomeridiani e attività integrative.
Complessivamente ci sarà una drastica riduzione del tempo pieno (dove si fa) e del tempo prolungato nelle scuole dell’infanzia, elementari e medie.
Attenzione, però, a un ‘voluto fraintendimento’? La ministra dice che non è vero niente e che le attività pomeridiane potranno continuare.
Certo che potranno continuare, nella logica dell’autonomia di cui ogni scuola gode, ma ….con una ‘piccola differenza’: che queste attività per esercitarle dovranno essere pagate dal singolo istituto, dal suo fondo e da quello che riesce a reperire sul territorio.
Vista la sostanziale assenza di risorse economiche delle scuole, le attività pomeridiane potranno continuare solo in certe aree del nostro paese. E amen!
2. C’è poi da dire che una cosa è il tempo pieno e altra il doposcuola.
Ma questo discorso richiede una digressione teorica, che nei fatti si è tradotta e si traduce in cose molto pratiche.
Nel corso degli anni ’50 iniziò quel grande movimento della cosiddetta “scuola attiva” figlia dei pionieri d’inizio secolo quali Maria Montessori, Giuseppe Lombardo Radice, le sorelle Agazzi, Ovide Decroly, Adolphe Ferriere, John Dewey, William Heard Kilpatrick e altri.
La scuola iniziò a conoscere il “metodo globale”, la “scuola del lavoro”, il “metodo dei progetti”. I maestri in quegli anni (almeno alcuni) si sentirono orgogliosi delle nuove prospettive e si accorsero che alle discipline si ponevano traguardi di carattere educativo di grande portata, tali da liberare le naturali propensioni dei ragazzi.
Fu allora che nacque l’esigenza di una scuola che impegnasse in un “tempo pieno”: si sarebbe creato lo spazio per fare dell’alunno il ‘protagonista’ del suo crescere, sia per la possibilità di imparare a imparare, sia per il riemergere di attività quasi accantonate come la musica, le attività motorie, il disegno, le lingue straniere, le attività di manipolazione, l’accostamento ai primi strumenti tecnologici, sia per i momenti di comunione creati con il gioco, la mensa, le esplorazioni all’aperto.
Fiorirono scuole a tempo pieno che permisero a non pochi bambini che vivevano isolati, di inserirsi grazie ai pulmini comunali, in ambienti migliori, con altri compagni, materiale didattico più ricco, possibilità di movimento sul territorio. E chi aveva mai visto prima…..il mare, le sedi delle istituzioni, il teatro…!
Negli anni quell’esperienza è cresciuta e ancora oggi fa perno sull’importanza del dialogo, del lavoro di gruppo, dello sguardo sul territorio, del lento ma solido maturare della responsabilità.
E, specie in alcune aree del paese, c’è proprio bisogno non di “scuole minime”, ma di “scuole aperte” tutto il giorno, ricche di animatori che facciano sentire ai ragazzi che la vita ha il senso di scoprire sia i valori, le bellezze, gli affetti descritti nel passato e immortalati nei libri, sia vivi nel presente e da conoscere vivendo a contatto con gli altri e con la natura.
Non che tutto sia andato per il verso giusto: nel tempo talune esagerazioni, esasperazioni della socializzazione rispetto all’insegnamento, alcuni approcci ideologici nelle attività, disistima per l’esperienza passata e altro ancora, hanno un po’ sciupato le interessanti novità.
La didattica per progetti –in inglese “problem solving approach” – quando ben condotta ha permesso il raggiungimento di lusinghieri risultati didattici, ma quando condotta male ha prodotto attività, magari coinvolgenti, ma poco fruttuose sul piano degli apprendimenti.
Alcune sollecitazioni avanzate da Edgar Morin, legate ad un approccio sistemico, anti-istruttivista e anti-disciplinare hanno trovato un discreto consenso.
Ovviamente qui siamo molto nell’opinabile e i risultati sono legati unicamente all’esperienza.
3. Quindi nulla di strano che – come ritengo abbia cercato di fare anche il precedente ministro- si giunga a dire “meno progetti, più grammatica, più tabelline” (Giuseppe Fioroni a un tg dello scorso anno).
Espressione da telegiornale certo, ma che sembra rifarsi al “Back to the basics” (letteralmente, ritorno agli elementi fondamentali), vasto movimento di riforma della scuola sorto negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’80, sotto la presidenza di Ronald Reagan, quando valutazioni internazionali mettevano a nudo la scarsa preparazione degli studenti americani rispetto ai loro coetanei degli altri paesi.
Alla luce di quelle difficoltà emerse la convinzione che fosse necessario riportare l’attenzione delle istituzioni scolastiche sulla trasmissione delle discipline e delle abilità di base: la lingua parlata, la matematica, la storia e le scienze.
In effetti le “Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo dell’istruzione” del settembre 2007 (quindi, regnante Prodi e Fioroni comandante in capo del Ministero della Pubblica Istruzione) emanate in via sperimentale per un biennio, si muovevano in questa direzione, ribadendo, per esempio, nella scelta delle materie, la conferma di discipline e denominazioni a tutti note, senza lasciarsi trascinare dalle mode e dichiarando esplicitamente la finalità generale della scuola nel “formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale”.
E coerentemente a questa impostazione più istruttiva (che educativa), quelle indicazioni eliminarono le sei educazioni della Moratti (stradale, ambientale, alimentare, alla cittadinanza, alla salute, all’affettività). Senza naturalmente negarne l’importanza, ma scegliendo di ricomprenderle trasversalmente all’interno di tutte le attività che la scuola realizza e non dedicando loro tempi e spazi separati.
