lunedì 31 dicembre 2012

7. ALCUNI PICCOLI-GRANDI CAMBIAMENTI DA PRIMA A DOPO IL CONCILIO VATICANO II


Nel 6° intervento introduttivo abbiamo ricordato che le massime autorità ecclesiastiche prediligono rappresentare il Concilio Vaticano II sulla linea della “riforma”, piuttosto che su quella della “rottura”.
Sia come sia… va però detto che quell’evento ha cambiato molte cose.
Il Concilio Vaticano II, infatti, ha rappresentato un vero e proprio spartiacque per tutta una serie di atteggiamenti della Chiesa, di prassi ecclesiastiche, di modi di vedere e di agire sedimentatesi nei secoli e non sempre riferibili a Gesù o ai primi apostoli.
Proviamo a fare alcuni esempi.

PRIMA: il celebrante durante la messa stava con le spalle rivolte al popolo.
DOPO: il celebrante si è posizionato con il volto rivolto al popolo.        

PRIMA: la messa era in latino. 
DOPO: la messa si è iniziata a celebrarla nelle lingue nazionali.

PRIMA: gli ebrei, nella preghiera del venerdì santo, erano definiti “perfidi giudei”. Giovanni XXIII volle eliminare quella sgradevole definizione.
DOPO: nel documento conciliare Nostra aetate (dichiarazione sulle religioni non cristiane) al n. 4 si dice, tra l’altro: “la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua razza: ‘ai quali appartiene l'adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne’ (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine”.
E con Giovanni Paolo II, alcuni anni dopo, si giungerà a definirli “nostri fratelli maggiori”.

PRIMA: gli altri cristiani nel catechismo erano definiti “scismatici, eretici, condannati all’eternità dell’inferno”.
DOPO: diventano i nostri fratelli con cui rendere testimonianza all’unico Cristo e progettare una Chiesa casa comune. Nel decreto Unitatis redintegratio sull’Ecumenismo la parola fratelli è citata 26 volte.

PRIMA: il movimento ecumenico era considerato come pericoloso e inaccettabile.
DOPO: viene dichiarato un evento di grazia, una vocazione, un’ispirazione dello Spirito Santo.

PRIMA: la libertà religiosa era negata (l’errore non ha diritti, si diceva).
DOPO: “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa” (Dignitatis umanae, dichiarazione sulla libertà religiosa, n. 2).

PRIMA : la libertà di coscienza era condannata.
DOPO: “Non si deve quindi costringerlo (l’uomo) ad agire contro la sua coscienza. E non si deve neppure impedirgli di agire in conformità ad essa” (Digitatis umanae, n. 3).

PRIMA: la lettura della Bibbia era vietata al semplice cristiano.
DOPO: la Parola viene accolta e si spinge affinché tutti abbiano largo accesso alla Scrittura e si dice, anzi, ripescando S. Girolamo, che “L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo” (Dei Verbum n. 25).

PRIMA: il mondo moderno era condannato come diabolico.
DOPO: diviene il luogo teologico dell’incontro con Dio, dove sono sparsi i semi del Verbo e pertanto: “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et spes, costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, n. 1).

PRIMA: la Chiesa era prevalentemente rappresentata come ‘società perfetta’.
DOPO: la Chiesa decide di definirsi come ‘popolo di Dio’.

Vi sembrerà poco, a me no.

Stefano Gentili

sabato 15 dicembre 2012

L’ OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (4)


PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 d)
Riprendiamo il ragionamento della volta scorsa con questa ultima lettera sul tema della guerra, dirigendoci sommariamente – sotto la guida di Giulio Cesareo – verso  questioni più specifiche di etica normativa, nei confronti di taluni spinosi problemi, che riguardano direttamente ciò che è negazione della pace.

Il dovere di limitare l’inumanità della guerra. Abbandonato, di fatto, il tono profetico della condanna assoluta della guerra, così come era stata espressa in Pacem in terris, si assume, invece, come realtà l’esistenza dei conflitti armati e, a causa della potenza distruttiva degli armamenti moderni, è più che mai necessario essere almeno in grado di gestire e governare la ferocia dei conflitti, potenziando gli strumenti giuridici internazionali di controllo già esistenti e istituendone di nuovi. È il caso delle convenzioni sul trattamento dei prigionieri, dei feriti, ecc.
“Esistono, in materia di guerra, varie convenzioni internazionali, che un gran numero di nazioni ha sottoscritto per rendere meno inumane le azioni militari e le loro conseguenze: tali sono le convenzioni relative alla sorte dei militari feriti o prigionieri e varie stipulazioni del genere” (GS 79).

