DIRÒ SUBITO COME LA PENSO.
Il corridoio tirrenico è una necessità.
E’ utile al sistema-paese per sanare il famoso buco di 200 chilometri nel percorso autostradale che dalla Manica arriva sino allo Stretto di Messina, serve a collegare all’Europa le città e i porti della Toscana inserendoli in un sistema a rete, ovviamente insieme alla Due Mari.
Risolve, specie in certi tratti, il grave problema della sicurezza. Il tratto Civitavecchia-Grosseto è purtroppo una delle strade più pericolose d'Italia con quasi il doppio degli incidenti sulla media nazionale nei tratti a due corsie senza spartitraffico, dove si arriva al triste record di 0,90 incidenti per chilometro.
Penso che porterà dei benefici, occupazione di cantiere, facilitazioni per le imprese; insomma, ci farà crescere, anche se non siamo nel Nord-Est dove la realizzazione del Passante di Mestre dovrebbe evitare, secondo i calcoli degli industriali di Treviso (per ritardate consegne delle merci, consumo supplementare di carburante, ore di lavoro perdute da chi era al volante, e via dicendo), danni per 350-400 milioni di euro l’anno.
Ci toglierà pure: porterà un di più di traffico e quindi anche di inquinamento (si parla di passare dai 17.000 veicoli di oggi ai 27.000 del 2030).
Corridoio tirrenico, per la verità, significherebbe infrastruttura plurimodale fatta di “mare, ferro e strada” con la funzione anche di collegare i porti commerciali e turistici toscani.
Ma ora mi soffermo sulla “strada”.
E facciamolo pure come Autostrada Tirrenica.
Il corridoio va fatto visto che il Ministero delle Infrastrutture, capitanato dal ministro-sindaco di Orbetello Altero Matteoli (insignito dal WWF qualche anno fa del Premio Super-Attila), ha abbandonato il progetto Lunardi e rispolverato il tracciato costiero voluto dalla Regione Toscana: non un’arteria collinare che altererebbe il paesaggio con 11 gallerie e 33 viadotti da Orbetello a Montalto, devasterebbe i vigneti, inquinerebbe le falde acquifere e avrebbe costi di realizzazione molto più elevati, ma un percorso costiero.
A livello teorico, confesso, che non mi è mai dispiaciuta l’ipotesi di messa in sicurezza dell’Aurelia (il cosiddetto adeguamento con tipologia autostradale), ma se le carte non sono truccate e ha ragione l’Assessore regionale Riccardo Conti - il quale, in un intervista a Il Tirreno dell’8 gennaio 2009, ha sostenuto che la messa in sicurezza dell’Aurelia avrebbe richiesto la chiusura di 500 incroci, la predisposizione di una viabilità alternativa fatta di complanari, svincoli e sovrappassi e avrebbe finito per intasare l’Aurelia costringendo a raddoppiarla, visto che l’ipotizzato allargamento della strada comunale dell’Origlio e della provinciale Pedemontana nel comune di Capalbio, parallele all’Aurelia, avrebbe avuto un impatto drammatico -si faccia pure l’Autostrada costiera.
Notoriamente, il “come fare” questa benedetta strada è sempre stato oggetto di accese disfide e ha dato vita a mille, legittimi, sentiti quanto inconcludenti, dibattiti.
Già, perché la cosa sembra avere qualcosa di mitologico e la sua origine si perde nella notte dei tempi.
Partita l’avventura, quando io avevo 12 anni, nel lontano 1969 con un decreto ministeriale che autorizzava la concessione alla SAT (Società Autostrada Tirrenica) da parte dell'Anas per la costruzione e l'esercizio dell'autostrada Livorno-Civitavecchia, già nel 1975 fu bloccata dalla legge La Malfa (Ugo) con il fermo messo a tutte le costruzioni di nuove autostrade. Costruzioni che tornarono poi in pista nel 1982 e furono confermate nel 1985, ma senza risultati concreti. Nel 1991 il progetto autostradale, con tracciato “interno”, presentato dalla concessionaria SAT (alla redazione del quale aveva collaborato il futuro Ministro Lunardi) fu oggetto di pronunciamento di Valutazione di Impatto Ambientale negativo da parte del Ministro dell’Ambiente di concerto con quello dei Beni Culturali e Ambientali (ricordo, infatti, che con Direttiva Comunitaria 85/337/CEE, recepita in Italia con Legge 349 dell’8 luglio 1986, era stata introdotta la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale).
Da noi, polemiche, dibattiti, prese di posizione, propaganda sul “come farla”: alcuni nel riempirsi la bocca ci si sono ingrassati.
DIRÒ QUINDI COSA FACEMMO "NOI" PROVINCIA DI GROSSETO
Continuando sulla linea degli ultimi rievocativi post (si sa, gli anziani sono nostalgici), cercherò di raccontare l’esperienza fatta in questo campo nella legislatura provinciale 1995-99, perché anch’essa mi sembra istruttiva.
Nel maggio 1995, eletto Presidente della Provincia di Grosseto, mi trovai in un vero e proprio bailamme.
I punti esclamativi di quel periodo, “Fare l’autostrada è un obbligo morale!”, “Non si deve fare!”, “Muovetevi o moriamo!”, “Non c’è volontà politica!”, ecc.!, ecc.!, andavano bene per il circolo bocciofili, per i dibattiti congressuali, per le polemiche sulla stampa.
Ma la realtà in cui si trovava chi doveva tentare di fare qualcosa di concreto era il caos assoluto, ed era davvero difficile trovare il pertugio utile.
Sul fronte dei soggetti che potevano dire e fare cose operative, la confusione era massima.
Non si riusciva a comprendere chi avesse veramente il bandolo in mano. C’era l’ANAS (da poco Ente nazionale per le strade) con il Presidente Giuseppe D’Angiolino, la SALT (Società Autostrade Ligure Toscana) col presidente Francesco Baudone, la SAT (Società Autostrade Tirrenica) non ricordo con quale presidente, poi in seguito nacque la SPAT (Società per l’Autostrada Tirrenica) con presidente Carlo Alberto Dringoli, una società privata costituita dalle associazioni industriali di nove province della fascia tirrenica e dalla stessa Salt.
Sembrava un tavolo da gioco e nessuno sapeva se i giocatori avevano in mano il poker d'assi o una coppia di sette.
Se penso poi agli interlocutori politici, mi viene il mal di mare.
Tutte persone rispettabilissime e di livello, naturalmente…..ma troppe!
Nella legislatura maggio 1995 – giugno 1999 ho passato 3 Presidenti del Consiglio, Dini, Prodi e D’Alema e 4, dico 4, Ministri dei Lavori Pubblici, Paolo Baratta (fino al 17 maggio ’96), Antonio Di Pietro (dal 18 maggio al 21 novembre ’96), Paolo Costa (dal 22 novembre ’96 al 21 ottobre 1998), Enrico Micheli (dal 22 ottobre ’98 alla fine della nostra legislatura provinciale).
L’unico riferimento fermo, sia pure con lievissime oscillazioni, fu la Regione Toscana col Presidente Vannino Chiti e l’Assessore Tito Barbini.
La linea politica era molto sussultoria, anche se noi, specie negli atti formali, fummo lineari.
Negli atti programmatori che trovai in Provincia si auspicava l’ammodernamento dell’Aurelia. D’altro canto proprio tra il 95 e il 96 la Regione Toscana sembrò trovare un asse con la SAT e ambienti governativi: la formula magica fu “percorso unitario d’intenti” per “un’unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica”.
Noi tendevamo a leggere quella formulazione più spostata sul versante Superstrada, che su quello dell’Autostrada.
E i nostri atti formali si mossero in quella direzione. Il 25 settembre 1996, infatti, deliberammo in Consiglio Provinciale l’adeguamento dell’Aurelia da Grosseto al confine con il Lazio con l’indicazione puntuale degli svincoli da realizzare al posto delle immissioni a raso, dei tratti da portare a quattro corsie e persino delle indicazioni progettuali e morfologiche per il miglior inserimento nel paesaggio. Questa deliberazione non è stata mai revocata.
Fu proprio sulla base di quella delibera che, nel gennaio 1999, chiedemmo all’ANAS di redigere il progetto definitivo (finanziato da noi e dalla Regione Toscana) per l’adeguamento in sede del tratto a due corsie nel comune di Capalbio: anche questo progetto che io sappia non è mai stato ritirato.
Sia chiaro, però, che eravamo disposti ad accogliere anche la proposta dell’Autostrada costiera (prevalentemente sul tracciato Aurelia) di fronte ad una proposta vera, con soldi veri, con tempi certi e alle condizioni ambientalmente più compatibili.
L’apparente elisir del 1996
Sul fronte del dibattito, sembrò improvvisamente possibile intravedersi una via d’uscita anche a seguito di un autorevole incontro tenuto a Grosseto nel 1996 presso la Camera di Commercio voluto dal Comitato permanente per la realizzazione prioritaria dell'autostrada Livorno-Civitavecchia: presenti Carlo Alberto Dringoli (Presidente del Comitato organizzatore), il vice-presidente del Consiglio regionale Mauro Ginanneschi (per Vannino Chiti), Tito Barbini, assessore regionale ai trasporti, il sottosegretario ai trasporti Giuseppe Soriero, il sottosegretario ai lavori pubblici Antonio Bargone, il presidente della Salt Francesco Baudone, il direttore generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta.
Come detto, l’elisir fu rappresentato da due espressioni: “percorso unitario d’intenti” e “unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica”.
Consci che la problematica di fondo era di carattere finanziario, furono fatte anche delle cifre e ipotizzato un percorso.
Secondo calcoli che si dicevano attendibili, la realizzazione del tratto di percorrenza Grosseto-Civitavecchia sarebbe costato circa 1.300 miliardi (l'Anas ne disponeva forse di 1.000, che erano la metà del proprio fondo di dotazione). Quindi che cosa si poteva fare? Ipotizzando la trasformazione della superstrada Rosignano-Grosseto in autostrada a pagamento (costo previsto 300 miliardi di lire) con i ricavi del pedaggio (da cui si pensava di escludere il traffico locale) si sarebbe potuto finanziare il proseguimento del corridoio (una strada europea a norme comunitarie, si diceva) fino a Civitavecchia. A questa ipotesi, si disse, si poteva concretamente lavorare perché la Salt, con il suo presidente Francesco Baudone, aveva dichiarato la propria disponibilità. In sostanza, la Salt avrebbe pagato la spesa di trasformazione (300 miliardi) e incassato il pedaggio del tratto Rosignano-Grosseto. Soluzione che non avrebbe richiesto l'intervento delle casse dello Stato, già allora sempre più asfittiche.
La via di uscita fu più un abbaglio che una realtà. L’elisir ebbe vita breve.
La Provincia, per le sue scarse finanze e le pressoché nulle competenze sulle grandi opere, non poteva in realtà fare molto, però un peso lo poteva avere, soprattutto nella tessitura di una posizione discussa e condivisa.