Le indicazioni e ancor più le interviste di Fioroni, lasciavano trasparire l’intento di muoversi sulla strada opposta a quella eccessivamente concentrata sulla didattica per progetti che, spesso, ha rubato tempo ai contenuti disciplinari e li ha di fatto eliminati, invece di riorganizzarli in forme nuove.
4. Voglio dire che il problema non sono Fioroni o la Gelmini (anche se le differenze ci sono) e si può discutere di tutto, ma bisogna appunto discutere, in modo disteso e prendere poi meditate decisioni, magari non epocali (come quelle di Berlinguer e della Moratti) bensì fatte col cacciavite (come ebbe a dire Fioroni).
La strada del decreto legge e della votazione di fiducia sono tutto fuorché la volontà di discutere con gli operatori scolastici, i sindacati, le parti politiche.
Ovviamente, terminata la discussione bisogna decidere ed assumersi le relative responsabilità.
Ma con quella sapienza pedagogica, capacità innovativa e amore per i ragazzi che traspare dalla “Lettera a una professoressa” della Scuola di Barbiana.
“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate” (…)
Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico alla lettura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.
Né l’uno né l’altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l’officina. Sono venuti da noi perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.
Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. E’ stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. (…)
La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma. (…)
Sandro in poco tempo s’appassionò a tutto. A giugno il ‘cretino’ si presentò alla licenza e vi toccò passarlo. (…)
Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l’odio per i libri. Noi per lui si fecero acrobazie. (…) Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi in seguito a fargli amare anche il resto. Ma agli esami una professoressa gli disse: ‘Perché vai a una scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?’ Lo so anch’io che Gianni non si sa esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l’avevate buttato fuori di scuola l’anno prima. Bella cura la vostra”. (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, ed. Lef Firenze 1996, pagg. 9-16-17-18).
Stefano Gentili
Forse tifosa della ‘didattica breve’ Mariastella risolve le difficoltà di apprendimento dei ragazzi in alcune discipline con l’offerta di un tempo di formazione più limitato.
Insomma, gli allievi stanno troppo a scuola! Che tornino a casa quanto prima!
Si chiede cioè alla famiglia, già alle prese con qualche problemino (!), che pensi lei a migliorare o a integrare quello che la scuola non riesce a fare.
Le famiglie che non riescono a farlo direttamente, e che hanno qualche soldino da parte (?), possono sempre ricorrere a centri o a soggetti specializzati.
Con il maestro unico i bambini delle scuole elementari dovranno tornare a casa alle 12,30: l’orario scolastico di 24 ore settimanali, cioè 4 al giorno, non potrà prevedere moduli pomeridiani e attività integrative.
Complessivamente ci sarà una drastica riduzione del tempo pieno (dove si fa) e del tempo prolungato nelle scuole dell’infanzia, elementari e medie.
Attenzione, però, a un ‘voluto fraintendimento’? La ministra dice che non è vero niente e che le attività pomeridiane potranno continuare.
Certo che potranno continuare, nella logica dell’autonomia di cui ogni scuola gode, ma ….con una ‘piccola differenza’: che queste attività per esercitarle dovranno essere pagate dal singolo istituto, dal suo fondo e da quello che riesce a reperire sul territorio.
Vista la sostanziale assenza di risorse economiche delle scuole, le attività pomeridiane potranno continuare solo in certe aree del nostro paese. E amen!
2. C’è poi da dire che una cosa è il tempo pieno e altra il doposcuola.
Ma questo discorso richiede una digressione teorica, che nei fatti si è tradotta e si traduce in cose molto pratiche.
Nel corso degli anni ’50 iniziò quel grande movimento della cosiddetta “scuola attiva” figlia dei pionieri d’inizio secolo quali Maria Montessori, Giuseppe Lombardo Radice, le sorelle Agazzi, Ovide Decroly, Adolphe Ferriere, John Dewey, William Heard Kilpatrick e altri.
La scuola iniziò a conoscere il “metodo globale”, la “scuola del lavoro”, il “metodo dei progetti”. I maestri in quegli anni (almeno alcuni) si sentirono orgogliosi delle nuove prospettive e si accorsero che alle discipline si ponevano traguardi di carattere educativo di grande portata, tali da liberare le naturali propensioni dei ragazzi.
Fu allora che nacque l’esigenza di una scuola che impegnasse in un “tempo pieno”: si sarebbe creato lo spazio per fare dell’alunno il ‘protagonista’ del suo crescere, sia per la possibilità di imparare a imparare, sia per il riemergere di attività quasi accantonate come la musica, le attività motorie, il disegno, le lingue straniere, le attività di manipolazione, l’accostamento ai primi strumenti tecnologici, sia per i momenti di comunione creati con il gioco, la mensa, le esplorazioni all’aperto.
Fiorirono scuole a tempo pieno che permisero a non pochi bambini che vivevano isolati, di inserirsi grazie ai pulmini comunali, in ambienti migliori, con altri compagni, materiale didattico più ricco, possibilità di movimento sul territorio. E chi aveva mai visto prima…..il mare, le sedi delle istituzioni, il teatro…!
Negli anni quell’esperienza è cresciuta e ancora oggi fa perno sull’importanza del dialogo, del lavoro di gruppo, dello sguardo sul territorio, del lento ma solido maturare della responsabilità.
E, specie in alcune aree del paese, c’è proprio bisogno non di “scuole minime”, ma di “scuole aperte” tutto il giorno, ricche di animatori che facciano sentire ai ragazzi che la vita ha il senso di scoprire sia i valori, le bellezze, gli affetti descritti nel passato e immortalati nei libri, sia vivi nel presente e da conoscere vivendo a contatto con gli altri e con la natura.