Si parla poi dell’obiezione di coscienza, che viene accettata dai Padri Conciliari, anche se non con particolare entusiasmo. Il concilio Vaticano II si pronuncia in modo più cauto, non prende posizione sulla verità oggettiva della decisione dell’obiettore di coscienza e si limita a raccomandare un benevolo trattamento giuridico nei suoi confronti da parte delle entità statali.
L’obiezione di coscienza al servizio militare viene così per la prima volta citata in un documento magisteriale: essa risulta priva, tuttavia, di ogni connotato e caratterizzazione cristiana.
“Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l'uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio della comunità umana” (GS 79).
Nella Gaudium et spes l’obiezione è imposta per la guerra totale o altamente distruttiva, mentre l’obiezione di coscienza nella legittima difesa o al servizio militare in tempo di pace sono solo tollerate. Il documento invita i governanti ad avere comprensione verso gli obiettori, ma non c’è una fondazione etico-teologica, o biblica di questa esortazione.
Certo, sempre meglio, molto meglio, dell’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana che “…considerano un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà” (11.02.1965) ai quali rispose don Lorenzo Milani “…se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è ‘estraneo al comandamento cristiano dell'amore’ allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!” (Lettera di don Lorenzo Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell'11 Febbraio 1965).

A causa della presente situazione dell’umanità, segnata dal peccato e ancora priva di strumenti adeguati a evitare la guerra, bisogna continuare a poter esercitare il diritto alla legittima difesa, poiché uno dei compiti principali dell’organizzazione nazionale è quella di tutelare la difesa e l’incolumità dei propri cittadini.
La legittima difesa (sia personale, sia in guerra), insieme alla pena di morte, secondo la dottrina tradizionale, consiste in una sorta di deroga al comando “Non uccidere”. “Anzi, proprio se letto a partire da queste eccezioni, tale divieto acquisterebbe in precisione semantica, dovendo essere sostanzialmente inteso come divieto di uccidere l’innocente. […] 
Non è innocente, e cioè (oggettivamente) ‘colpevole’, l’ingiusto e violento aggressore, colui che senza alcun fondamento (almeno legale) pone in pericolo diritti essenziali della persona aggredita […] senza lasciarle possibilità alcuna di difenderli se non una reazione caratterizzata da una violenza analoga (cioè simmetrica) rispetto a quella causata dall’aggressore” (F. D’Agostino).
Difesa, tuttavia, non vuol dire attacco, non vuol dire rappresaglia o vendetta: il fine della difesa, in altre parole, non rende tutto lecito e, soprattutto, non autorizza all’uso di qualsiasi tipo di arma.
“E fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà una autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa” (GS 79).
Il Concilio Vaticano II riafferma, dunque, il diritto di ogni stato ad una legittima difesa, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, ma si nega che oggi tale principio possa trovare ragionevole applicazione, nel senso che la distruttività della guerra moderna, anche quella condotta con armi convenzionali, supera di gran lunga i limiti di una legittima difesa.

Anche l’esercito, nella misura in cui i componenti agiscono nella legalità e nell’adempimento dei loro compiti, è una realtà da apprezzare perché finalizzata all’edificazione della pace.
“Coloro poi che, dediti al servizio della patria, esercitano la loro professione nelle file dell'esercito, si considerino  anch'essi come ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli e, se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch'essi veramente alla stabilità della pace” (GS 79).

Il testo della Gaudium et spes poi prosegue ad una valutazione etica di ciò che i vari Stati propongono come mezzi dissuasivi nei confronti dei conflitti armati e della guerra in generale, vale a dire la corsa al riarmo e la deterrenza nucleare.
La corsa agli armamenti non è valutata dal Concilio con particolare gravità: si riconosce che ha un qualche valore effettivamente dissuasivo e deterrente ed è, pertanto, ritenuta accettabile, anche se a denti stretti, sulla scia delle affermazioni fatte in precedenza circa la legittimità della difesa armata e della guerra, che può essere considerata, a volte, un male minore.
“Poiché infatti si ritiene che la solidità della difesa di ciascuna parte dipenda dalla possibilità fulminea di rappresaglie, questo ammassamento di armi, che va aumentando di anno in anno, serve in maniera certo inconsueta, a dissuadere eventuali avversari dal compiere atti di guerra. E questo è ritenuto da molti il mezzo più efficace per assicurare oggi una certa pace tra le nazioni” (GS 81).