Insieme all’Assessore Renato De Carlo (ex-dirigente di un importante azienda del Nord) persona di grande signorilità, competenza e abnegazione, contattammo praticamente tutti, incontrandoci o scontrandoci, avanzando proposte e accompagnando ogni piccolo barlume realizzativo. Naturalmente nell’ottica di realizzare un’opera il più possibile capace di unire concretezza a rispetto dell’ambiente.
Personalmente, su questo tema ho sempre avuto un approccio pragmatico.
Non avevo un’ideologia da difendere e comprendevo che i nemici da battere erano i dibattiti inconcludenti, i veti contrapposti, le ipotesi contrastanti. Lo consideravo come il gioco delle tre carte: altri ci davano le carte e puntualmente ne facevano sempre sparire una, naturalmente dirottando le sempre meno pingui risorse statali verso altre zone d’Italia.
Per questo nel 1995 ero favorevole all’adeguamento dell’Aurelia perché c’erano limitate risorse disponibili e l’intervento autostradale ne reclamava molte di più.
Poi dal 1996 venne fuori l’ipotesi dell’Autostrada secondo la modalità che ricordavo prima (unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica) che come detto per me voleva piuttosto dire Superstrada con caratteristiche autostradali.
E sposai questa ulteriore possibilità, in sintonia con la Regione Toscana, forse più spinta di noi.
Il problema vero erano sempre le risorse, la certezza della realizzazione e i tempi.
Con i Ministri una vera relazione fu possibile metterla in piedi solo con Paolo Costa.
Ricordo ancora lucidamente quanto mi disse durante un incontro nel ’97 presso il suo Ministero: il corridoio tirrenico è una delle 6 o 7 priorità nazionali. I soldi per tutte non ci sono. Per sperare di farla rientrare tra le prime 2 o 3 è necessario che tutti gli attori locali, comuni, provincia, regione, soggetti vari, trovino una posizione unitaria e parlino con una sola lingua.
Già lo sapevamo, ma il messaggio fu forte e chiaro. E io e De Carlo ci mettemmo proprio a tessere quella tela, con la consapevolezza della nostra modestia, ma anche della utile rilevanza del nostro compito. Continuammo i contatti con la Regione, il Ministero, l’Anas nazionale e regionale, le varie Società Autostrade, dialogammo con il sistema associativo locale e favorimmo diversi incontri con i Sindaci da Capalbio a Follonica (che ancora possono testimoniare): sostanzialmente, grazie a tutti, fummo in grado di raggiungere una posizione unitaria, al di là delle propagande di rito e di intelligenti precisazioni su pedaggio, autostrada aperta e via discorrendo.
Questa raggiunta intesa ebbi modo di comunicarla al Ministro Costa quando venne a Grosseto il 13 luglio 1998. Nell’assise pubblica che si tenne al Granduca gli rivolsi queste parole: “Nell'incontro che si ebbe presso il suo ministero nel corso del 1997 lei mi disse che il Governo avrebbe lavorato per quegli interventi sui quali si registrava un consenso unanime a livello locale. Sul consenso ci abbiamo lavorato ed è stato sostanzialmente raggiunto. Ora attendiamo la risposta nazionale su: tempi, progetti, finanziamenti, esenzione del pedaggio per i residenti. L'Amministrazione Provinciale di Grosseto sull'Aurelia ha già messo risorse insieme alla Regione Toscana per la progettazione esecutiva del tratto a due corsie di Capalbio” (L’intervento completo è rintracciabile sul mio sito: www.stefanogentili.it nella cartella Provincia Amica/Considerazioni su ambiente, territorio, infrastrutture/Le infrastrutture e il Ministro).
Risposte non ne avemmo, anche perché di lì a qualche mese cadde il Governo Prodi (ottobre 1998).
L’uscita della SALT.
Nel frattempo la neonata Salt per bocca del Presidente Carlo Alberto Dringoli tra la fine del 1997 e gli inizi del ‘98 aveva dichiarato che per trasformare in autostrada aperta la variante Aurelia e realizzare con le stesse caratteristiche la tratta mancante fra Grosseto e Civitavecchia, c’era già un progetto con finanziamento da parte dei privati e una data certa di consegna, il 2004.
Noi sollevammo qualche perplessità di tipo burocratico (le concessioni, ma il Presidente Dringoli disse che non ne aveva bisogno), ed era vero che in linea teorica, sempre a risorse e tempi certi, avremmo preferito per il tratto a sud di Grosseto una Superstrada senza pedaggio sul tipo di quella che unisce Siena a Firenze (come si diceva, ristrutturazione dell’Aurelia con tipologia autostradale: 25 metri, due corsie per parte di metri 3.75, corsie di emergenza e tutto il resto).
Ma anche questa volta eravamo disponibili a leggere le carte della Salt, specie perché sosteneva che il suo progetto non sarebbe costato neppure una lira allo Stato.
Il progetto non ci fu mai consegnato.
Con questo giungemmo agli inizi del 1999, cioè alla scadenza del nostro mandato. Ad eccezione del rammentato Progetto definitivo Anas da noi finanziato per il tratto capalbiese, non ricordo altri eventi significativi su questo fronte, salvo cortocircuiti della mia memoria.
DIRO’ INFINE COSA VEDO
Il dopo spetta ad altri ricordarlo.
Ma giusto per parlare e scusandomi per qualche abbaglio, i principali passaggi (andando per sommi capi) dovrebbero essere stati i seguenti.
Un anno e mezzo dopo la nostra “dipartita”, nel dicembre 2000, la Regione e il Governo Amato giunsero ad un Accordo sul progetto Anas, che prevedeva di allargare e ristrutturare l' Aurelia, con tipologia identica a quella autostradale: si diceva fosse meno costoso per lo Stato (1 miliardo di euro invece di 3) e, nell’ ultimo significativo atto dello stesso governo, la Legge Finanziaria 2001, furono stanziati 304 miliardi di lire per la messa in sicurezza dell’Aurelia nei 25 km a due corsie nei comuni di Capalbio e Tarquinia. Lo stanziamento in seguito scomparirà dalla disponibilità dell’ANAS.
Dopo la vittoria di Berlusconi nel 2001, agli amministratori toscani convocati a Roma per discutere della Livorno-Civitavecchia fu presentato un percorso nuovo, “non conosciuto e non argomentato” - per dirla con le parole del presidente toscano Claudio Martini - che avrebbe aumentato a quasi 3.000 milioni di euro il costo di adeguamento: era il tracciato collinare che da Grosseto sud puntava verso l´interno attraverso Montiano, Magliano e Manciano fino a Capalbio.
Martini, al termine di un complesso lavoro insieme alle amministrazioni locali, rispose: il corridoio tirrenico deve essere completato con un´autostrada, ma sia autostrada costiera (primavera 2003). E su questi punti la Toscana cercò e trovò l´alleanza della Regione Lazio nel giugno di quello stesso anno. Nel novembre sempre del 2003 Martini annunciò la ripresa del dialogo col governo, ma di li a poco quei fantasiosi del Gruppo Autostrade pubblicarono 2 progetti, facendo incavolare come una iena l’assessore Conti.
Nonostante tutti gli sforzi constato, però, che NEI FATTI siamo sempre agli anni '95-'99.
A livello nazionale è trascorsa la “fase delle signorie” con l’ulivo e il centro-sinistra (in 5 anni: 3 Presidenti del Consiglio e 5 ministri dei Lavori pubblici, a quelli citati si aggiunsero Bordon e Nesi) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.
Poi è venuto il “tempo dell’assolutismo” con Berlusconi e il centro-destra (in 5 anni: 1 Presidente del Consiglio anche se Berlusconi I e Berlusconi II e 1 Ministro delle Infrastrutture, sempre Lunardi) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.
Quindi c’è stata la breve stagione “anarchica” dell’Unione (2 anni: 1 Presidente del Consiglio, Prodi e 1 Ministro delle Infrastrutture, ancora Di Pietro) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.
Oggi è trascorso un anno della “nuova era populista” (1 Presidente del Consiglio, ancora Berlusconi e 1 Ministro delle Infrastrutture: il sindaco di Orbetello, Matteoli) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.
A dire il vero, ma ancora solo a livello di ANNUNCI e di primi importanti ATTI FORMALI, però qualcosa si è mosso 4 mesi or sono.
Il 18 dicembre 2008, il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica), dal cui vaglio passano tutte le grandi opere infrastrutturali, ha dato il proprio assenso al progetto preliminare della SAT. Dunque, l´autostrada si può fare, secondo il tracciato previsto dalla Regione, che ha portato avanti per cinque anni la battaglia.
Completare l´asse autostradale tirrenico tra Rosignano e Civitavecchia gioverà secondo Claudio Martini non solo alla Toscana ma a tutto il paese, “alla nostra economia, ai nostri porti, al turismo e alle comunità locali”. Il presidente si è impegnato, per quanto a lui compete, a fare “un´opera di qualità e rispettosa dell´ambiente” (La Repubblica.it, 19 dicembre 2008).
Forza Claudio!
E il Ministro Matteoli ha ribadito e annunciato che "l’Autostrada si farà", i lavori inizieranno entro la fine del 2009 e termineranno nel 2013. “I costi di 3,8 miliardi sono tutti a carico del project financing e il progetto approvato dal Cipe è all'85% cantierabile entro l'anno. Il tracciato è quello già concordato nel 2006 dalla Regione Toscana e da allora nulla è stato toccato. Per il tratto laziale non c'era l'accordo. Appena sono diventato ministro, ho chiamato il presidente Marrazzo e gli ho detto, scegli tu. Così è stato” (L’occhio Viterbese, 14 marzo 2009).
Io, però, sono come San Tommaso: non credo se non vedo il primo e l'ultimo cantiere.
Comunque, forza Altero! Lunga permanenza al Ministero.
Certo, mentre lo dico, penso che noi del centro-sinistra di peccati dobbiamo averli commessi tanti per dover sperare nella lunga vita ministeriale di Attila-Altero.
Con rispetto, naturalmente.
Stefano Gentili
martedì 28 aprile 2009
mercoledì 22 aprile 2009
IL FALCO, LA VACCA, L’AIRONE, IL FENICOTTERO, IL BIANCONE
Non mi addentro nel campo della zoologia o della ornitologia oppure dell’etologia o della zootecnia. Non ne sarei capace.
Ricordo soltanto i “testimonial” che mettemmo nei cinque poster utilizzati per la promozione delle Riserve Naturali nella campagna pubblicitaria del 1998 dal felice titolo: “Maremma: riserva di natura”: un falco lanario, una vacca maremmana con due aironi guardabuoi, un gruppo di fenicotteri e un Biancone della riserva dei Rocconi.
Anche quella delle Riserve Naturali fu un’altra importante scelta della legislatura 95-99.