Non che tutto sia andato per il verso giusto: nel tempo talune esagerazioni, esasperazioni della socializzazione rispetto all’insegnamento, alcuni approcci ideologici nelle attività, disistima per l’esperienza passata e altro ancora, hanno un po’ sciupato le interessanti novità.
La didattica per progetti –in inglese “problem solving approach” – quando ben condotta ha permesso il raggiungimento di lusinghieri risultati didattici, ma quando condotta male ha prodotto attività, magari coinvolgenti, ma poco fruttuose sul piano degli apprendimenti.
Alcune sollecitazioni avanzate da Edgar Morin, legate ad un approccio sistemico, anti-istruttivista e anti-disciplinare hanno trovato un discreto consenso.
Ovviamente qui siamo molto nell’opinabile e i risultati sono legati unicamente all’esperienza.
3. Quindi nulla di strano che – come ritengo abbia cercato di fare anche il precedente ministro- si giunga a dire “meno progetti, più grammatica, più tabelline” (Giuseppe Fioroni a un tg dello scorso anno).
Espressione da telegiornale certo, ma che sembra rifarsi al “Back to the basics” (letteralmente, ritorno agli elementi fondamentali), vasto movimento di riforma della scuola sorto negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’80, sotto la presidenza di Ronald Reagan, quando valutazioni internazionali mettevano a nudo la scarsa preparazione degli studenti americani rispetto ai loro coetanei degli altri paesi.
Alla luce di quelle difficoltà emerse la convinzione che fosse necessario riportare l’attenzione delle istituzioni scolastiche sulla trasmissione delle discipline e delle abilità di base: la lingua parlata, la matematica, la storia e le scienze.
In effetti le “Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo dell’istruzione” del settembre 2007 (quindi, regnante Prodi e Fioroni comandante in capo del Ministero della Pubblica Istruzione) emanate in via sperimentale per un biennio, si muovevano in questa direzione, ribadendo, per esempio, nella scelta delle materie, la conferma di discipline e denominazioni a tutti note, senza lasciarsi trascinare dalle mode e dichiarando esplicitamente la finalità generale della scuola nel “formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale”.
E coerentemente a questa impostazione più istruttiva (che educativa), quelle indicazioni eliminarono le sei educazioni della Moratti (stradale, ambientale, alimentare, alla cittadinanza, alla salute, all’affettività). Senza naturalmente negarne l’importanza, ma scegliendo di ricomprenderle trasversalmente all’interno di tutte le attività che la scuola realizza e non dedicando loro tempi e spazi separati.
Le indicazioni e ancor più le interviste di Fioroni, lasciavano trasparire l’intento di muoversi sulla strada opposta a quella eccessivamente concentrata sulla didattica per progetti che, spesso, ha rubato tempo ai contenuti disciplinari e li ha di fatto eliminati, invece di riorganizzarli in forme nuove.
4. Voglio dire che il problema non sono Fioroni o la Gelmini (anche se le differenze ci sono) e si può discutere di tutto, ma bisogna appunto discutere, in modo disteso e prendere poi meditate decisioni, magari non epocali (come quelle di Berlinguer e della Moratti) bensì fatte col cacciavite (come ebbe a dire Fioroni).
La strada del decreto legge e della votazione di fiducia sono tutto fuorché la volontà di discutere con gli operatori scolastici, i sindacati, le parti politiche.
Ovviamente, terminata la discussione bisogna decidere ed assumersi le relative responsabilità.
Ma con quella sapienza pedagogica, capacità innovativa e amore per i ragazzi che traspare dalla “Lettera a una professoressa” della Scuola di Barbiana.
“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate” (…)
Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico alla lettura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.
Né l’uno né l’altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l’officina. Sono venuti da noi perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.
Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. E’ stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. (…)
La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma. (…)
Sandro in poco tempo s’appassionò a tutto. A giugno il ‘cretino’ si presentò alla licenza e vi toccò passarlo. (…)
Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l’odio per i libri. Noi per lui si fecero acrobazie. (…) Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi in seguito a fargli amare anche il resto. Ma agli esami una professoressa gli disse: ‘Perché vai a una scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?’ Lo so anch’io che Gianni non si sa esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l’avevate buttato fuori di scuola l’anno prima. Bella cura la vostra”. (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, ed. Lef Firenze 1996, pagg. 9-16-17-18).
Stefano Gentili
sabato 11 ottobre 2008
LA SCUOLA SERIA E RIGOROSA
Un ulteriore messaggio che si è inteso offrire con le proposte del ministro Gelmini riguarda la spinta verso una scuola seria e rigorosa con la scelta-simbolo del “nuovo voto in condotta”.
Nuovo? Manco per niente!
Il voto in condotta (insieme ai voti in decimi) era scomparso nella scuola elementare e media nel 1977 e dal 1999 con l’istituzione dello statuto dei diritti degli studenti, nelle scuole superiori, non poteva più determinare la bocciatura. La nuova norma riporta la scuola italiana al 1923: con il primo Regio Decreto della riforma Gentile (RD 1054), il regime fascista stabiliva infatti in materia esattamente le stesse norme di oggi, tranne per il fatto che il voto minimo in condotta era il 7 e non il 6.
E’ peraltro vero che la questione del modo di stare a scuola degli studenti e del loro essere più o meno educati, rispettosi degli altri e delle cose di tutti, è reale e merita la massima attenzione.
Specie di fronte agli imbecilli che esercitano forme di violenza e disprezzo verso tutto quello che circonda il loro ombelico.