Si evidenziano, tuttavia, anche le contraddizioni di questo incessante incremento del potenziale bellico.
Con esso, infatti, non è ragionevole pensare al raggiungimento di una stabile pace, bensì, a lungo termine, non condurrà a nient’altro che ad una catastrofe di dimensioni mondiali.
“La corsa agli armamenti […] non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerra anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. […] C'è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi” (GS 81).

Si nota, inoltre, che la continua produzione, ricerca, investimento di capitale finanziario e umano in questa folle corsa alla costruzione di sempre più sofisticati strumenti di morte, si dimostra gravemente ingiusta e intollerabile nei confronti dei poveri del mondo, in modo speciale dei Paesi poveri del Terzo e Quarto Mondo.
“La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell'umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri” (GS 81).

La deterrenza nucleare è trattata nell’insieme del discorso sul riarmo. La prima affermazione del numero 81, tuttavia, si riferisce direttamente alle armi di distruzione di massa e, in primis, a quelle nucleari: “le armi scientifiche, è vero, non vengono accumulate con l'unica intenzione di poterle usare in tempo di guerra”.
Viene dunque proposta come discriminante, dal punto di vista etico, la distinzione morale tra il semplice possesso (a fini dissuasivi) di armi di tipo Atomico-Biologico-Chimico (che è dichiarato moralmente accettabile nella presente situazione storico-politica), e il loro effettivo utilizzo, chiaramente condannato al paragrafo precedente.
“Senza dubbio, ebbe a dire il card. B. J. Alfrink, è necessario stabilire una distinzione tra il possesso delle armi e il loro uso […] È necessario proclamare apertamente che l’unico rimedio contro l’equilibrio del terrore sta nella diminuzione, poi nell’abolizione delle armi moderne” (Fesquet).
Anche la deterrenza, comunque, viene compresa come una realtà che deve essere di passaggio: il fine da raggiungere è quello di una sicurezza fondata sulla fiducia e lealtà internazionali. Su queste basi, poi, sarà possibile organizzare un vero e proprio disarmo.
“È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l'accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra” (GS 82).

In conclusione, ritengo si possa dire che il passaggio dalla posizione profetica della Pacem in Terris a quella politica della Gaudium et spes fu in parte legato alle contingenze geopolitiche del periodo e certamente alle posizioni diversificate presenti all’interno dei Padri conciliari.
Ma una qualche influenza può averla avuta anche l’intervento di Paolo VI all’ONU - (Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 20° anniversario dell’organismo,  4.10.1965) - che in qualche modo deluse le attese di coloro che sostenevano una condanna completa della guerra atomica, anche per ragioni di legittima difesa e della deterrenza nucleare: “Tant que l'homme restera l'être faible, changeant, et même méchant qu'il se montre souvent, les armes défensives seront, hélas!, nécessaires”.
A partire da queste affermazioni, è come se il Pontefice avallasse di fatto “la guerra come frutto irrimediabile del peccato e perciò tipico della condizione attuale dell’uomo e della Chiesa” (Alberto Melloni).

Uno dei protagonisti di quell’assise, il card. Giacomo Lercaro, nel suo intervento al Concilio presentato scritto dopo il 14 ottobre 1965, si posizionò tra coloro che avrebbero desiderato un testo più audace perché più legato al Vangelo, nella promozione di una pace fondata sulla fiducia in Cristo e non nella presunta protezione offerta dalle armi: “Così la Chiesa non può neanche interinalmente ratificare i discorsi umani sull’equilibrio del terrore […]. Deve invece dire a tutti i possessori di quelle armi che non è lecito produrle e conservarle e che hanno l’obbligo categorico di giungere assolutamente e subito […] alla distruzione simultanea e totale di esse. Questo è il compito della Chiesa”.
Egli riteneva, infatti, che fossero assolutamente illeciti non solo l’uso, ma anche il possesso e la produzione di armi nucleari, perché esse, con la loro potenza, ponevano le nazioni nell’occasione prossima di compiere gravissimi delitti contro l’umanità; in secondo luogo sosteneva che, raggiunto quello stadio di sviluppo tecnologico, la guerra e la legittima difesa dovessero essere totalmente bandite.
Ciò non toglie che le affermazioni forti di Gaudium et spes restano e continuano ad avere il loro peso e hanno motivato e spingeranno la ricerca e l’approfondimento.
E provvidenzialmente il paragrafo 5 del discorso di Paolo VI all’ONU si era aperto con le parole, profetiche e realiste – “Jamais plus la guerre, jamais plus la guerre! C'est la paix, la paix, qui doit guider le destin des peuples et de toute l'humanité!”.