Dopo attenta valutazione e ampie consultazioni, e convinti di operare nell’esclusivo interesse del nostro territorio e della gente che vi abitava, tra il 1997 e il 1998 istituimmo, come Provincia di Grosseto, 13 nuove riserve naturali: Basso Merse, Cornate e Fosini, Diaccia Botrona, Torrente Farma, La Pietra, Montauto, Monte Labbro (Parco Faunistico dell'Amiata), Monte Penna, Laguna di Orbetello, Pescinello, Poggio all'Olmo, Rocconi, Montioni (Parco Interprovinciale). Un anno dopo la nostra uscita di scena, si aggiunse il Bosco della SS. Trinità.
Non fu semplice neppure l’organizzazione e la gestione dell’operazione Riserve Naturali.
Pur essendo sostenuto da una coalizione che anticipò nel 1995 - con la dicitura “Democratici Insieme” (il centro-sinistra di allora con i verdi e senza rifondazione) - l’Ulivo nazionale del ’96, eravamo in un certo immaginario sempre i soliti “rosso-verdi” che tutto vogliono vincolare, impedire, ostacolare.
Sia chiaro, molta era propaganda, ma c’era anche del vero e, una certa legislazione regionale, l’azione di alcuni personaggi-pomodoro, qualche rigidità ideologica, non ci aiutavano di certo.
Io, per estrazione non avevo quell’approccio culturale (anche se ero per la salvaguardia del creato), e i miei primi collaboratori erano di equilibrato sentimento ambientale, ma tutti comprendemmo che tutelare in modo particolare alcune aree del territorio provinciale avrebbe avuto un grande valore morale, politico e, nel medio tempo, economico.
E l’istituzione delle riserve naturali rappresentò più di una semplice scelta politica. Fu la formalizzazione dei simboli di un insieme, di una comunità, di una provincia che voleva affermare anche un suo modello di vita e di sviluppo. Che non era certo quello a cui pensavano alcuni industrialotti e politicanti della Toscana del Nord e neppure i maître à penser dei fine settimana capalbiesi.
In questo fu di molto aiuto la preparazione anche tecnica del vice-presidente Giampiero Sammuri, e la realizzazione del Piano territoriale di Coordinamento.
Con quell’atto, infatti, come ho già ricordato, riprendemmo in mano le redini del nostro territorio, fino ad allora vincolato dal livello regionale, e con ciò stesso potemmo, in sintonia con la stessa Regione, togliere i vincoli dove non avevano senso, limitarli dove potevano avere un significato se ridotti e orientarli, magari rafforzandoli, là dove si ravvisavano aree di rilevante pregio ambientale.
L’azzeccatissimo slogan “Maremma: riserva di natura” offriva in sintesi il senso di quell’azione, che si incastonava coerentemente sia con la logica di valorizzazione turistica del Patto Territoriale che in quella dello sviluppo propria del Distretto Rurale.
Il territorio maremmano, alla luce anche della presenza del Parco della Maremma, di oasi del Wwf, del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, si presentava come uno dei più ricchi di risorse ambientali dell’intera nazione.
Risorse da godere, in primo luogo, per vivere meglio, a contatto con la natura, magari osservando il Biancone nidificare nelle gole dell’Albegna e la betulla ondeggiare lungo il torrente del Farma e fare il pieno di emozioni.
Ma anche da utilizzare, rispettandole, nella creazione di flussi turistici dedicati all’ambiente, alla natura, comunque alternativi e complementari allo sfruttamento estivo della fascia costiera.
Anche questo fu fatto. E da lì occorre ripartire.
Stefano Gentili
Ricordo soltanto i “testimonial” che mettemmo nei cinque poster utilizzati per la promozione delle Riserve Naturali nella campagna pubblicitaria del 1998 dal felice titolo: “Maremma: riserva di natura”: un falco lanario, una vacca maremmana con due aironi guardabuoi, un gruppo di fenicotteri e un Biancone della riserva dei Rocconi.
Anche quella delle Riserve Naturali fu un’altra importante scelta della legislatura 95-99.
Dopo attenta valutazione e ampie consultazioni, e convinti di operare nell’esclusivo interesse del nostro territorio e della gente che vi abitava, tra il 1997 e il 1998 istituimmo, come Provincia di Grosseto, 13 nuove riserve naturali: Basso Merse, Cornate e Fosini, Diaccia Botrona, Torrente Farma, La Pietra, Montauto, Monte Labbro (Parco Faunistico dell'Amiata), Monte Penna, Laguna di Orbetello, Pescinello, Poggio all'Olmo, Rocconi, Montioni (Parco Interprovinciale). Un anno dopo la nostra uscita di scena, si aggiunse il Bosco della SS. Trinità.
Non fu semplice neppure l’organizzazione e la gestione dell’operazione Riserve Naturali.
Pur essendo sostenuto da una coalizione che anticipò nel 1995 - con la dicitura “Democratici Insieme” (il centro-sinistra di allora con i verdi e senza rifondazione) - l’Ulivo nazionale del ’96, eravamo in un certo immaginario sempre i soliti “rosso-verdi” che tutto vogliono vincolare, impedire, ostacolare.
Sia chiaro, molta era propaganda, ma c’era anche del vero e, una certa legislazione regionale, l’azione di alcuni personaggi-pomodoro, qualche rigidità ideologica, non ci aiutavano di certo.
Io, per estrazione non avevo quell’approccio culturale (anche se ero per la salvaguardia del creato), e i miei primi collaboratori erano di equilibrato sentimento ambientale, ma tutti comprendemmo che tutelare in modo particolare alcune aree del territorio provinciale avrebbe avuto un grande valore morale, politico e, nel medio tempo, economico.
E l’istituzione delle riserve naturali rappresentò più di una semplice scelta politica. Fu la formalizzazione dei simboli di un insieme, di una comunità, di una provincia che voleva affermare anche un suo modello di vita e di sviluppo. Che non era certo quello a cui pensavano alcuni industrialotti e politicanti della Toscana del Nord e neppure i maître à penser dei fine settimana capalbiesi.
In questo fu di molto aiuto la preparazione anche tecnica del vice-presidente Giampiero Sammuri, e la realizzazione del Piano territoriale di Coordinamento.
Con quell’atto, infatti, come ho già ricordato, riprendemmo in mano le redini del nostro territorio, fino ad allora vincolato dal livello regionale, e con ciò stesso potemmo, in sintonia con la stessa Regione, togliere i vincoli dove non avevano senso, limitarli dove potevano avere un significato se ridotti e orientarli, magari rafforzandoli, là dove si ravvisavano aree di rilevante pregio ambientale.
L’azzeccatissimo slogan “Maremma: riserva di natura” offriva in sintesi il senso di quell’azione, che si incastonava coerentemente sia con la logica di valorizzazione turistica del Patto Territoriale che in quella dello sviluppo propria del Distretto Rurale.
Il territorio maremmano, alla luce anche della presenza del Parco della Maremma, di oasi del Wwf, del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, si presentava come uno dei più ricchi di risorse ambientali dell’intera nazione.
Risorse da godere, in primo luogo, per vivere meglio, a contatto con la natura, magari osservando il Biancone nidificare nelle gole dell’Albegna e la betulla ondeggiare lungo il torrente del Farma e fare il pieno di emozioni.
Ma anche da utilizzare, rispettandole, nella creazione di flussi turistici dedicati all’ambiente, alla natura, comunque alternativi e complementari allo sfruttamento estivo della fascia costiera.
Anche questo fu fatto. E da lì occorre ripartire.
Stefano Gentili
SE CI PENSI 100 ANNI PRIMA EDUCHI IL POPOLO
Quando mi trovai in mano la famosa bicicletta provinciale indubbiamente le materie che mi erano più congeniali per storia e cultura personale erano quelle legate alla formazione, all’educazione e alla scuola.
E con Mariella Gennai, la perla della mia giunta (che facevo arrabbiare quando le dicevo che era la mia migliore assessora donna – c’era solo lei…) decidemmo di mettere subito a fuoco la questione formazione professionale e scuola. Naturalmente dovendo dimensionarci sulle nostre competenze, molto estese sulla prima, meno sulla seconda.
Ne discutemmo approfonditamente, insieme ad altri collaboratori giungendo a tre convinzioni elementari, ma decisive.
* La prima riguardava la consapevolezza che la più importante risorsa di una comunità sono le persone (o come si usa dire, con espressione che non mi entusiasma, il capitale umano).
* La seconda era la percezione del superamento della vecchia tripartizione della vita: la giovinezza legata alla formazione, la maturità dedicata al lavoro e la vecchiaia riservata al riposo e al tempo libero.
* La terza consisteva nella convinzione che per riposizionare il nostro sistema produttivo e rilanciare l'economia era necessario vincere la sfida dell'innovazione, e quindi la strada obbligata per arrivare a ciò era ancora quella di investire sulle persone.
Dovevamo solamente fare scelte conseguenti, investire seriamente in formazione, costruire percorsi formativi di apprendimento “life long learning” (come si diceva), inventare strumenti di ricerca dei bisogni formativi, spalancare le porte del fortino provinciale.
Se penso all’avverbio usato – solamente – mi viene di nuovo l’orticaria.
La situazione della formazione in Provincia era disastrosa.
Le ragioni erano molteplici (demotivazione e scontri tra il personale, nicchie che venivano salvaguardate, ecc.), ma ravvisammo l’errore di fondo nella gestione diretta dei corsi, figlia di quel tempo e di una mentalità statalista e ideologizzata propria della classe politica che sino allora aveva governato. Molta gestione, con connaturate clientele, e in realtà poca vera e innovativa programmazione, che invece andava fatta e fatta bene, partendo dalle reali necessità del territorio, ascoltando interlocutori veri e possibilmente non politicizzati.
La lotta fu durissima ed è comprensibile il perché.
Messaggi trasversali, letteracce, ribellioni organizzate. Addirittura, visto che scegliemmo di pescare il nuovo dirigente, che fu poi il docente universitario Carlo Odoardi, al di fuori del personale dell’ente, con una selezione, rigorosa e innovativa (tra 150 candidati, una trentina dei quali con curricula formidabili), diversa dal solito inconcludente, lungo e forse pilotato concorso interno, a seguito di una immotivata denuncia di qualche dipendente, mi sono beccato, insieme ad altri, un avviso di garanzia, poi regolarmente archiviato.
La lotta fu durissima, dicevo, ma noi avevamo messo l’elmetto e quando feci un bilancio di legislatura mi resi conto che avevamo prodotto una vera e propria mutazione genetica.
La gestione della Formazione Professionale era passata dalla ‘forma diretta’ per la quasi totalità dei corsi, ad un prevalente spazio a quella ‘autorizzata’ (cioè svolta all'interno delle aziende) ed alla formazione ‘convenzionata’ (affidata alla collaborazione delle agenzie formative specializzate).
Nel 1996 il rapporto era 101 corsi in gestione diretta e 7 nelle altre due tipologie e circa 1000 allievi coinvolti.