La risposta legata al VOTO IN CONDOTTA e alle sue conseguenze in caso di insufficienza può in parte servire da deterrente, ma lasciata a se stessa è un pannicello caldo, si vede ma serve a poco.
Certo,ora il voto di condotta concorrerà alla valutazione complessiva dello studente e questo può essere un’utile novità specie per i più grandi.
Mi viene quindi da dire: proviamo pure questa azione, ma non aspettiamoci risultati strabilianti.
Il suo peccato originale sta nell’idea che per ottenere un risultato comportamentale adeguato bisogna incentivare la paura della bocciatura.
Le strategie educative sono un’altra cosa. A meno che non si riduca l’educazione alla disciplina, perché allora basta la bacchetta o la frusta.
Gli stessi problemi di bullismo, violenza e di scarsa autorevolezza di certi docenti richiede ben altro.
Chi vive a scuola sa che, per i ragazzi dal comportamento difficile, non serve brandire lo spauracchio del 5 in condotta e delle sue conseguenze. Sa che per acquisire autorevolezza e dare valore e riconoscimento al lavoro scolastico, si deve partire dalle relazioni educative. I ragazzi vanno motivati e resi partecipi della progettazione dei loro apprendimenti.
E poi…c’è un …perché?
Perché i ragazzi (non tutti) sono così poco educati?
Non svicoliamo: la scuola è ciò che è la famiglia e la famiglia è ciò che è la società. E allora perché non intervenire in questi ambiti? Lo so, è tremendamente difficile e poco popolare, quindi non può essere fatto da governi plebiscitari. Pertanto l’impressione del voto-spauracchio che si trasforma in voto-pannicello caldo rimane tutta in piedi.
Comunque sia, e nonostante le perplessità, proviamo pure con il 5 in condotta e la bocciatura, ma la ministra ben presto si accorgerà – per dirla con il liberale Federico Orlando – “di dover difendere i suoi begli occhi e occhiali dalle grinfie di madri e padri anche ultraberlusconiani, ultrafascisti, ultraforzisti che però non vogliono storie con i voti e la promozione e dalla scuola pretendono non che educhi i figli per mezzo della cultura, ma che li mantenga e li accompagni fino al diploma. E se qualcuno infila le mani nel tanga della professoressa, pazienza”.
Stefano Gentili
Nuovo? Manco per niente!
Il voto in condotta (insieme ai voti in decimi) era scomparso nella scuola elementare e media nel 1977 e dal 1999 con l’istituzione dello statuto dei diritti degli studenti, nelle scuole superiori, non poteva più determinare la bocciatura. La nuova norma riporta la scuola italiana al 1923: con il primo Regio Decreto della riforma Gentile (RD 1054), il regime fascista stabiliva infatti in materia esattamente le stesse norme di oggi, tranne per il fatto che il voto minimo in condotta era il 7 e non il 6.
E’ peraltro vero che la questione del modo di stare a scuola degli studenti e del loro essere più o meno educati, rispettosi degli altri e delle cose di tutti, è reale e merita la massima attenzione.
Specie di fronte agli imbecilli che esercitano forme di violenza e disprezzo verso tutto quello che circonda il loro ombelico.
La risposta legata al VOTO IN CONDOTTA e alle sue conseguenze in caso di insufficienza può in parte servire da deterrente, ma lasciata a se stessa è un pannicello caldo, si vede ma serve a poco.
Certo,ora il voto di condotta concorrerà alla valutazione complessiva dello studente e questo può essere un’utile novità specie per i più grandi.
Mi viene quindi da dire: proviamo pure questa azione, ma non aspettiamoci risultati strabilianti.
Il suo peccato originale sta nell’idea che per ottenere un risultato comportamentale adeguato bisogna incentivare la paura della bocciatura.
Le strategie educative sono un’altra cosa. A meno che non si riduca l’educazione alla disciplina, perché allora basta la bacchetta o la frusta.
Gli stessi problemi di bullismo, violenza e di scarsa autorevolezza di certi docenti richiede ben altro.
Chi vive a scuola sa che, per i ragazzi dal comportamento difficile, non serve brandire lo spauracchio del 5 in condotta e delle sue conseguenze. Sa che per acquisire autorevolezza e dare valore e riconoscimento al lavoro scolastico, si deve partire dalle relazioni educative. I ragazzi vanno motivati e resi partecipi della progettazione dei loro apprendimenti.
E poi…c’è un …perché?
Perché i ragazzi (non tutti) sono così poco educati?
Non svicoliamo: la scuola è ciò che è la famiglia e la famiglia è ciò che è la società. E allora perché non intervenire in questi ambiti? Lo so, è tremendamente difficile e poco popolare, quindi non può essere fatto da governi plebiscitari. Pertanto l’impressione del voto-spauracchio che si trasforma in voto-pannicello caldo rimane tutta in piedi.
Comunque sia, e nonostante le perplessità, proviamo pure con il 5 in condotta e la bocciatura, ma la ministra ben presto si accorgerà – per dirla con il liberale Federico Orlando – “di dover difendere i suoi begli occhi e occhiali dalle grinfie di madri e padri anche ultraberlusconiani, ultrafascisti, ultraforzisti che però non vogliono storie con i voti e la promozione e dalla scuola pretendono non che educhi i figli per mezzo della cultura, ma che li mantenga e li accompagni fino al diploma. E se qualcuno infila le mani nel tanga della professoressa, pazienza”.
Stefano Gentili
giovedì 9 ottobre 2008
LA VALORIZZAZIONE DEL MERITO
L’offerta del ritorno al buon tempo antico, elargita con generosità dal governo, si fa forte di una premessa-promessa: quella di un futuro nel quale il “merito” sarà riconosciuto.