Stefano Gentili

martedì 11 dicembre 2012

L’OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (3)


PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 c)
Prima di parlare della guerra che ancora funesta la scena del mondo, la Gaudium et spes parla della pace e di quanto la definisce.
Ma al fine di completare il nostro ragionamento sulla guerra, continuiamo concludendo la nostra riflessione, suddivisa in questa lettera e nella prossima.

“OGNI ATTO DI GUERRA … È DELITTO CONTRO DIO E CONTRO LA STESSA UMANITÀ”
Nella precedente lettera avevamo esordito con i Padri conciliari che dicevano di essere obbligati “a considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova” (GS 80).
E questo accadde, ma probabilmente non traendone tutte le evangeliche conseguenze.
Vediamo il perché.

Chi conosce la storia della Gaudium et spes sa che essa è stata oggetto di molte letture e riletture perché –diciamo così – variopinte erano le opinioni dei padri conciliari.
Di fronte ad una lettura attenta dell’iter redazionale seguito dal testo per arrivare alla sua stesura finale, ci si rende conto della complessità della sua formulazione a causa delle numerose critiche che ad ogni lettura le venivano fatte dai Padri, che rimandavano indietro lo schema, per ulteriori correzioni.
La redazione finale è stata frutto, dunque, del complesso lavoro di mediazione della sottocommissione che ha portato alla stesura di un compromesso il quale, alla fine, come tutti i  compromessi, ha lasciato scontenti molti, anche se con ragioni diametralmente opposte (Giulio Cesareo).
Proprio sulla questione della condanna della guerra totale, il confronto tra le varie correnti e posizioni fu molto acceso: da una parte il card. Feltin e il card. Alfrink, presidente internazionale di Pax Christi, fautore di un testo che condannasse in modo chiaro e netto ogni guerra nucleare (ai quali si aggiunse lo stesso card. Ottaviani: famosa e impressa nel Concilio fu la sua frase “Bellum omnino interdicendum” – la guerra è sempre da condannare); dall’altra il card. Spellman, vescovo ausiliare di Washington, mons. Hannan, arcivescovo di New Orleans, e l’arcivescovo di Liverpool, mons. Beck, che “hanno soprattutto insistito sui servizi che la bomba atomica potrebbe rendere e sulla legittima difesa”.
“Mons. Roberts ci ha dichiarato in proposito: ‘Questi due interventi sembrano preparati dal Pentagono’. […] Per quei due vescovi anglosassoni non è, sembra, impensabile che si possa, nel caso, difendere la civiltà cristiana con le armi nucleari. Questa è almeno l’interpretazione che non si mancherà di dare ai loro interventi, quali che siano la purezza di intenzioni e le evidenti difficoltà del soggetto” (Henri Fesquet).

L’episcopato era diviso tra i fautori di una condanna radicale del possesso e dell’uso delle armi nucleari e coloro che, invece, accettavano l’uso di armi nucleari tattiche. I vari schemi del testo erano stati più volte rimandati indietro e il lavoro della commissione fu proprio quello di cercare una conciliazione almeno verbale delle due correnti.
Ciò che è emerso alla fine sembra un passo se non indietro, almeno laterale, rispetto alle affermazioni della Pacem in Terris.
Si può forse dire che quest’ultima era caratterizzata da un afflato profetico, la Gaudium et spes da un’attenzione politica. Con l’aggettivo “politica” o “realistica” si suggerisce la necessità di mediare fra la purezza dell’ideale e la dura realtà, fra le esigenze della morale o del diritto e le situazioni concrete che vanno governate.

Comunque sia, dirigiamoci verso le affermazioni conciliari, dicendo subito in premessa che per il Concilio il concetto di guerra giusta è ormai esaurito anche se azioni militari di difesa “e l’equilibrio del terrore trovano ancora una stentata e contorta ma reale giustificazione” (Giuseppe Alberigo); superato è anche il concetto di sovranità che deve cedere dinanzi al bene comune del genere umano.
La sovranità di uno stato è sempre limitata dal bene dell’umanità; e l’idea di guerra giusta era totalmente dipendente, a partire dal XVI secolo, dalla sovranità dello stato.
L’unico esercizio lecito di violenza di stato al suo esterno si configura nella legittima difesa, non nella guerra di legittima difesa: pertanto siffatte azioni belliche dovranno sottostare alle rigorose condizioni della legittima difesa.