Nel 1999 fu di 15 corsi in gestione diretta e 188 tra l'autorizzata e la convenzionata e la previsione era che vi partecipassero oltre 3000 allievi.
Inoltre il sevizio formazione della Provincia gestiva al 1999 relazioni esterne con 13 agenzie formative e con oltre 30 aziende che facevano formazione al loro interno attivando circa 600 operatori.
Era di fatto nata una rete di soggetti, fatta di scuole, imprese, associazioni di categoria, università, enti locali, che direttamente o indirettamente si facevano carico e contribuivano a garantire lo sviluppo di competenze individuali e che avrebbero potuto sempre più e sempre meglio favorire l’innovazione e lo sviluppo del sistema economico e di tutto il territorio.
Non tutto era oro, naturalmente; anche all’esterno c’erano alcune vischiosità, qualche lentezza e in certi casi cattive abitudini figlie di un antico legame col potere.
Ma il salto era fatto e la Provincia, anche in questo caso, era uscita in campo aperto, fidandosi dei soggetti diversi da se stessa, e per ciò stesso riuscendo a promuovere una formazione meno pensata dall’alto (poi non si sa da quali menti sopraffine) e, abbandonando l’impegno nella gestione diretta, a riposizionarsi sul fronte della programmazione, del controllo della qualità e della consulenza.
La capacità di spesa dei finanziamenti che la Regione erogava ogni anno sul Fondo Sociale Europeo era cresciuta esponenzialmente. Il programma di Formazione Professionale del 1998 fu totalmente realizzato e i corsi tutti terminati entro la fine dell’anno. Fu l’unico caso in tutta la Toscana.
L’esigenza di aderire sempre meglio alle richieste del territorio al fine della programmazione ci spinse a dotarci di un Sistema informatizzato proprio per rilevare il fabbisogno formativo che, con la imminente nascita del Centro per l’impiego, avrebbe dovuto anche incrociare domanda e offerta di lavoro.
Progetti specifici innovativi - come il “Sulcis” (formazione a distanza insieme ad altre 4 regioni) e il “Laboratorio”, che prevedeva l’istituzione permanente di formazione imprenditoriale e una ricerca sul territorio di vocazioni imprenditoriali e l’avvio della “Formazione Integrata Superiore”, che partì con un corso “per tecnico dei processi agroalimentari” e uno per “tecnico ambientale esperto in bonifica”- rappresentarono il nostro desiderio di spingere la formazione a diventare linfa di nuovo tessuto imprenditoriale.
Insomma, era proprio un’altra cosa rispetto a quella ante-1996.
Sono trascorsi 10 anni da quei momenti e di acqua sotto i ponti ne è passata.
Non sono in condizione di fare una obiettiva valutazione di quello che è avvenuto in seguito. Spero si sia andati avanti, sburocratizzando, modificando quello che ancora non funzionava alla luce dell’esperienza.
Spero, soprattutto, si sia continuato a fare della formazione, professionale e continua, e dell’educazione un luogo di libertà, di sperimentazione, di apertura al nuovo, di crescita di nuove professionalità.
Perché rammento cose accadute 10-14 anni fa, apparendo come Hiroo Onoda, l’ultimo giapponese che, immerso nella giungla, non aveva ancora compreso che le guerra era finita e perduta?
Le rammento per ricordare ai prossimi amministratori provinciali (e non solo a loro) che è fondamentale che la Provincia continui a mettere o rimetta al centro della propria azione proprio l'azione formativo-educativa in un ottica di crescita e di libertà e, per farlo, penso possa essere utile anche ridecifrare, soprattutto nello spirito, l’azione degli “straordinari anni 96-99” dei quali sono grato a molti, ma in particolare a Mariella e a Carlo.
Mentre scrivo queste riflessioni, mi sovviene un proverbio cinese:
Se ci pensi un anno prima pianti riso.
Se ci pensi dieci anni prima pianti alberi.
Se ci pensi cento anni prima educhi il popolo.
E mi commuovo.
Stefano Gentili
E con Mariella Gennai, la perla della mia giunta (che facevo arrabbiare quando le dicevo che era la mia migliore assessora donna – c’era solo lei…) decidemmo di mettere subito a fuoco la questione formazione professionale e scuola. Naturalmente dovendo dimensionarci sulle nostre competenze, molto estese sulla prima, meno sulla seconda.
Ne discutemmo approfonditamente, insieme ad altri collaboratori giungendo a tre convinzioni elementari, ma decisive.
* La prima riguardava la consapevolezza che la più importante risorsa di una comunità sono le persone (o come si usa dire, con espressione che non mi entusiasma, il capitale umano).
* La seconda era la percezione del superamento della vecchia tripartizione della vita: la giovinezza legata alla formazione, la maturità dedicata al lavoro e la vecchiaia riservata al riposo e al tempo libero.
* La terza consisteva nella convinzione che per riposizionare il nostro sistema produttivo e rilanciare l'economia era necessario vincere la sfida dell'innovazione, e quindi la strada obbligata per arrivare a ciò era ancora quella di investire sulle persone.
Dovevamo solamente fare scelte conseguenti, investire seriamente in formazione, costruire percorsi formativi di apprendimento “life long learning” (come si diceva), inventare strumenti di ricerca dei bisogni formativi, spalancare le porte del fortino provinciale.
Se penso all’avverbio usato – solamente – mi viene di nuovo l’orticaria.
La situazione della formazione in Provincia era disastrosa.
Le ragioni erano molteplici (demotivazione e scontri tra il personale, nicchie che venivano salvaguardate, ecc.), ma ravvisammo l’errore di fondo nella gestione diretta dei corsi, figlia di quel tempo e di una mentalità statalista e ideologizzata propria della classe politica che sino allora aveva governato. Molta gestione, con connaturate clientele, e in realtà poca vera e innovativa programmazione, che invece andava fatta e fatta bene, partendo dalle reali necessità del territorio, ascoltando interlocutori veri e possibilmente non politicizzati.
La lotta fu durissima ed è comprensibile il perché.
Messaggi trasversali, letteracce, ribellioni organizzate. Addirittura, visto che scegliemmo di pescare il nuovo dirigente, che fu poi il docente universitario Carlo Odoardi, al di fuori del personale dell’ente, con una selezione, rigorosa e innovativa (tra 150 candidati, una trentina dei quali con curricula formidabili), diversa dal solito inconcludente, lungo e forse pilotato concorso interno, a seguito di una immotivata denuncia di qualche dipendente, mi sono beccato, insieme ad altri, un avviso di garanzia, poi regolarmente archiviato.
La lotta fu durissima, dicevo, ma noi avevamo messo l’elmetto e quando feci un bilancio di legislatura mi resi conto che avevamo prodotto una vera e propria mutazione genetica.
La gestione della Formazione Professionale era passata dalla ‘forma diretta’ per la quasi totalità dei corsi, ad un prevalente spazio a quella ‘autorizzata’ (cioè svolta all'interno delle aziende) ed alla formazione ‘convenzionata’ (affidata alla collaborazione delle agenzie formative specializzate).
Nel 1996 il rapporto era 101 corsi in gestione diretta e 7 nelle altre due tipologie e circa 1000 allievi coinvolti.
Nel 1999 fu di 15 corsi in gestione diretta e 188 tra l'autorizzata e la convenzionata e la previsione era che vi partecipassero oltre 3000 allievi.
Inoltre il sevizio formazione della Provincia gestiva al 1999 relazioni esterne con 13 agenzie formative e con oltre 30 aziende che facevano formazione al loro interno attivando circa 600 operatori.
Era di fatto nata una rete di soggetti, fatta di scuole, imprese, associazioni di categoria, università, enti locali, che direttamente o indirettamente si facevano carico e contribuivano a garantire lo sviluppo di competenze individuali e che avrebbero potuto sempre più e sempre meglio favorire l’innovazione e lo sviluppo del sistema economico e di tutto il territorio.
Non tutto era oro, naturalmente; anche all’esterno c’erano alcune vischiosità, qualche lentezza e in certi casi cattive abitudini figlie di un antico legame col potere.
Ma il salto era fatto e la Provincia, anche in questo caso, era uscita in campo aperto, fidandosi dei soggetti diversi da se stessa, e per ciò stesso riuscendo a promuovere una formazione meno pensata dall’alto (poi non si sa da quali menti sopraffine) e, abbandonando l’impegno nella gestione diretta, a riposizionarsi sul fronte della programmazione, del controllo della qualità e della consulenza.
La capacità di spesa dei finanziamenti che la Regione erogava ogni anno sul Fondo Sociale Europeo era cresciuta esponenzialmente. Il programma di Formazione Professionale del 1998 fu totalmente realizzato e i corsi tutti terminati entro la fine dell’anno. Fu l’unico caso in tutta la Toscana.
L’esigenza di aderire sempre meglio alle richieste del territorio al fine della programmazione ci spinse a dotarci di un Sistema informatizzato proprio per rilevare il fabbisogno formativo che, con la imminente nascita del Centro per l’impiego, avrebbe dovuto anche incrociare domanda e offerta di lavoro.
Progetti specifici innovativi - come il “Sulcis” (formazione a distanza insieme ad altre 4 regioni) e il “Laboratorio”, che prevedeva l’istituzione permanente di formazione imprenditoriale e una ricerca sul territorio di vocazioni imprenditoriali e l’avvio della “Formazione Integrata Superiore”, che partì con un corso “per tecnico dei processi agroalimentari” e uno per “tecnico ambientale esperto in bonifica”- rappresentarono il nostro desiderio di spingere la formazione a diventare linfa di nuovo tessuto imprenditoriale.
Insomma, era proprio un’altra cosa rispetto a quella ante-1996.
Sono trascorsi 10 anni da quei momenti e di acqua sotto i ponti ne è passata.
Non sono in condizione di fare una obiettiva valutazione di quello che è avvenuto in seguito. Spero si sia andati avanti, sburocratizzando, modificando quello che ancora non funzionava alla luce dell’esperienza.
Spero, soprattutto, si sia continuato a fare della formazione, professionale e continua, e dell’educazione un luogo di libertà, di sperimentazione, di apertura al nuovo, di crescita di nuove professionalità.
Perché rammento cose accadute 10-14 anni fa, apparendo come Hiroo Onoda, l’ultimo giapponese che, immerso nella giungla, non aveva ancora compreso che le guerra era finita e perduta?
Le rammento per ricordare ai prossimi amministratori provinciali (e non solo a loro) che è fondamentale che la Provincia continui a mettere o rimetta al centro della propria azione proprio l'azione formativo-educativa in un ottica di crescita e di libertà e, per farlo, penso possa essere utile anche ridecifrare, soprattutto nello spirito, l’azione degli “straordinari anni 96-99” dei quali sono grato a molti, ma in particolare a Mariella e a Carlo.
Mentre scrivo queste riflessioni, mi sovviene un proverbio cinese:
Se ci pensi un anno prima pianti riso.
Se ci pensi dieci anni prima pianti alberi.
Se ci pensi cento anni prima educhi il popolo.