La madre di tutte le battaglie, in questo caso, è l’introduzione della BOCCIATURA, possibile ora anche con una sola materia insufficiente. Recita infatti il decreto recentemente approvato, al comma 3: “Sono ammessi alla classe successiva, ovvero all’esame di Stato a conclusione del ciclo, gli studenti che hanno ottenuto un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline”.
Si, perché è la “selezione” – si dice – lo strumento più adatto per valorizzare il merito. Valorizzare…..bocciando.
Veniva ricordato giorni fa, che il nostro paese ha il più alto tasso di bocciature nel biennio delle secondarie di secondo grado, con particolare forza nelle scuole professionali e tecniche. In certi casi fino a oltre il 30%. La cosa riguarda adolescenti e già questo avrebbe dovuto portare a riflettere per capirne le ragioni e approntare possibili strategie di successo.
Invece si sceglie una strada completamente diversa: iniziare a bocciare da subito. Quasi una sorta di “eugenetica primaria”. Eh si, perché bocciare con indifferenza alle elementari e alle medie (forti di coloro che sempre dicono: “dovevamo fermarli prima”) vuol dire fare una scelta classista (mi si passi il termine retrò): buona parte delle capacità scolastiche e delle motivazioni positive o negative verso l’insegnamento del bambino o del preadolescente, dipendono dalla famiglia nella quale vive e dallo spazio sociale dove agisce.
Se a questo si aggiunge l’altra sorpresa, la reintroduzione della VALUTAZIONE NUMERICA, c’è da che preoccuparsi.
Sia chiaro, è una azzeccata mossa populista: “era l’ora, si sente dire tra gli adulti, di tornare ai vecchi numeri, così chiari e semplici, alla portata di tutti”. Ma l’utilità dello strumento simbolico quantitativo è tutta qui. Infatti nulla aggiunge alla conoscenza dei problemi di apprendimento dei bambini e dei ragazzi.
La valutazione qualitativa invece ha lo scopo di cercare di capire quello che accade nel ragazzo e quindi di intervenire per aiutare le attività di assimilazione e di costruzione della conoscenza.
Il voto numerico, anzi, aggiunge una nuova problematica che corrisponde alla domanda: chi interpreta il valore numerico? Cosa significa quel 7 e quel 3, cosa ci sta dietro? L’interpretazione cade tutta – senza possibilità di confronto e verifica con altri soggetti scolastici – sulle spalle del singolo insegnante.
Mi viene da ridere, no da piangere, se penso agli 1, ai 2, ai 3, ai 4, ai 5 che fioccheranno al posto del vecchio NS (non sufficiente). Ma anche dei 9 e 10 dati a casaccio. A vantaggio di chi?
E poi, un’altra cosa.
A parte gli insegnanti che adopereranno la clava del voto per mettere insufficienze, magari meritate dagli alunni sfaticati, asini o stupidi, e quindi con sufficiente tranquillità li condurranno alla bocciatura, la maggiore parte del corpo docente delle scuole medie (oggi dette secondarie di primo grado) supererà la questione affiancando ai voti griglie di valutazione, tassonomie e altro.
E mentre nel vecchio Sufficiente (se si voleva comunque pro-muovere il ragazzo) ci si faceva rientrare il “pienamente sufficiente”, il “quasi sufficiente” e “l’NS+ (non sufficiente più)” – si, tutte pippe dei docenti, come pensano in molti, ma di una qualche utilità – ora il “quasi sufficiente” sarà 5 e mezzo, “l’NS+” 5 + ed essendo ricompresi sotto il 6, non potrà essere altro che un 5; ma 5 vuol dire bocciatura.
Non solo, ma per evitare questa vera e propria strage, salvo sanatorie in extremis basate sull’umore dell’uno o dell’altro, la maggior parte degli insegnanti abbasseranno i criteri di valutazione e di conseguenza i livelli di apprendimento (come dire: invece di svolgere tutto il programma, con adeguati approfondimenti, si concentreranno su poche acquisizioni fondamentali, le ripeteranno all’infinito e le ficcheranno nelle teste degli alunni).
E …abracadabra….giungeremo allo splendido risultato di abbassare il livello di preparazione di tutti gli alunni.
Un’ultima annotazione: a scuola si è sempre promosso e bocciato, talvolta con giudizio altre volte meno. Fermare un alunno in determinate circostanze può essere un utilte motivo di riflessione e di cambiamento.
Pensare di bocciare per una sola materia insufficiente e in particolare alle medie può addirittura nella fase preadolescenziale favorire l’abbandono scolastico appena possibile e rendere la scuola ancora più bastarda di come talvolta la si percepisce (da parte di taluni ragazzi). Con ciò favorendo la dispersione scolastica e in certi casi la micro-delinquenza giovanile.
Eureka, che risultato.
Ripensaci, Stella mia, ripensaci.
Stefano Gentili
La madre di tutte le battaglie, in questo caso, è l’introduzione della BOCCIATURA, possibile ora anche con una sola materia insufficiente. Recita infatti il decreto recentemente approvato, al comma 3: “Sono ammessi alla classe successiva, ovvero all’esame di Stato a conclusione del ciclo, gli studenti che hanno ottenuto un voto non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline”.
Si, perché è la “selezione” – si dice – lo strumento più adatto per valorizzare il merito. Valorizzare…..bocciando.
Veniva ricordato giorni fa, che il nostro paese ha il più alto tasso di bocciature nel biennio delle secondarie di secondo grado, con particolare forza nelle scuole professionali e tecniche. In certi casi fino a oltre il 30%. La cosa riguarda adolescenti e già questo avrebbe dovuto portare a riflettere per capirne le ragioni e approntare possibili strategie di successo.
