giovedì 16 ottobre 2008

QUELL’ISTITUZIONE CHE CHIAMATE SCUOLA

1. Un’altra modalità per fare cassa partorita dal ministro Gelmini riguarda la riduzione delle ore di permanenza dei soggetti a scuola.
Forse tifosa della ‘didattica breve’ Mariastella risolve le difficoltà di apprendimento dei ragazzi in alcune discipline con l’offerta di un tempo di formazione più limitato.
Insomma, gli allievi stanno troppo a scuola! Che tornino a casa quanto prima!
Si chiede cioè alla famiglia, già alle prese con qualche problemino (!), che pensi lei a migliorare o a integrare quello che la scuola non riesce a fare.
Le famiglie che non riescono a farlo direttamente, e che hanno qualche soldino da parte (?), possono sempre ricorrere a centri o a soggetti specializzati.

Con il maestro unico i bambini delle scuole elementari dovranno tornare a casa alle 12,30: l’orario scolastico di 24 ore settimanali, cioè 4 al giorno, non potrà prevedere moduli pomeridiani e attività integrative.
Complessivamente ci sarà una drastica riduzione del tempo pieno (dove si fa) e del tempo prolungato nelle scuole dell’infanzia, elementari e medie.
Attenzione, però, a un ‘voluto fraintendimento’? La ministra dice che non è vero niente e che le attività pomeridiane potranno continuare.
Certo che potranno continuare, nella logica dell’autonomia di cui ogni scuola gode, ma ….con una ‘piccola differenza’: che queste attività per esercitarle dovranno essere pagate dal singolo istituto, dal suo fondo e da quello che riesce a reperire sul territorio.
Vista la sostanziale assenza di risorse economiche delle scuole, le attività pomeridiane potranno continuare solo in certe aree del nostro paese. E amen!

2. C’è poi da dire che una cosa è il tempo pieno e altra il doposcuola.
Ma questo discorso richiede una digressione teorica, che nei fatti si è tradotta e si traduce in cose molto pratiche.
Nel corso degli anni ’50 iniziò quel grande movimento della cosiddetta “scuola attiva” figlia dei pionieri d’inizio secolo quali Maria Montessori, Giuseppe Lombardo Radice, le sorelle Agazzi, Ovide Decroly, Adolphe Ferriere, John Dewey, William Heard Kilpatrick e altri.
La scuola iniziò a conoscere il “metodo globale”, la “scuola del lavoro”, il “metodo dei progetti”. I maestri in quegli anni (almeno alcuni) si sentirono orgogliosi delle nuove prospettive e si accorsero che alle discipline si ponevano traguardi di carattere educativo di grande portata, tali da liberare le naturali propensioni dei ragazzi.
Fu allora che nacque l’esigenza di una scuola che impegnasse in un “tempo pieno”: si sarebbe creato lo spazio per fare dell’alunno il ‘protagonista’ del suo crescere, sia per la possibilità di imparare a imparare, sia per il riemergere di attività quasi accantonate come la musica, le attività motorie, il disegno, le lingue straniere, le attività di manipolazione, l’accostamento ai primi strumenti tecnologici, sia per i momenti di comunione creati con il gioco, la mensa, le esplorazioni all’aperto.
Fiorirono scuole a tempo pieno che permisero a non pochi bambini che vivevano isolati, di inserirsi grazie ai pulmini comunali, in ambienti migliori, con altri compagni, materiale didattico più ricco, possibilità di movimento sul territorio. E chi aveva mai visto prima…..il mare, le sedi delle istituzioni, il teatro…!
Negli anni quell’esperienza è cresciuta e ancora oggi fa perno sull’importanza del dialogo, del lavoro di gruppo, dello sguardo sul territorio, del lento ma solido maturare della responsabilità.
E, specie in alcune aree del paese, c’è proprio bisogno non di “scuole minime”, ma di “scuole aperte” tutto il giorno, ricche di animatori che facciano sentire ai ragazzi che la vita ha il senso di scoprire sia i valori, le bellezze, gli affetti descritti nel passato e immortalati nei libri, sia vivi nel presente e da conoscere vivendo a contatto con gli altri e con la natura.

Non che tutto sia andato per il verso giusto: nel tempo talune esagerazioni, esasperazioni della socializzazione rispetto all’insegnamento, alcuni approcci ideologici nelle attività, disistima per l’esperienza passata e altro ancora, hanno un po’ sciupato le interessanti novità.
La didattica per progetti –in inglese “problem solving approach” – quando ben condotta ha permesso il raggiungimento di lusinghieri risultati didattici, ma quando condotta male ha prodotto attività, magari coinvolgenti, ma poco fruttuose sul piano degli apprendimenti.
Alcune sollecitazioni avanzate da Edgar Morin, legate ad un approccio sistemico, anti-istruttivista e anti-disciplinare hanno trovato un discreto consenso.
Ovviamente qui siamo molto nell’opinabile e i risultati sono legati unicamente all’esperienza.