E mi commuovo.
Stefano Gentili
martedì 21 aprile 2009
NÉ INGESSATI, NÉ SCIANCATI, MA INCAMMINATI VERSO IL FUTURO
L’ente Provincia non è immediatamente vicino al cittadino e questo la rende meno compresa, se non incompresa.
Poi fa o non fa certe cose molto concrete, come strade e scuole superiori, e se ne discute, positivamente o in negativo.
In realtà le competenze della Provincia la spingono in primis a svolgere attività programmatoria su una serie di questioni, quali rifiuti, trasporti, rete scolastica, attività venatoria e via dicendo.
Ma la madre di tutte le programmazioni ha un nome che ai cittadini non dice assolutamente nulla: Piano Territoriale di Coordinamento. Eppure con esso si governano le politiche del territorio quanto ad ambiente, infrastrutture, insediamenti. Cioè, cose serie, non robetta.
Dopo un meticoloso lavoro e un percorso condiviso, ricordo che a fine ’98, precisamente nel consiglio provinciale del 6 novembre, si approvò il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Grosseto, siglato con l’acronimo, PTC.
Ne uscì fuori, a mio modo di vedere, uno strumento "profondamente innovativo".
Perché innovativo? Lo ricordo con 8 risposte.
• Perché prendeva le mosse da un'attenta analisi conoscitiva del territorio provinciale, non più considerato come un indistinto, ma come un'area vasta articolata al suo interno, dove le "diversità" erano riconosciute e inserite in un "sistema di complementarietà".
• Perché organizzava una conseguente programmazione in grado di tenere conto dell'identità territoriale della Provincia, cioè delle tipicità storiche, culturali, ambientali che la caratterizzavano e delle risorse che possedeva.
• Perché consentiva, pertanto, il passaggio da un "sistema di vincoli" rigidi e generalizzati sul territorio ad un "pacchetto di regole" adeguato alle diversità e animato dalla filosofia della "fattibilità compatibile". In Provincia di Grosseto da quel momento si poteva fare "tutto" (il bello, il buono, il lecito e l'utile); il PTC diceva "dove" e "come".
• Perché superava tutti gli atti regionali di tipo settoriale, quali, ad esempio, la più o meno famosa 296/88 (che poneva vincoli generalizzati sul territorio).
• Perché puntava su uno "sviluppo capace di futuro" in grado di integrare la salvaguardia del "capitale fisso sociale" (il territorio), con la "crescita ben temperata" delle infrastrutture, delle attività economiche e delle politiche di coesione sociale.
• Perché favoriva uno sviluppo complessivo, integrato ed equilibrato articolando azioni tendenti a modificare la realtà della "Provincia a due velocità", puntando ad una valorizzazione delle "economie interne" e ad una "qualificazione complessiva" del territorio provinciale.
• Perché immaginava attori sociali e individuali disponibili a farsi carico della salvaguardia e della valorizzazione del capitale fisso sociale.
• Perché faceva proprio il principio di "equiordinamento dei poteri elettivi" e il riconoscimento che a ciascuno dei livelli di governo del territorio dovevano essere garantiti pari dignità e poteri (superando quindi la cosiddetta "pianificazione a cascata" e la subordinazione dei livelli inferiori a quello superiore). Pertanto l'azione provinciale si incentrava su un efficace coordinamento tra i diversi centri di pianificazione, a cui forniva sia "scenari di riferimento sovracomunali" che un "tavolo permanente di confronto" al fine di attuare una programmazione integrata e individuare le priorità d'intervento.
Insomma un PTC che cercava di integrare sapientemente i valori e le sensibilità con gli interessi legittimi per raggiungere il "bene comune storicamente possibile" e con l'intento di governare il territorio perché "la vita vivesse" e "vivessero gli uomini": quelli di allora e le generazioni future.
Il Piano, come previsto, ha in seguito avuto aggiustamenti dettati dall’esperienza concreta, ma nella sostanza e nella quasi totalità della forma è rimasto quello di allora.
Con uno slogan non bellissimo, ma chiaro, "né ingessati, né sciancati, ma incamminati verso il futuro", chiusi l’intervento introduttivo al consiglio dell’11 novembre ’98 (che può essere recuperato nella sua interezza sul mio sito www.stefanogentili.it/Provincia Amica/Considerazioni su Ambiente, Territorio, Infrastrutture/Piano Territoriale di Coordinamento per la vita e lo sviluppo).
Ritengo questo strumento un’autentica pietra miliare nella costruzione di una Provincia amica.
Stefano Gentili
Poi fa o non fa certe cose molto concrete, come strade e scuole superiori, e se ne discute, positivamente o in negativo.
In realtà le competenze della Provincia la spingono in primis a svolgere attività programmatoria su una serie di questioni, quali rifiuti, trasporti, rete scolastica, attività venatoria e via dicendo.
Ma la madre di tutte le programmazioni ha un nome che ai cittadini non dice assolutamente nulla: Piano Territoriale di Coordinamento. Eppure con esso si governano le politiche del territorio quanto ad ambiente, infrastrutture, insediamenti. Cioè, cose serie, non robetta.
Dopo un meticoloso lavoro e un percorso condiviso, ricordo che a fine ’98, precisamente nel consiglio provinciale del 6 novembre, si approvò il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Grosseto, siglato con l’acronimo, PTC.
Ne uscì fuori, a mio modo di vedere, uno strumento "profondamente innovativo".
Perché innovativo? Lo ricordo con 8 risposte.
• Perché prendeva le mosse da un'attenta analisi conoscitiva del territorio provinciale, non più considerato come un indistinto, ma come un'area vasta articolata al suo interno, dove le "diversità" erano riconosciute e inserite in un "sistema di complementarietà".
• Perché organizzava una conseguente programmazione in grado di tenere conto dell'identità territoriale della Provincia, cioè delle tipicità storiche, culturali, ambientali che la caratterizzavano e delle risorse che possedeva.
• Perché consentiva, pertanto, il passaggio da un "sistema di vincoli" rigidi e generalizzati sul territorio ad un "pacchetto di regole" adeguato alle diversità e animato dalla filosofia della "fattibilità compatibile". In Provincia di Grosseto da quel momento si poteva fare "tutto" (il bello, il buono, il lecito e l'utile); il PTC diceva "dove" e "come".
• Perché superava tutti gli atti regionali di tipo settoriale, quali, ad esempio, la più o meno famosa 296/88 (che poneva vincoli generalizzati sul territorio).
• Perché puntava su uno "sviluppo capace di futuro" in grado di integrare la salvaguardia del "capitale fisso sociale" (il territorio), con la "crescita ben temperata" delle infrastrutture, delle attività economiche e delle politiche di coesione sociale.
• Perché favoriva uno sviluppo complessivo, integrato ed equilibrato articolando azioni tendenti a modificare la realtà della "Provincia a due velocità", puntando ad una valorizzazione delle "economie interne" e ad una "qualificazione complessiva" del territorio provinciale.
• Perché immaginava attori sociali e individuali disponibili a farsi carico della salvaguardia e della valorizzazione del capitale fisso sociale.
• Perché faceva proprio il principio di "equiordinamento dei poteri elettivi" e il riconoscimento che a ciascuno dei livelli di governo del territorio dovevano essere garantiti pari dignità e poteri (superando quindi la cosiddetta "pianificazione a cascata" e la subordinazione dei livelli inferiori a quello superiore). Pertanto l'azione provinciale si incentrava su un efficace coordinamento tra i diversi centri di pianificazione, a cui forniva sia "scenari di riferimento sovracomunali" che un "tavolo permanente di confronto" al fine di attuare una programmazione integrata e individuare le priorità d'intervento.
Insomma un PTC che cercava di integrare sapientemente i valori e le sensibilità con gli interessi legittimi per raggiungere il "bene comune storicamente possibile" e con l'intento di governare il territorio perché "la vita vivesse" e "vivessero gli uomini": quelli di allora e le generazioni future.
Il Piano, come previsto, ha in seguito avuto aggiustamenti dettati dall’esperienza concreta, ma nella sostanza e nella quasi totalità della forma è rimasto quello di allora.
Con uno slogan non bellissimo, ma chiaro, "né ingessati, né sciancati, ma incamminati verso il futuro", chiusi l’intervento introduttivo al consiglio dell’11 novembre ’98 (che può essere recuperato nella sua interezza sul mio sito www.stefanogentili.it/Provincia Amica/Considerazioni su Ambiente, Territorio, Infrastrutture/Piano Territoriale di Coordinamento per la vita e lo sviluppo).
Ritengo questo strumento un’autentica pietra miliare nella costruzione di una Provincia amica.
Stefano Gentili
lunedì 20 aprile 2009
LA TERZA RIVOLUZIONE DELLA MAREMMA: IL DISTRETTO RURALE
Quando nel maggio 1995 mi trovai in mano la bicicletta della Provincia che la volontà di 76.746 cittadini mi aveva consegnato, non mi restava che pedalare.
La prima cosa importante che feci fu quella di scegliere i collaboratori più stretti, la giunta provinciale. Lo feci con grande autonomia, puntando su tre cose: competenza, intuibili capacità innovative, discontinuità col passato; mi basai molto sul curriculum di ciascuno.
Fu il mio primo peccato, mai perdonato, che mi fu fatto puntualmente pagare nel 1999 impedendo una mia ricandidatura alla guida della provincia.
Ma rappresentò a mio giudizio una scelta azzeccatissima in termini di bene comune.
Quattro persone di grande valore e di spiccate competenze.
In questo caso - e perché l’argomento lo richiede - desidero rammentare il prof. Alessandro Pacciani. Lo tirai fuori dal cappello come un prestigiatore; la sorpresa fu molta, alcuni manifestarono fastidio perché non consultai nessuno, ma il suo curriculum lo rendeva inattaccabile. Fu un’illuminazione.
Con lui fu possibile da subito far fronte ad alcune situazioni di crisi piuttosto acute, penso al settore lattiero-caseario (ma non solo) e soprattutto ci rendemmo conto che la Provincia di Grosseto pur presentandosi, nel panorama toscano, coma l'area agricola forte, doveva iniziare a intraprendere strade innovative che le avessero consentito di avere un ruolo di primo piano anche nell'immediato futuro.
Nacque così l’idea di progettare per la Maremma il DISTRETTO RURALE.
Ad esser sinceri le prime intuizioni ci avevano preceduto e sono rintracciabili nel contributo della Federazione Lavoratori Agro Industria della CGIL del 1993 e nel Progetto per il Sistema di Qualità Maremma predisposto nell’ambito dell’Iniziativa Comunitaria Leader II dal settore agricoltura della stessa Provincia.
Fu però nella legislatura 1995-99 che prese forza l’idea della Maremma Distretto Rurale d’Europa ed ebbe una prima importante condivisione nella I Conferenza Provinciale del 1996. La definitiva consacrazione ci fu con la II Conferenza Provinciale del '98 dove furono presentate e discusse le linee programmatiche ed operative del Distretto Rurale e individuati gli assi di intervento su cui far confluire tutti gli strumenti finanziari.