Invece si sceglie una strada completamente diversa: iniziare a bocciare da subito. Quasi una sorta di “eugenetica primaria”. Eh si, perché bocciare con indifferenza alle elementari e alle medie (forti di coloro che sempre dicono: “dovevamo fermarli prima”) vuol dire fare una scelta classista (mi si passi il termine retrò): buona parte delle capacità scolastiche e delle motivazioni positive o negative verso l’insegnamento del bambino o del preadolescente, dipendono dalla famiglia nella quale vive e dallo spazio sociale dove agisce.
Se a questo si aggiunge l’altra sorpresa, la reintroduzione della VALUTAZIONE NUMERICA, c’è da che preoccuparsi.
Sia chiaro, è una azzeccata mossa populista: “era l’ora, si sente dire tra gli adulti, di tornare ai vecchi numeri, così chiari e semplici, alla portata di tutti”. Ma l’utilità dello strumento simbolico quantitativo è tutta qui. Infatti nulla aggiunge alla conoscenza dei problemi di apprendimento dei bambini e dei ragazzi.
La valutazione qualitativa invece ha lo scopo di cercare di capire quello che accade nel ragazzo e quindi di intervenire per aiutare le attività di assimilazione e di costruzione della conoscenza.
Il voto numerico, anzi, aggiunge una nuova problematica che corrisponde alla domanda: chi interpreta il valore numerico? Cosa significa quel 7 e quel 3, cosa ci sta dietro? L’interpretazione cade tutta – senza possibilità di confronto e verifica con altri soggetti scolastici – sulle spalle del singolo insegnante.
Mi viene da ridere, no da piangere, se penso agli 1, ai 2, ai 3, ai 4, ai 5 che fioccheranno al posto del vecchio NS (non sufficiente). Ma anche dei 9 e 10 dati a casaccio. A vantaggio di chi?
E poi, un’altra cosa.
A parte gli insegnanti che adopereranno la clava del voto per mettere insufficienze, magari meritate dagli alunni sfaticati, asini o stupidi, e quindi con sufficiente tranquillità li condurranno alla bocciatura, la maggiore parte del corpo docente delle scuole medie (oggi dette secondarie di primo grado) supererà la questione affiancando ai voti griglie di valutazione, tassonomie e altro.
E mentre nel vecchio Sufficiente (se si voleva comunque pro-muovere il ragazzo) ci si faceva rientrare il “pienamente sufficiente”, il “quasi sufficiente” e “l’NS+ (non sufficiente più)” – si, tutte pippe dei docenti, come pensano in molti, ma di una qualche utilità – ora il “quasi sufficiente” sarà 5 e mezzo, “l’NS+” 5 + ed essendo ricompresi sotto il 6, non potrà essere altro che un 5; ma 5 vuol dire bocciatura.
Non solo, ma per evitare questa vera e propria strage, salvo sanatorie in extremis basate sull’umore dell’uno o dell’altro, la maggior parte degli insegnanti abbasseranno i criteri di valutazione e di conseguenza i livelli di apprendimento (come dire: invece di svolgere tutto il programma, con adeguati approfondimenti, si concentreranno su poche acquisizioni fondamentali, le ripeteranno all’infinito e le ficcheranno nelle teste degli alunni).
E …abracadabra….giungeremo allo splendido risultato di abbassare il livello di preparazione di tutti gli alunni.
Un’ultima annotazione: a scuola si è sempre promosso e bocciato, talvolta con giudizio altre volte meno. Fermare un alunno in determinate circostanze può essere un utilte motivo di riflessione e di cambiamento.
Pensare di bocciare per una sola materia insufficiente e in particolare alle medie può addirittura nella fase preadolescenziale favorire l’abbandono scolastico appena possibile e rendere la scuola ancora più bastarda di come talvolta la si percepisce (da parte di taluni ragazzi). Con ciò favorendo la dispersione scolastica e in certi casi la micro-delinquenza giovanile.
Eureka, che risultato.
Ripensaci, Stella mia, ripensaci.
Stefano Gentili
martedì 7 ottobre 2008
A COSA SERVE LA “MAESTRA UNICA”?
Elogiato il "calamaio" mi accingo ad analizzare le misure del governo sulla scuola provando a dare per scontate alcune cose.
A) Che non è vero che ci vogliono riportare al piccolo mondo antico col solo motivo di raccattare consenso tra gli adulti e gli anziani: quelli, insomma, del “come si stava meglio quando si stava peggio”.
B) Che non vi sia la tremontizzazione della scuola: nel senso di adottare misure per far cassa o, in quelle più ideologiche, per “togliere la scuola dalle grinfie del ‘68”.
Prendo allora in esame il provvedimento più strutturale dell’azione governativa: il ritorno al maestro unico nella scuola primaria.
A dire il vero bisognerebbe parlare di “maestra unica”, perché il 99% del corpo insegnante di queste scuole è femminile.
Francamente non riesco a trovare valide ragioni pedagogiche e didattiche che giustifichino la nuova soluzione. Fanno ovviamente sorridere quelle del tipo: “anche io ho avuto una sola maestra”.
Se non erro si ipotizza che l’insegnante unico possa migliorare la qualità dell’apprendimento. E come? Sarà forse vero il contrario: è più competente e capace di favorire l’apprendimento dei bambini l’insegnante che ha un’area più ristretta da insegnare.