Saranno l’introduzione del concetto di universa familia humana [“Il mondo che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive” (GS 2)] e di quello conseguente di bene comune dell'intera famiglia umana - [“Pertanto ogni gruppo deve tener conto dei bisogni e delle legittime aspirazioni degli altri gruppi, anzi del bene comune dell'intera famiglia umana” (GS 26)] - le novità che apriranno la strada a quanto detto in precedenza e potranno condurre alla condanna della guerra totale.

Una dura condanna quest’ultima, espressa con forza e radicalità – se non erro, l’unica vera condanna conciliare – che viene formulata in modo formale e solenne, seguendo lo schema classico di ogni sentenza ecclesiastica, come ricorda Enrico Chiavacci.
Leggiamo la parte centrale del paragrafo 80.

“His attentis, haec Sacrosancta Synodus, …declarat:”
“Avendo ben considerato tutte queste cose, questo Sacro Concilio, … dichiara:”
[“His attentis” è l’equivalente nello stile curiale della formula “per questi motivi” delle sentenze civili; “haec Sacrosancta Synodus” è  l’autorità emanante la sentenza: qui è il Concilio che si nomina nella forma più solenne con le tradizionali maiuscole.
Dopo i due punti il testo va a capo e riprende con una maiuscola. Cosa che mai si fa né in italiano, né in latino. Questo modo di procedere è invece consueto nello stile giudiziario ecclesiastico, in quanto la frase che segue in due punti è il dispositivo della sentenza, che ha una sua vigenza ormai autonoma e può essere citato anche staccato dal contesto].
Ecco la sentenza di irrevocabile condanna:
“Omnis actio bellica quae in urbium integrarum vel amplarum regionum cum earum incolis destructionem indiscriminatim tendit, est crimen contra Deum et ipsum hominem, quod firmiter et incunctanter damnandum est.”
Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione.”

Non è la condanna della guerra in sé in quanto contraria al vangelo, come volevano alcuni.
E’ la condanna di quella che veniva indicata con le prime lettere dell’alfabeto (ABC: atomica – biologica – chimica) come guerra totale, che coinvolgeva i civili oltre agli stessi combattenti.
La condanna è comunque chiara e decisa: pertanto esiste un vincolo morale assoluto.
È senza dubbio una delle affermazioni più importanti e impegnative in cui il Concilio si lancia.

Stefano Gentili

venerdì 30 novembre 2012

L’OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (2)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 b)

Quasi improvvisamente, ma alcune avvisaglie già c’erano state (PIO XII, Allocuzione alla VII Assemblea medica mondiale, 30.09.1954), l’inizio degli anni ’60 porta con sé una serie di prese di posizioni magisteriali (pontificie e conciliari) decisive per lo sviluppo di un’ etica teologia che guardasse in modo nuovo e più evangelico le questioni relative alla pace e alla guerra.
Sempre con riferimento esplicito al tema della guerra, i Padri conciliari, fedeli al motto vedere-giudicare-agire, vedranno… che erano accadute COSE (specie negli ultimi 15 anni) che li obbligavano “a considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova” (GS 80).

Quali erano state queste “cose”?
Io le descriverei con tre H:
Hitler  e tutta la sua vicenda che condurrà alla II Guerra mondiale (con i suoi milioni di morti e il devastante epilogo di Auschwitz),
Hiroshima (la bomba Atomica, sganciata anche su Nagasaki),
la Bomba H (ad idrogeno o termonucleare: 250-350 volte superiore alla bomba Atomica) prodotta nel 1952 dagli USA e nel 1953 dall’URSS, accompagnata nel 1957 dai missili balistici intercontinentali (ICBM). Fu anche differenziata la possibilità di attacco nucleare: si era, infatti, in grado di attaccare dal cielo grazie agli aerei da guerra (bombardieri), da terra grazie agli ICBM, dal mare grazie ai sottomarini (Giulio Cesareo).