E candidammo formalmente la Provincia di Grosseto a Distretto Rurale.
Candidatura che riuscì ad avere il riconoscimento della Giunta regionale toscana, in via sperimentale, nel giugno 2002. La cosa fece scuola a tal punto che altre zone toscane seguirono la nostra idea e condusse la stessa Regione Toscana a disciplinare la costituzione dei distretti rurali con Legge 21/2004. L’approvazione definitiva infine avvenne nell’ottobre 2006.
Ma quale era l’intuizione alla base del Distretto Rurale?
Era quella che non bastasse più parlare semplicemente di agricoltura, ma che fosse necessario ragionare e programmare in termini di Sviluppo Rurale Integrato.
L'obiettivo politico che avevamo in mente, detto in soldoni, era quello di mantenere i presìdi umani sul territorio e far tornare attraente vivere in un territorio rurale.
E siffatto obiettivo non era più raggiungibile alla vecchia maniera, ma richiedeva un approccio nuovo che individuammo nello sviluppo rurale integrato.
Esso è, infatti, uno sviluppo di tipo territoriale (piuttosto che settoriale) che si manifesta attraverso una pluralità di settori e ambiti d'intervento: le infrastrutture, i servizi, l'ambiente, il turismo, il patrimonio culturale, artistico e paesaggistico, la creazione di nuove professionalità, l'artigianato, la trasformazione dei prodotti della natura, gli aspetti sociali.
L'agricoltura diviene componente determinante dello sviluppo rurale in quanto inserita in questo processo integrato e finalizzato a conservare e a migliorare i livelli occupazionali, di reddito, di vivibilità.
In questo rinnovato contesto il territorio assume un ruolo sempre più strategico come àmbito della pianificazione dello spazio rurale nel quale attuare lo sviluppo rurale integrato.
Ciò mediante il cambiamento del suo ruolo - in sintonia con l'impostazione europea (dalla Carta Rurale Europea alla Conferenza di Cork sullo sviluppo rurale) - da sede fisica (contenitore di interventi edilizi, infrastrutturali, dello sviluppo) a fattore che consenta la verifica della qualità dello sviluppo e del suo impatto sulla vita della gente.
E’ nel contesto di quell’intuizione-idea-progetto che è stato possibile pochi anni dopo, sempre sotto la sapiente regia di Pacciani, costruire il Patto specialistico per l’Agricoltura, sul modello del Patto Territoriale già sperimentato e il Contratto di Programma per l’Agro-Alimentare.
So che il progetto Distretto ha trovato anche alcuni critici (sempre legittimi e benvenuti) e qualche denigratore (per lo più gente invidiosa e incapace), ma la stragrande maggioranza degli operatori, delle associazioni e dei responsabili politici e amministrativi ne ha colto lo straordinario valore strategico ed ha partecipato all’ardua impresa.
Come valutare, allora, la realizzazione? Certo, ai posteri l’ardua sentenza.
Ma, mio parere, nel progetto di Distretto Rurale c’è delineata la linea di sviluppo principale dei prossimi decenni.
Vi è rappresentata la svolta che è avvenuta in Maremma nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo, a partire dalla consapevolezza della propria identità e attivando atti di programmazione e di governo che fossero in grado di dare concretezza a concetti di per sé astratti, quali: sviluppo integrato, sviluppo sostenibile e compatibile, riequilibrio territoriale, sussidiarietà, concertazione, multifunzionalità dell’agricoltura, qualità dei prodotti delle risorse e del territorio.
Il tutto con una metodologia di lavoro che abbiamo faticato un sacco a far nascere: quella della concertazione vera tra tutti i soggetti locali.
Se una critica mi sento di fare è relativa alla gestione sempre più burocratica che è stata fatta in seguito del progetto Distretto, centrandolo troppo sulla Provincia come ente e sempre meno sul territorio e sui suoi protagonisti vitali.
Il progetto comunque, nonostante qualche limite, ha rappresentato – come osservava Pacciani nel 2003 – “l’avvio di un processo che ha caratterizzato la società e l’economia grossetana negli ultimi sette/otto anni, ponendosi alla base di quella che può essere considerata oggi la TERZA RIVOLUZIONE della Maremma dopo la Bonifica e la Riforma agraria.
Con la Bonifica, nelle sue varie interpretazioni temporali - idraulica, sanitaria, integrale - il territorio è recuperato alla produzione e agli insediamenti senza modificare il regime fondiario dal punto di vista tecnico-giuridico.
Con la Riforma agraria la trasformazione ha investito la distribuzione della proprietà fondiaria puntando all’incremento e alla qualificazione dell’occupazione, attraverso la creazione di un tessuto diffuso di imprese coltivatrici supportate da interessanti esperienze di cooperazione.
Con il Distretto Rurale si favorisce l’affermarsi dell’imprenditorialità agricola, della multifunzionalità dell’agricoltura e la valorizzazione del territorio e di tutte le attività che in qualche modo rientrano nel contesto della ruralità”.
L’esperienza maremmana è lì a dimostrare come la scommessa sul Distretto Rurale non solo abbia prodotto effetti positivi sui comportamenti delle imprese e della pubblica amministrazione, ma per molti aspetti sia stata anticipatrice rispetto ai cambiamenti delle politiche, determinando un forte stimolo verso la riconversione produttiva delle attività del mondo rurale, in particolare di quella agricola, e richiamando forti flussi di nuovi investimenti e quindi di nuova occupazione e nuove fonti di reddito.
Gli indicatori più significativi per rappresentare gli effetti della trasformazione in atto - ricordava sempre nel 2003 Pacciani - "oltre al valore del capitale fondiario, più che quintuplicato negli ultimi sette/otto anni, anche nelle aree marginali della provincia, sono altresì ravvisabili nella crescita eccezionale degli investimenti delle imprese e delle amministrazioni locali, accompagnati da un apprezzabile ricambio generazionale dell’imprenditoria agricola in particolare quella femminile e da una evidente vitalità sociale e culturale delle aree rurali".
A me tutto questo sembra una bella notizia per le generazioni future e su questa linea penso si debba proseguire.
Stefano Gentili
La prima cosa importante che feci fu quella di scegliere i collaboratori più stretti, la giunta provinciale. Lo feci con grande autonomia, puntando su tre cose: competenza, intuibili capacità innovative, discontinuità col passato; mi basai molto sul curriculum di ciascuno.
Fu il mio primo peccato, mai perdonato, che mi fu fatto puntualmente pagare nel 1999 impedendo una mia ricandidatura alla guida della provincia.
Ma rappresentò a mio giudizio una scelta azzeccatissima in termini di bene comune.
Quattro persone di grande valore e di spiccate competenze.
In questo caso - e perché l’argomento lo richiede - desidero rammentare il prof. Alessandro Pacciani. Lo tirai fuori dal cappello come un prestigiatore; la sorpresa fu molta, alcuni manifestarono fastidio perché non consultai nessuno, ma il suo curriculum lo rendeva inattaccabile. Fu un’illuminazione.
Con lui fu possibile da subito far fronte ad alcune situazioni di crisi piuttosto acute, penso al settore lattiero-caseario (ma non solo) e soprattutto ci rendemmo conto che la Provincia di Grosseto pur presentandosi, nel panorama toscano, coma l'area agricola forte, doveva iniziare a intraprendere strade innovative che le avessero consentito di avere un ruolo di primo piano anche nell'immediato futuro.
Nacque così l’idea di progettare per la Maremma il DISTRETTO RURALE.
Ad esser sinceri le prime intuizioni ci avevano preceduto e sono rintracciabili nel contributo della Federazione Lavoratori Agro Industria della CGIL del 1993 e nel Progetto per il Sistema di Qualità Maremma predisposto nell’ambito dell’Iniziativa Comunitaria Leader II dal settore agricoltura della stessa Provincia.
Fu però nella legislatura 1995-99 che prese forza l’idea della Maremma Distretto Rurale d’Europa ed ebbe una prima importante condivisione nella I Conferenza Provinciale del 1996. La definitiva consacrazione ci fu con la II Conferenza Provinciale del '98 dove furono presentate e discusse le linee programmatiche ed operative del Distretto Rurale e individuati gli assi di intervento su cui far confluire tutti gli strumenti finanziari.
E candidammo formalmente la Provincia di Grosseto a Distretto Rurale.
Candidatura che riuscì ad avere il riconoscimento della Giunta regionale toscana, in via sperimentale, nel giugno 2002. La cosa fece scuola a tal punto che altre zone toscane seguirono la nostra idea e condusse la stessa Regione Toscana a disciplinare la costituzione dei distretti rurali con Legge 21/2004. L’approvazione definitiva infine avvenne nell’ottobre 2006.
Ma quale era l’intuizione alla base del Distretto Rurale?
Era quella che non bastasse più parlare semplicemente di agricoltura, ma che fosse necessario ragionare e programmare in termini di Sviluppo Rurale Integrato.
L'obiettivo politico che avevamo in mente, detto in soldoni, era quello di mantenere i presìdi umani sul territorio e far tornare attraente vivere in un territorio rurale.
E siffatto obiettivo non era più raggiungibile alla vecchia maniera, ma richiedeva un approccio nuovo che individuammo nello sviluppo rurale integrato.
Esso è, infatti, uno sviluppo di tipo territoriale (piuttosto che settoriale) che si manifesta attraverso una pluralità di settori e ambiti d'intervento: le infrastrutture, i servizi, l'ambiente, il turismo, il patrimonio culturale, artistico e paesaggistico, la creazione di nuove professionalità, l'artigianato, la trasformazione dei prodotti della natura, gli aspetti sociali.
L'agricoltura diviene componente determinante dello sviluppo rurale in quanto inserita in questo processo integrato e finalizzato a conservare e a migliorare i livelli occupazionali, di reddito, di vivibilità.
In questo rinnovato contesto il territorio assume un ruolo sempre più strategico come àmbito della pianificazione dello spazio rurale nel quale attuare lo sviluppo rurale integrato.
Ciò mediante il cambiamento del suo ruolo - in sintonia con l'impostazione europea (dalla Carta Rurale Europea alla Conferenza di Cork sullo sviluppo rurale) - da sede fisica (contenitore di interventi edilizi, infrastrutturali, dello sviluppo) a fattore che consenta la verifica della qualità dello sviluppo e del suo impatto sulla vita della gente.
E’ nel contesto di quell’intuizione-idea-progetto che è stato possibile pochi anni dopo, sempre sotto la sapiente regia di Pacciani, costruire il Patto specialistico per l’Agricoltura, sul modello del Patto Territoriale già sperimentato e il Contratto di Programma per l’Agro-Alimentare.
So che il progetto Distretto ha trovato anche alcuni critici (sempre legittimi e benvenuti) e qualche denigratore (per lo più gente invidiosa e incapace), ma la stragrande maggioranza degli operatori, delle associazioni e dei responsabili politici e amministrativi ne ha colto lo straordinario valore strategico ed ha partecipato all’ardua impresa.