Si dice, poi, che il bambino ha bisogno di un unico punto di riferimento educativo forte. E quando mai? Allora, anche in famiglia dovremmo ipotizzare soluzioni monoeducative: come fa il piccolo tra il babbo, la mamma, il fratello, la sorella, la nonna, la badante, la baby-sitter? Fa, fa!
Come fa a casa, fa a scuola. Mio figlio che ha frequentato le prime due classi elementari, ha scelto autonomamente la sua maestra punto di riferimento. E le altre hanno rappresentato altrettanti riferimenti importanti e autorevoli.
Si dice, inoltre, che tre insegnanti sono troppi per una classe, lasciando intendere che sono impegnati in una classe sola; ma non è così.
Si dice che il rapporto insegnati-alunni sia eccessivo (e talvolta è vero, ma si può riequilibrare in tanti modi) e si presentano confronti con altri stati. Ma in quel computo ci si dimentica di dire che sono compresi anche gli insegnanti di sostegno, perché a suo tempo è stata fatta una scelta di civiltà: l’integrazione nelle classi di tutti degli alunni con disabilità e problemi gravi.
In verità le nostre scuole dell’infanzia ed elementari sono tra le prime al mondo; le difficoltà vengono nella secondaria e nell’università. E cosa si fa? Si interviene a gamba tesa sulla prima.
Se siamo a livelli così alti nel confronto internazionale (a differenza degli altri gradi di scuola) non dipende dal caso, ma da scelte coraggiose e lungimiranti come quella di avere optato per più presenze all’interno della classe.
La qual cosa ha permesso di individualizzare l’insegnamento, personalizzare l’apprendimento, la pratica dei gruppi cooperativi, il rinnovamento della didattica (che appunto negli altri gradi di scuola non si è realizzato).
Oggi, poi, le classi sono sempre più “colorate” di bambini provenienti da altri contesti culturali e la scuola primaria è all’opera per farsi luogo di esperienze di accoglienza e di convivenza civile. E come farà, allora, la maestra unica a far fronte all’immane compito?
No, no. Non capisco, non trovo un barlume di razionalità pedagogica nella proposta.
Forse ho ciccato nella premessa: si può trattare solo di risparmio economico (si parla di 9 miliardi) condito con una buona dose di furore ideologico. Così facendo, temo, che non saranno distrutte solo le utopie della sinistra e i fantasmi del ’68, ma la stessa riforma Moratti (vedi ad esempio l’équipe pedagogica), che non mi era del tutto dispiaciuta.
“Ci vorrà qualche anno prima che si vedano i risultati della riforma” ha detto il ministro Maria Stella Gelmini.
Meno male, dico io.
Stefano Gentili
A) Che non è vero che ci vogliono riportare al piccolo mondo antico col solo motivo di raccattare consenso tra gli adulti e gli anziani: quelli, insomma, del “come si stava meglio quando si stava peggio”.
B) Che non vi sia la tremontizzazione della scuola: nel senso di adottare misure per far cassa o, in quelle più ideologiche, per “togliere la scuola dalle grinfie del ‘68”.
Prendo allora in esame il provvedimento più strutturale dell’azione governativa: il ritorno al maestro unico nella scuola primaria.
A dire il vero bisognerebbe parlare di “maestra unica”, perché il 99% del corpo insegnante di queste scuole è femminile.
Francamente non riesco a trovare valide ragioni pedagogiche e didattiche che giustifichino la nuova soluzione. Fanno ovviamente sorridere quelle del tipo: “anche io ho avuto una sola maestra”.
Se non erro si ipotizza che l’insegnante unico possa migliorare la qualità dell’apprendimento. E come? Sarà forse vero il contrario: è più competente e capace di favorire l’apprendimento dei bambini l’insegnante che ha un’area più ristretta da insegnare.
Si dice, poi, che il bambino ha bisogno di un unico punto di riferimento educativo forte. E quando mai? Allora, anche in famiglia dovremmo ipotizzare soluzioni monoeducative: come fa il piccolo tra il babbo, la mamma, il fratello, la sorella, la nonna, la badante, la baby-sitter? Fa, fa!
Come fa a casa, fa a scuola. Mio figlio che ha frequentato le prime due classi elementari, ha scelto autonomamente la sua maestra punto di riferimento. E le altre hanno rappresentato altrettanti riferimenti importanti e autorevoli.
Si dice, inoltre, che tre insegnanti sono troppi per una classe, lasciando intendere che sono impegnati in una classe sola; ma non è così.
Si dice che il rapporto insegnati-alunni sia eccessivo (e talvolta è vero, ma si può riequilibrare in tanti modi) e si presentano confronti con altri stati. Ma in quel computo ci si dimentica di dire che sono compresi anche gli insegnanti di sostegno, perché a suo tempo è stata fatta una scelta di civiltà: l’integrazione nelle classi di tutti degli alunni con disabilità e problemi gravi.
In verità le nostre scuole dell’infanzia ed elementari sono tra le prime al mondo; le difficoltà vengono nella secondaria e nell’università. E cosa si fa? Si interviene a gamba tesa sulla prima.
Se siamo a livelli così alti nel confronto internazionale (a differenza degli altri gradi di scuola) non dipende dal caso, ma da scelte coraggiose e lungimiranti come quella di avere optato per più presenze all’interno della classe.
La qual cosa ha permesso di individualizzare l’insegnamento, personalizzare l’apprendimento, la pratica dei gruppi cooperativi, il rinnovamento della didattica (che appunto negli altri gradi di scuola non si è realizzato).
Oggi, poi, le classi sono sempre più “colorate” di bambini provenienti da altri contesti culturali e la scuola primaria è all’opera per farsi luogo di esperienze di accoglienza e di convivenza civile. E come farà, allora, la maestra unica a far fronte all’immane compito?
