venerdì 24 ottobre 2008

L’INSEGNAMENTO DEL ’68

“Estirpare dalla scuola i residui del ’68” ha più volte declamato Tremonti, altri da tempo dichiarano di volere “desessantottizzare la cultura”, ora anche il postulatore della causa di beatificazione di Pio XII ha parlato di “sessantottini che non amano Pacelli”.
Ma insomma questo ’68 ha proprio rappresentato la madre di tutte le sciagure?
Mi piacerebbe sapere che ne pensate.

Viene presentato da alcuni come una stagione di violenze e disordini, come se il terrorismo fosse nato allora, come se lì fosse nato il disordine sociale e morale, la crisi della famiglia, della religione, della scuola, dell’economia e…chi più ne ha più ne metta.
Tutti luoghi comuni e pure falsità.
La verità è diversa e anche se oggi viviamo il tempo delle opinioni e i fatti non contano un fico secco, i fatti di quegli anni sono ancora scolpiti nella memoria. Nella mia di rimbalzo, più vivi in quella di Angelo Bertani che li ha rievocati in un articolo sul Messaggero di Sant’Antonio.

Quello fu in realtà un periodo di grande disagio; disagio… quasi doloroso.
Gli anni sessanta erano stati quelli delle folli spese militari per costruire bombe atomiche e missili, della fine ingloriosa del colonialismo, del Vietnam, dei morti per fame nel Terzo mondo, delle repressioni in America Latina, dell’apartheid negli Usa e in Sudafrica.
Erano stati gli anni dello sviluppo selvaggio a base di catrame e cemento, del consumismo fondato su moglie, macchina e mestiere e aveva preso forma un sistema sempre più ricco di denaro, risorse materiali e conformismo e sempre più vuoto di giustizia, di valori veri, di moralità.
Fu anche un momento di grande stordimento: gli americani dovettero fuggire dal Vietnam dopo averlo messo per anni sotto l’incudine e il martello, negli Usa furono uccisi Martin Luther King e Bob Kennedy. Guerre e genocidi devastarono l’Africa (Nigeria e Biafra su tutti) e l’America Latina fu teatro di guerriglia e repressione selvaggia.
In Italia il terremoto del Belice evidenziò la povertà della gente e il malcostume negli aiuti. Ad Avola la polizia uccise alcuni dimostranti.
L’università era un museo delle cere, separato dal mondo vivo e luogo di cultura dei privilegiati.

Come era possibile che non esplodesse un movimento di protesta, di critica e di richiesta di profondi e radicali cambiamenti.
Come era possibile?
Alcuni anni prima (1962) Giovanni XXIII aveva avviato un Concilio e pubblicato la Pacem in Terris. L’anno prima (1967) Paolo VI aveva lanciato il grido della Populorum progressio, denuncia e sfida planetaria per un diverso modello di sviluppo fondato sull’uguaglianza e la cooperazione tra i popoli.
Come era possibile?
E allora molti giovani si posero il problema di come contribuire al cambiamento, partendo da se stessi e volarono volontari per il Terzo mondo, altri scelsero di cambiare le professioni alle quali erano destinati per censo: fecero i giornalisti invece dei notai, i magistrati invece degli avvocati, i sindacalisti invece dei commercialisti.
Studenti della classe media parteciparono alle azioni sindacali, andarono a fare doposcuola nelle periferie, come aveva insegnato Paulo Freire e Don Milani. Altri cominciarono a rifiutare i matrimoni di convenienza, le cordate politiche.
Chiedevano università aperte non solo ai ricchi, una cultura che fosse motore di cambiamento continuo, che favorisse la creatività, che offrisse competenza professionale ma anche valori da vivere.
Quel movimento denunciava un disagio reale e chiedeva un radicale cambiamento.

E quale fu la risposta? Fu la repressione, l’autoritarismo dentro le università e politicamente una netta svolta all’interno del partito egemone di allora, la DC che, nel congresso del ’69, mise in minoranza Aldo Moro (uno dei pochi che aveva capito la novità della contestazione giovanile) e avviò la politica di centro-destra. Quella fu la vera tragedia: la cecità delle classi dirigenti che non vollero capire la necessità del cambiamento.

Io penso che una cosa analoga, anche se diversa nelle forme, stia per riesplodere, nonostante l’apparente rassegnazione. Lo dico non per analisi sociologica, ma per fatto statistico: ogni certo numero di anni accade qualcosa che chiede, promuove o provoca cambiamento. Io non lo vedrò, ma accadrà.
Anche perché è richiesto da qualcuno molto influente: Papa Benedetto. Quando incontra i giovani li invita ad essere coraggiosi e liberi: “Non arrendetevi, non siate conformisti, abbiate il coraggio di cambiare il mondo!”.
L’attuale crisi insegna che ce ne è veramente bisogno.
O no?
Stefano Gentili

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