Come valutare, allora, la realizzazione? Certo, ai posteri l’ardua sentenza.
Ma, mio parere, nel progetto di Distretto Rurale c’è delineata la linea di sviluppo principale dei prossimi decenni.
Vi è rappresentata la svolta che è avvenuta in Maremma nella costruzione di un nuovo modello di sviluppo, a partire dalla consapevolezza della propria identità e attivando atti di programmazione e di governo che fossero in grado di dare concretezza a concetti di per sé astratti, quali: sviluppo integrato, sviluppo sostenibile e compatibile, riequilibrio territoriale, sussidiarietà, concertazione, multifunzionalità dell’agricoltura, qualità dei prodotti delle risorse e del territorio.
Il tutto con una metodologia di lavoro che abbiamo faticato un sacco a far nascere: quella della concertazione vera tra tutti i soggetti locali.
Se una critica mi sento di fare è relativa alla gestione sempre più burocratica che è stata fatta in seguito del progetto Distretto, centrandolo troppo sulla Provincia come ente e sempre meno sul territorio e sui suoi protagonisti vitali.
Il progetto comunque, nonostante qualche limite, ha rappresentato – come osservava Pacciani nel 2003 – “l’avvio di un processo che ha caratterizzato la società e l’economia grossetana negli ultimi sette/otto anni, ponendosi alla base di quella che può essere considerata oggi la TERZA RIVOLUZIONE della Maremma dopo la Bonifica e la Riforma agraria.
Con la Bonifica, nelle sue varie interpretazioni temporali - idraulica, sanitaria, integrale - il territorio è recuperato alla produzione e agli insediamenti senza modificare il regime fondiario dal punto di vista tecnico-giuridico.
Con la Riforma agraria la trasformazione ha investito la distribuzione della proprietà fondiaria puntando all’incremento e alla qualificazione dell’occupazione, attraverso la creazione di un tessuto diffuso di imprese coltivatrici supportate da interessanti esperienze di cooperazione.
Con il Distretto Rurale si favorisce l’affermarsi dell’imprenditorialità agricola, della multifunzionalità dell’agricoltura e la valorizzazione del territorio e di tutte le attività che in qualche modo rientrano nel contesto della ruralità”.
L’esperienza maremmana è lì a dimostrare come la scommessa sul Distretto Rurale non solo abbia prodotto effetti positivi sui comportamenti delle imprese e della pubblica amministrazione, ma per molti aspetti sia stata anticipatrice rispetto ai cambiamenti delle politiche, determinando un forte stimolo verso la riconversione produttiva delle attività del mondo rurale, in particolare di quella agricola, e richiamando forti flussi di nuovi investimenti e quindi di nuova occupazione e nuove fonti di reddito.
Gli indicatori più significativi per rappresentare gli effetti della trasformazione in atto - ricordava sempre nel 2003 Pacciani - "oltre al valore del capitale fondiario, più che quintuplicato negli ultimi sette/otto anni, anche nelle aree marginali della provincia, sono altresì ravvisabili nella crescita eccezionale degli investimenti delle imprese e delle amministrazioni locali, accompagnati da un apprezzabile ricambio generazionale dell’imprenditoria agricola in particolare quella femminile e da una evidente vitalità sociale e culturale delle aree rurali".
A me tutto questo sembra una bella notizia per le generazioni future e su questa linea penso si debba proseguire.
Stefano Gentili
10 ANNI FA IL PATTO TERRITORIALE: DISEGNO ORGANICO DI RILANCIO DELLA MAREMMA
Dieci anni fa, precisamente il 30 marzo 1999, sottoscrissi come Presidente della Provincia di Grosseto, il Patto Territoriale per lo sviluppo della Maremma grossetana.
Nella breve dichiarazione stampa dichiaravo: “In questo Patto territoriale c'è una fetta del nostro futuro. E desidero dedicarlo proprio ai protagonisti di questo futuro: i nostri giovani, che meritano di avere sempre maggiori opportunità occupazionali. Abbiamo lavorato, soprattutto, pensando a loro”.
Fu l’ultimo passaggio formale di un percorso iniziato idealmente dall’estate 1995 e formalmente dal 22 maggio 1996 con la richiesta avanzata al CNEL di avviare il percorso per la formulazione di un Patto Territoriale provinciale.
Chi vuol rammentare la genesi, il percorso, i protagonisti e la logica che ebbe ad animare quella intuizione può recuperarla sul mio sito www.stefanogentili.it, alla voce Provincia Amica/Considerazioni su lavoro e sviluppo/Patto Territoriale la nave sta per attraccare, nell’intervento che tenni il giorno di un’altra delle varie sottoscrizioni, quella dell'accordo tra soggetti pubblici il 28. 10. 1997.
Ritengo che il Patto Territoriale sia stato il disegno organico di rilancio economico-finanziario più importante avvenuto nella provincia di Grosseto negli ultimi decenni.
Veramente buffo che nessuno ne abbia fatto cenno.
E penso che una cosa analoga vada pensata anche per il futuro; non cose fumose, ma una raccolta organica di progetti, cantierabili e bancabili, supportati da interventi finanziari regionali, nazionali, comunitari.
Stefano Gentili
Nella breve dichiarazione stampa dichiaravo: “In questo Patto territoriale c'è una fetta del nostro futuro. E desidero dedicarlo proprio ai protagonisti di questo futuro: i nostri giovani, che meritano di avere sempre maggiori opportunità occupazionali. Abbiamo lavorato, soprattutto, pensando a loro”.
Fu l’ultimo passaggio formale di un percorso iniziato idealmente dall’estate 1995 e formalmente dal 22 maggio 1996 con la richiesta avanzata al CNEL di avviare il percorso per la formulazione di un Patto Territoriale provinciale.
Chi vuol rammentare la genesi, il percorso, i protagonisti e la logica che ebbe ad animare quella intuizione può recuperarla sul mio sito www.stefanogentili.it, alla voce Provincia Amica/Considerazioni su lavoro e sviluppo/Patto Territoriale la nave sta per attraccare, nell’intervento che tenni il giorno di un’altra delle varie sottoscrizioni, quella dell'accordo tra soggetti pubblici il 28. 10. 1997.
Ritengo che il Patto Territoriale sia stato il disegno organico di rilancio economico-finanziario più importante avvenuto nella provincia di Grosseto negli ultimi decenni.
Veramente buffo che nessuno ne abbia fatto cenno.
E penso che una cosa analoga vada pensata anche per il futuro; non cose fumose, ma una raccolta organica di progetti, cantierabili e bancabili, supportati da interventi finanziari regionali, nazionali, comunitari.
Stefano Gentili
sabato 18 aprile 2009
Mi ricordo quando a CUBA io, Achille, Eliseo, FIDEL…condannammo EL BLOQUEO
Le dichiarazioni riportate oggi dalla stampa circa la volontà da parte degli USA di modificare le relazioni con Cuba, quelle esplicitate di Hillary Clinton secondo cui “l’attuale politica americana su Cuba è fallimentare” e che in conseguenza lo stesso embargo – riecheggiando le affermazioni del senatore repubblicano Richard Lugar - “dopo 50 anni possiamo dire che è stato un fallimento”, mi riportano alla memoria la politica di micro-relazioni internazionali che la Provincia da me presieduta instaurò proprio col regime cubano e in particolare con i responsabili della Provincia dell’Avana, ma non solo.
Tutto decollò dalla visita di una settimana all’Avana che tenemmo nel luglio 1997.
La proposta di quel viaggio era partita dalla Grosseto-Export, allora guidata da Achille Giusti e fu appoggiata dalla Camera di Commercio presieduta dal facente funzione Eliseo Martelli.
Fu un viaggio bellissimo per le cose viste e provate e fisicamente molto impegnativo, per la tratta aerea, il fuso, il clima, il tourbillon di incontri con il ministro del turismo, quello del commercio estero, con i massimi dirigenti della sanità, con il presidente della Camera di commercio cubana, con quello della Provincia, con il Vescovo della diocesi dell’Avana e con altri responsabili i cui ruoli non ricordo. Arrivammo vicinissimi ad incontro con Fidel Castro, ma la cosa sfumò.
Vi furono visite abbastanza pilotate a stabilimenti di artigianato tessile e a zone di possibile sviluppo termale ed aree di sicura attrazione turistica (ricordo un isola raggiunta nell'ultimo tratto a nuoto), ma anche altre che facemmo personalmente, scoprendo i forti disagi e la grande dignità di quella popolazione, come pure i progressi fatti nell’alfabetismo, nell’istruzione e nella sanità (interessantissimo l’incontro con alcuni scienziati proprio in questo campo).
L’intento di quel viaggio era quello di stabilire relazioni di amicizia e rapporti commerciali con un'area del tutto nuova e di sottoscrivere intese che aprissero la strada a partenariati duraturi. C’era, almeno in me, anche il desiderio che i nostri popoli si conoscessero meglio e avviassero ciascuno percorsi di riflessione e di autocritica: chi sul regime, chi sul modello di sviluppo, chi sulla libertà, chi sulla giustizia.
L’anno dopo i cubani restituirono la visita: nel settembre 1998 ricevetti una delegazione dell’Avana e il Presidente della Provincia che la guidava, Angel Garate Dominguez, definì la provincia di Grosseto “interlocutore privilegiato”. Per questo mi presi una reprimenda dal presidente di un Circolo grossetano di AN, Fabrizio Pazzaglia (come è possibile rileggere rintracciando l’articolo su La Nazione del 29.09.1998 dal titolo: “Gentili interlocutore di un dittatore”).
Il 28 gennaio 1999 ricevetti l’Ambasciatore in Italia di Cuba e il vicepresidente della Provincia dell’Avana per siglare un ulteriore accordo di collaborazione istituzionale.
Piccole cose, s’intende, quelle che può fare un ente come la provincia. Ma se ognuno facesse il suo....
Al di là di questo mi sovviene un episodio, anch’esso modesto, ma significativo e simpatico, che ci accadde durante la visita all’Avana del luglio ’97: il penultimo giorno, a coronamento dei colloqui dei giorni precedenti, sottoscrivemmo un accordo noi, Provincia di Grosseto, Camera di Commercio, Grosseto Export, e i nostri omologhi cubani. In quella circostanza erano previsti brevi discorsi di tutti i presidenti.
Sia io che Giusti che Martelli - pur non avendo concordato nulla e con le diverse sfumature dei ruoli - fummo molto decisi, anzi decisissimi, su una cosa: sulla fine dell’embargo (o bloquéo, come lo chiamavano) che durava dal 1960 e il ritiro della legge Helms-Burton, voluta dal Presidente Clinton, del 1996. Provvedimento che inaspriva ulteriormente l'embargo, penalizzando le imprese straniere che avevano affari con Cuba e consentiva ai cittadini americani di far causa agli investitori stranieri che utilizzassero proprietà espropriate dal regime dell'Avana.