No, no. Non capisco, non trovo un barlume di razionalità pedagogica nella proposta.
Forse ho ciccato nella premessa: si può trattare solo di risparmio economico (si parla di 9 miliardi) condito con una buona dose di furore ideologico. Così facendo, temo, che non saranno distrutte solo le utopie della sinistra e i fantasmi del ’68, ma la stessa riforma Moratti (vedi ad esempio l’équipe pedagogica), che non mi era del tutto dispiaciuta.
“Ci vorrà qualche anno prima che si vedano i risultati della riforma” ha detto il ministro Maria Stella Gelmini.
Meno male, dico io.
Stefano Gentili
sabato 4 ottobre 2008
ELOGIO DEL CALAMAIO E DI MARIASTELLA-ULISSE
Oggi è il 4 ottobre e non è un giorno qualunque: è S. Francesco d’Assisi, il piccolo-grande uomo. Ma è un giorno importante anche nei miei ricordi: quando ero bambino l’anno scolastico era iniziato da 3 giorni ed era subito festa, proprio il giorno di S. Francesco.
Ricordo, i primissimi giorni della Prima Elementare, il fascino del calamaio e del pennino: lo si usò per poco tempo, ma che bello… Era inserito in un banco biposto dentro un rotondo buco; era nero e aveva un odore sublime.
Facevamo le astine e i quadratini e di tanto in tanto sbaffavo la pagina e le dita e il palmo della mano si coloravano in modo quasi indelebile.
Andavo a scuola con un grembiule nero e un grande fiocco azzurro; stavo bene in quel piccolo mondo antico.
E la maestra: che dolce. Ci apriva la mente alle prime conoscenze, ci faceva toccare con mano cose mai sperimentate prima e, soprattutto…faceva la mamma. Non una mamma qualsiasi, ma la mamma-mamma, il nostro forte ancoraggio e sicuro riferimento. In classe solo lei e noi, qualche volta il custode, raramente il direttore. Noi e lei, lei e noi…
E i voti, quelli si che ci facevano sentire importanti, soprattutto quel “sex”… così misterioso, magico, evocativo.
Il voto in condotta valeva per dieci e ci disponeva all’attenzione e alla disciplina, supportato dalla lieve bacchetta e dalla suadente mano.
Come emozionante era l’attesa della finale promozione o bocciatura, mai scontata, sempre in bilico, anche se per alcuni già designata. Brrrr… che brividi.
Che gioia poi uscire prima di pranzo e… tornare a casa. Ad aiutare la mamma nelle faccende domestiche, il babbo in quelle di campagna, badare le pecore, aiutare a pulire le stalle, portare il beverone al porcellino. A pescare con la fiocina, a cercare animali e roditori sotto le ripe, a cercare le medicine scadute e inventare magiche pozioni. A giocare a guerra con i capisottani e quelli della fratta. Troppo bbello……
Quanta crescita culturale scaturiva da quelle esaltanti esperienze, come veniva aiutata l’ascesa sociale del povero verso il ricco. Eh si… la mattina tornavamo a scuola più uomini e più donne, più cittadini consapevoli, più pronti ad affrontare il futuro.
Ganzo quel piccolo mondo antico…
Grazie Mariastella-Ulisse, grazie perché ci riporti a casa.
Peccato che non ci sia più Penelope e neppure Itaca.
Stefano Gentili
Ricordo, i primissimi giorni della Prima Elementare, il fascino del calamaio e del pennino: lo si usò per poco tempo, ma che bello… Era inserito in un banco biposto dentro un rotondo buco; era nero e aveva un odore sublime.
Facevamo le astine e i quadratini e di tanto in tanto sbaffavo la pagina e le dita e il palmo della mano si coloravano in modo quasi indelebile.
Andavo a scuola con un grembiule nero e un grande fiocco azzurro; stavo bene in quel piccolo mondo antico.
E la maestra: che dolce. Ci apriva la mente alle prime conoscenze, ci faceva toccare con mano cose mai sperimentate prima e, soprattutto…faceva la mamma. Non una mamma qualsiasi, ma la mamma-mamma, il nostro forte ancoraggio e sicuro riferimento. In classe solo lei e noi, qualche volta il custode, raramente il direttore. Noi e lei, lei e noi…
E i voti, quelli si che ci facevano sentire importanti, soprattutto quel “sex”… così misterioso, magico, evocativo.
Il voto in condotta valeva per dieci e ci disponeva all’attenzione e alla disciplina, supportato dalla lieve bacchetta e dalla suadente mano.
Come emozionante era l’attesa della finale promozione o bocciatura, mai scontata, sempre in bilico, anche se per alcuni già designata. Brrrr… che brividi.
Che gioia poi uscire prima di pranzo e… tornare a casa. Ad aiutare la mamma nelle faccende domestiche, il babbo in quelle di campagna, badare le pecore, aiutare a pulire le stalle, portare il beverone al porcellino. A pescare con la fiocina, a cercare animali e roditori sotto le ripe, a cercare le medicine scadute e inventare magiche pozioni. A giocare a guerra con i capisottani e quelli della fratta. Troppo bbello……
Quanta crescita culturale scaturiva da quelle esaltanti esperienze, come veniva aiutata l’ascesa sociale del povero verso il ricco. Eh si… la mattina tornavamo a scuola più uomini e più donne, più cittadini consapevoli, più pronti ad affrontare il futuro.
Ganzo quel piccolo mondo antico…
Grazie Mariastella-Ulisse, grazie perché ci riporti a casa.
Peccato che non ci sia più Penelope e neppure Itaca.
Stefano Gentili
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