3. Quindi nulla di strano che – come ritengo abbia cercato di fare anche il precedente ministro- si giunga a dire “meno progetti, più grammatica, più tabelline” (Giuseppe Fioroni a un tg dello scorso anno).
Espressione da telegiornale certo, ma che sembra rifarsi al “Back to the basics” (letteralmente, ritorno agli elementi fondamentali), vasto movimento di riforma della scuola sorto negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’80, sotto la presidenza di Ronald Reagan, quando valutazioni internazionali mettevano a nudo la scarsa preparazione degli studenti americani rispetto ai loro coetanei degli altri paesi.
Alla luce di quelle difficoltà emerse la convinzione che fosse necessario riportare l’attenzione delle istituzioni scolastiche sulla trasmissione delle discipline e delle abilità di base: la lingua parlata, la matematica, la storia e le scienze.
In effetti le “Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo dell’istruzione” del settembre 2007 (quindi, regnante Prodi e Fioroni comandante in capo del Ministero della Pubblica Istruzione) emanate in via sperimentale per un biennio, si muovevano in questa direzione, ribadendo, per esempio, nella scelta delle materie, la conferma di discipline e denominazioni a tutti note, senza lasciarsi trascinare dalle mode e dichiarando esplicitamente la finalità generale della scuola nel “formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale”.
E coerentemente a questa impostazione più istruttiva (che educativa), quelle indicazioni eliminarono le sei educazioni della Moratti (stradale, ambientale, alimentare, alla cittadinanza, alla salute, all’affettività). Senza naturalmente negarne l’importanza, ma scegliendo di ricomprenderle trasversalmente all’interno di tutte le attività che la scuola realizza e non dedicando loro tempi e spazi separati.
Le indicazioni e ancor più le interviste di Fioroni, lasciavano trasparire l’intento di muoversi sulla strada opposta a quella eccessivamente concentrata sulla didattica per progetti che, spesso, ha rubato tempo ai contenuti disciplinari e li ha di fatto eliminati, invece di riorganizzarli in forme nuove.

4. Voglio dire che il problema non sono Fioroni o la Gelmini (anche se le differenze ci sono) e si può discutere di tutto, ma bisogna appunto discutere, in modo disteso e prendere poi meditate decisioni, magari non epocali (come quelle di Berlinguer e della Moratti) bensì fatte col cacciavite (come ebbe a dire Fioroni).
La strada del decreto legge e della votazione di fiducia sono tutto fuorché la volontà di discutere con gli operatori scolastici, i sindacati, le parti politiche.
Ovviamente, terminata la discussione bisogna decidere ed assumersi le relative responsabilità.
Ma con quella sapienza pedagogica, capacità innovativa e amore per i ragazzi che traspare dalla “Lettera a una professoressa” della Scuola di Barbiana.

“Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate” (…)
Sandro aveva 15 anni. Alto un metro e settanta, umiliato, adulto. I professori l’avevano giudicato un cretino. Volevano che ripetesse la prima per la terza volta.
Gianni aveva 14 anni. Svagato, allergico alla lettura. I professori l’avevano sentenziato un delinquente. E non avevano tutti i torti, ma non è un motivo per levarselo di torno.
Né l’uno né l’altro avevano intenzione di ripetere. Erano ridotti a desiderare l’officina. Sono venuti da noi perché noi ignoriamo le vostre bocciature e mettiamo ogni ragazzo nella classe giusta per la sua età.
Si mise Sandro in terza e Gianni in seconda. E’ stata la prima soddisfazione scolastica della loro povera vita. (…)
La seconda soddisfazione fu di cambiare finalmente programma. (…)
Sandro in poco tempo s’appassionò a tutto. A giugno il ‘cretino’ si presentò alla licenza e vi toccò passarlo. (…)
Gianni fu più difficile. Dalla vostra scuola era uscito analfabeta e con l’odio per i libri. Noi per lui si fecero acrobazie. (…) Ci occorreva solo che lo riempiste di lodi e lo passaste in terza. Ci avremmo pensato noi in seguito a fargli amare anche il resto. Ma agli esami una professoressa gli disse: ‘Perché vai a una scuola privata? Lo vedi che non ti sai esprimere?’ Lo so anch’io che Gianni non si sa esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma prima voi che l’avevate buttato fuori di scuola l’anno prima. Bella cura la vostra”. (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, ed. Lef Firenze 1996, pagg. 9-16-17-18).

Stefano Gentili

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