Il tutto si concluse con l’obbligatoria fumata di un sigaro cubano (o di parte di esso), cosa che ricordo ancora con piacere e con qualche giramento di testa.
Quelle nostre dichiarazioni, riportate anche dalla radio nazionale cubana, mi sembra furono un episodio semplice ma significativo.
La simpatia della cosa è legata al fatto che a pronunciare quei discorsi veramente rivoluzionari fummo 3 ex-democristiani, quindi per definizione anti-comunisti: Eliseo e Achille certamente, io un po’ meno perché dal 1987 (quando mi iscrissi alla Dc) al 1994 (quando la Dc si dissolse) avevo sempre teorizzato lo necessità dell’incontro in Italia delle forze di tradizione marxista con quelle di tradizione cattolico-democratica (e i miei due interventi alla carica di segretario provinciale della Dc nei congressi dei primi anni ’90, regolarmente perduti, sono lì a testimoniarlo).
La circostanza che io, Achille ed Eliseo prendemmo le difese del popolo cubano, contro la strategia degli USA l’ho sempre in seguito ricordata con grande affetto e simpatia.
Per questo mi piace rammentarla oggi che le nubi sull’isola caraibica sembrano iniziare a diradarsi.
Tutto qui.
Stefano Gentili
Tutto decollò dalla visita di una settimana all’Avana che tenemmo nel luglio 1997.
La proposta di quel viaggio era partita dalla Grosseto-Export, allora guidata da Achille Giusti e fu appoggiata dalla Camera di Commercio presieduta dal facente funzione Eliseo Martelli.
Fu un viaggio bellissimo per le cose viste e provate e fisicamente molto impegnativo, per la tratta aerea, il fuso, il clima, il tourbillon di incontri con il ministro del turismo, quello del commercio estero, con i massimi dirigenti della sanità, con il presidente della Camera di commercio cubana, con quello della Provincia, con il Vescovo della diocesi dell’Avana e con altri responsabili i cui ruoli non ricordo. Arrivammo vicinissimi ad incontro con Fidel Castro, ma la cosa sfumò.
Vi furono visite abbastanza pilotate a stabilimenti di artigianato tessile e a zone di possibile sviluppo termale ed aree di sicura attrazione turistica (ricordo un isola raggiunta nell'ultimo tratto a nuoto), ma anche altre che facemmo personalmente, scoprendo i forti disagi e la grande dignità di quella popolazione, come pure i progressi fatti nell’alfabetismo, nell’istruzione e nella sanità (interessantissimo l’incontro con alcuni scienziati proprio in questo campo).
L’intento di quel viaggio era quello di stabilire relazioni di amicizia e rapporti commerciali con un'area del tutto nuova e di sottoscrivere intese che aprissero la strada a partenariati duraturi. C’era, almeno in me, anche il desiderio che i nostri popoli si conoscessero meglio e avviassero ciascuno percorsi di riflessione e di autocritica: chi sul regime, chi sul modello di sviluppo, chi sulla libertà, chi sulla giustizia.
L’anno dopo i cubani restituirono la visita: nel settembre 1998 ricevetti una delegazione dell’Avana e il Presidente della Provincia che la guidava, Angel Garate Dominguez, definì la provincia di Grosseto “interlocutore privilegiato”. Per questo mi presi una reprimenda dal presidente di un Circolo grossetano di AN, Fabrizio Pazzaglia (come è possibile rileggere rintracciando l’articolo su La Nazione del 29.09.1998 dal titolo: “Gentili interlocutore di un dittatore”).
Il 28 gennaio 1999 ricevetti l’Ambasciatore in Italia di Cuba e il vicepresidente della Provincia dell’Avana per siglare un ulteriore accordo di collaborazione istituzionale.
Piccole cose, s’intende, quelle che può fare un ente come la provincia. Ma se ognuno facesse il suo....
Al di là di questo mi sovviene un episodio, anch’esso modesto, ma significativo e simpatico, che ci accadde durante la visita all’Avana del luglio ’97: il penultimo giorno, a coronamento dei colloqui dei giorni precedenti, sottoscrivemmo un accordo noi, Provincia di Grosseto, Camera di Commercio, Grosseto Export, e i nostri omologhi cubani. In quella circostanza erano previsti brevi discorsi di tutti i presidenti.
Sia io che Giusti che Martelli - pur non avendo concordato nulla e con le diverse sfumature dei ruoli - fummo molto decisi, anzi decisissimi, su una cosa: sulla fine dell’embargo (o bloquéo, come lo chiamavano) che durava dal 1960 e il ritiro della legge Helms-Burton, voluta dal Presidente Clinton, del 1996. Provvedimento che inaspriva ulteriormente l'embargo, penalizzando le imprese straniere che avevano affari con Cuba e consentiva ai cittadini americani di far causa agli investitori stranieri che utilizzassero proprietà espropriate dal regime dell'Avana.
Il tutto si concluse con l’obbligatoria fumata di un sigaro cubano (o di parte di esso), cosa che ricordo ancora con piacere e con qualche giramento di testa.
Quelle nostre dichiarazioni, riportate anche dalla radio nazionale cubana, mi sembra furono un episodio semplice ma significativo.
La simpatia della cosa è legata al fatto che a pronunciare quei discorsi veramente rivoluzionari fummo 3 ex-democristiani, quindi per definizione anti-comunisti: Eliseo e Achille certamente, io un po’ meno perché dal 1987 (quando mi iscrissi alla Dc) al 1994 (quando la Dc si dissolse) avevo sempre teorizzato lo necessità dell’incontro in Italia delle forze di tradizione marxista con quelle di tradizione cattolico-democratica (e i miei due interventi alla carica di segretario provinciale della Dc nei congressi dei primi anni ’90, regolarmente perduti, sono lì a testimoniarlo).
La circostanza che io, Achille ed Eliseo prendemmo le difese del popolo cubano, contro la strategia degli USA l’ho sempre in seguito ricordata con grande affetto e simpatia.
Per questo mi piace rammentarla oggi che le nubi sull’isola caraibica sembrano iniziare a diradarsi.
Tutto qui.
Stefano Gentili
sabato 11 aprile 2009
PASQUA 2009: VEDERE E AMARE CIO’ CHE SARA’
Quale augurio pasquale fare agli amici che, di tanto in tanto, hanno la curiosità di affacciarsi sul mio blog.
In questo momento mi viene spontaneo richiamare la SPERANZA: “virtù bambina”, fragile e quasi invisibile che però vede quello che le sorelle maggiori non vedono.
E per farlo mi avvalgo di un autore che ho incrociato nei miei anni giovanili, Charles Péguy e del suo bel saggio, Il portico del mistero della seconda virtù.
Dice Péguy:
“La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è.
E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è.
E lei, lei ama ciò che sarà.
Per così dire nel futuro dell'eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell'eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole.
Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
che la tengono per mano,
la piccola speranza.
Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle,
E a far camminare tutti quanti,
E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola”.
Nella Speranza vedere e amare ciò che sarà: Buona Pasqua.
Stefano Gentili
In questo momento mi viene spontaneo richiamare la SPERANZA: “virtù bambina”, fragile e quasi invisibile che però vede quello che le sorelle maggiori non vedono.
E per farlo mi avvalgo di un autore che ho incrociato nei miei anni giovanili, Charles Péguy e del suo bel saggio, Il portico del mistero della seconda virtù.
Dice Péguy:
“La fede che più amo, dice Dio, è la speranza.
È lei, questa piccola, che spinge avanti ogni cosa.
Perché la Fede non vede se non ciò che è.
E lei, lei vede ciò che sarà.
La Carità non ama se non ciò che è.
E lei, lei ama ciò che sarà.
Per così dire nel futuro dell'eternità.
La Speranza vede quel che non è ancora e che sarà.
Ama quel che non è ancora e che sarà.
Nel futuro del tempo e dell'eternità.
Sul sentiero in salita, sabbioso, disagevole.
Sulla strada in salita.
Trascinata, aggrappata alle braccia delle due sorelle maggiori,
che la tengono per mano,
la piccola speranza.
Avanza.
E in mezzo alle due sorelle maggiori sembra lasciarsi tirare.
Come una bambina che non abbia la forza di camminare.
E venga trascinata su questa strada contro la sua volontà.
Mentre è lei a far camminar le altre due.
E a trascinarle,
E a far camminare tutti quanti,
E a trascinarli.
Perché si lavora sempre solo per i bambini.
E le due grandi camminan solo per la piccola”.
Nella Speranza vedere e amare ciò che sarà: Buona Pasqua.
Stefano Gentili
martedì 7 aprile 2009
BRUNETTA E GLI “UNFIT TEACHERS”
Oggi 7 aprile la Chiesa cattolica fa memoria di San Giovanni Battista de La Salle, sacerdote, che a Rouen, Normandia in Francia si adoperò molto per la formazione umana e cristiana dei bambini, in particolare quelli poveri, e istituì la Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane, “per la quale sostenne molte tribolazioni, divenendo benemerito davanti al popolo di Dio”.
E’ patrono degli insegnanti.
La cosa mi offre l’opportunità di occuparmi brevemente di una “nicchia” di docenti che non avrebbero mai dovuto esserlo, perché inadatti.
Chiedo venia se non mi metto a ricordare il 99% degli insegnanti, quelli veri, bravi, seri, talvolta eroici.
No, voglio semplicemente chiedere al super-tosto Ministro Brunetta se può fare qualcosa per dare ai presidi la possibilità di mandare a casa questi “unfit teachers”, di licenziarli in tronco, di liberare la scuola, gli alunni e le famiglie da tante pochezze.
Fanno più danno costoro di tanti fannulloni veri o presunti.
E’ chiedere troppo?
Stefano Gentili
E’ patrono degli insegnanti.
La cosa mi offre l’opportunità di occuparmi brevemente di una “nicchia” di docenti che non avrebbero mai dovuto esserlo, perché inadatti.
Chiedo venia se non mi metto a ricordare il 99% degli insegnanti, quelli veri, bravi, seri, talvolta eroici.
No, voglio semplicemente chiedere al super-tosto Ministro Brunetta se può fare qualcosa per dare ai presidi la possibilità di mandare a casa questi “unfit teachers”, di licenziarli in tronco, di liberare la scuola, gli alunni e le famiglie da tante pochezze.
Fanno più danno costoro di tanti fannulloni veri o presunti.
E’ chiedere troppo?
Stefano Gentili
lunedì 6 aprile 2009
TOCQUEVILLE E NOI
"Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un'infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l'unico agente, l'unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?"
Parole scritte da Alexis Clérel de Tocqueville nel noto saggio “La Democrazia in America” (1840).
Forte il vecchio Ale, no?
Stefano Gentili
Parole scritte da Alexis Clérel de Tocqueville nel noto saggio “La Democrazia in America” (1840).
Forte il vecchio Ale, no?
Stefano Gentili
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