La terza H e i suoi sviluppi aprì la strada alla teoria della deterrenza strategica nucleare, che condurrà ad una corsa agli armamenti sempre più sfrenata, al fine di superare in continuazione l’avversario quanto a potenza militare.
Infatti, “sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti sarebbero (stati) in grado di scagliare l’uno contro l’altro le rispettive armi nucleari, senza però alcuna speranza di impedire alla maggior parte della ogive nucleari avversarie di arrivare quasi tutte vicino ai bersagli, causando così disastri inimmaginabili. Ma anche dopo un siffatto attacco di sorpresa, il paese colpito avrebbe (avuto) ancora un numero di missili sufficienti per effettuare un’efficace rappresaglia, e distruggere così ampie aree del paese attaccante. Le perdite di entrambe le parti ascenderebbero a milioni di morti, e le rispettive risorse economiche sarebbero annientate” (Burrows – Goff).

GIOVANNI XXIII: L’USO DELLA FORZA MILITARE “ALIENUM EST A RATIONE”
Cose che aveva già visto bene Papa Giovanni XXIII quando irromperà con il suo pontificato, segnando una svolta radicale nella vita della Chiesa.
Anche se va pur detto che “Roncalli quando divenne papa non aveva precedenti significativi di militanza contro la guerra per la pace. […] Non si conoscono neppure notizie di una sua attenzione per gli uomini e i movimenti che nell’ambito cristiano e anche in quello specificamente cattolico avevano sviluppato posizioni pacifiste”.
Ma a partire dal 1961, con l’aggravarsi della crisi internazionale (la questione dei missili a Cuba), comincia la sua attività di instancabile promotore della pace e del dialogo, in modo particolare nei confronti del blocco comunista. “Si assiste perciò ad un crescendo di interventi pubblici su questa problematica, che non mancavano di sollevare riserve e resistenze sempre più marcate nella curia ma anche negli ambienti politici ad essa collegati” (Giuseppe Alberigo).

Al vertice di questo cammino si collocherà, l’11 aprile del 1963, la pubblicazione dell’enciclica Pacem in Terris che rappresenterà una vera e propria rivoluzione, rispetto all’insegnamento magisteriale precedente, nei confronti dei temi legati alla pace e alla guerra.

Tutta l’enciclica tende a mostrare come la pace, a cui tutti anelano, non può non stabilirsi che su delle relazioni fondate sulla giustizia e sulla carità.
La guerra, allora, nasce e si sviluppa in contesti di ingiustizia: anzi, essa può portare proprio alla distruzione dei rapporti sociali. Il discorso si fa palmare nella terza parte (ai numeri 39-41, in particolare) quando, riflettendo sulla maniera di stabilire un’equa e solidale collaborazione tra le varie Nazioni, si tocca il tema degli armamenti e del disarmo.

L’argomentazione si snoda in quattro tappe:
1. l’enorme quantità di armamenti prodotti e stoccati è anzitutto uno spreco gigantesco di risorse (finanziarie, scientifiche) che, al contrario, potrebbero essere utilizzate per lo sviluppo dei rispettivi popoli e delle popolazioni dei Paesi del Terzo Mondo;
2. si passa poi a smascherare l’assurdità della corsa agli armamenti, attraverso la quale si intende procurare la propria sicurezza, cercando continuamente di superare in potenza militare il proprio possibile avversario: e anche se le armi tacciono, certamente non è possibile per questo parlare di pace, né tanto meno di sicurezza;
3. per di più, l’uso delle armi nucleari in un eventuale conflitto potrebbe davvero condurre ad una catastrofe di dimensioni inimmaginabili: sia per il numero di vittime che sarebbe in grado di procurare, che per gli stravolgimenti (a causa soprattutto della quantità di radiazioni diffuse su scala planetaria) dell’intero ecosistema terrestre, mettendo a repentaglio, qualora la guerra fosse generalizzata, la stessa esistenza umana nel suo complesso; dunque “giustizia, saggezza e umanità” richiedono da un lato la fine della corsa agli armamenti per dare avvio, invece, “simultaneamente e reciprocamente” (PT 39) ad un progressivo ma effettivo disarmo e al bando delle armi nucleari;
4. viene, infine, rivolto l’invito alle autorità politiche, affinché si impegnino nel fare in modo che le tensioni e le dispute fra Stati siano affrontate e risolte essenzialmente per via diplomatica, attraverso la lealtà, il rispetto della giustizia e del diritto internazionale (Giulio Cesareo).

Quasi al termine e a sintesi del percorso fatto, al n. 67, troviamo una delle affermazioni centrali dell’enciclica, una vera e propria pietra miliare per la ricerca etico-teologica, una discriminante con cui tutta la riflessione successiva dovrà necessariamente fare i conti: l’uso della forza militare per risolvere le controversie internazionali “ALIENUM EST A RATIONE”.

Ecco il testo latino: “Quare aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda”.
Purtroppo la traduzione italiana – come talvolta accade – (“per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”) fa perdere la razionalità del testo latino.
Meglio la traduzione francese:  “Il devient humainement impossible de penser que la guerre soit, en notre ère atomique, le moyen adéquat pour obtenir justice d’une violation de droits” (Dragas).

Con un tratto di penna viene definitivamente abbandonata la teoria della guerra giusta e ogni pessimismo antropologico o teologico che possa giustificare moralmente i conflitti armati (la teologia del male minore).
Si afferma con chiarezza e lucidità che nel nostro tempo, in cui sono a disposizione le armi atomiche, è impensabile, irrazionale e illogico (“alienum est a ratione”) credere di ristabilire il diritto violato, con la guerra.

Tutto questo apre finalmente la strada alla ricerca di nuovi percorsi di riflessione e alla possibilità di individuare nuovi criteri e nuove strade per superare le contese internazionali in una maniera più umana e, soprattutto, più degna dell’uomo.
E proprio in questa direzione Giovanni XXIII insiste perché, al fine di risolvere le tensioni che possono insorgere tra stati sovrani, si provveda all’istituzione di un’Autorità internazionale imparziale (non asservita cioè agli interessi di una Potenza o di un gruppo di Nazioni) con competenza universale.
La categoria morale, che richiede ed orienta direttamente la promozione di una autorità mondiale, è l’introduzione de concetto di “bene comune universale”.

“Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici […] che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale. […] Devono essere in grado di operare efficacemente; però, nello stesso tempo, la loro azione deve essere informata a sincera ed effettiva imparzialità; deve cioè essere un'azione diretta a soddisfare alle esigenze obiettive del bene comune universale” (PT 45-46).

Assurdità della guerra e necessità di un’Autorità internazionale che metta gli uni insieme agli altri: lo ribadirà, qualche anno dopo (il 4 ottobre 1965), Papa Paolo VI nel solenne discorso alle Nazioni Unite:
“Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l'Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace ! Ascoltate le chiare parole d'un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: "L'umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all'umanità". Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell'intera umanità!”. 

Stefano Gentili

martedì 27 novembre 2012

L’OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (1)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 a)

Come nel precedente argomento, anche in questo caso l’intento è quello di scandagliare i testi conciliari sul gravoso tema della guerra.
Ed anche questa volta debbo intrattenermi in una rapida premessa storica.

LA GUERRA NELLA TRADIZIONE ECCLESIALE SINO ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
La pace e la guerra sono un tema antico quanto l’umanità: da sempre, in ogni società e civilizzazione, in ogni epoca della sua storia, l’uomo ha vissuto questa costante tensione tra l’anelito alla pace, alla concordia, alla collaborazione e il desiderio di possesso, di vendetta, la brama di conquista.
E la storia del pensiero umano si è sempre trovata di fronte a questa duplice realtà e ha fornito di essa varie interpretazioni: già per Eraclito, in effetti, la guerra era l’origine e la madre di ogni cosa (Giulio Cesareo).
Il tema se lo sono trovato dinanzi anche i Padri conciliari e hanno reagito…come vedremo.
Intanto, per motivi puramente espositivi, divido il tema in due: la guerra e la pace.
Facendoli entrambi precedere da una premessa sul passato (rispetto al Concilio) e sul magistero di Papa Giovanni, in entrambi i casi straordinariamente decisivo e sulla guerra certamente più ardito.
Partiamo, allora, dal primo tema: la guerra.

Per le prime comunità cristiane l’obbedienza al precetto evangelico dell’amore comportava un rifiuto netto della violenza e, a maggior ragione, della sua massima espressione, che è la guerra (Anna Morisi).
In breve tempo, però, le cose cambiarono radicalmente.
Assunto il potere Costantino, con l’editto di Milano del 313 dichiarò lecita la religione cristiana, mettendo fine alla condizione giuridica che per più di duecento anni aveva giustificato le persecuzioni, e concesse ai cristiani piena libertà religiosa. Questa novità in campo politico, segnata da un progressivo riavvicinamento tra il potere politico imperiale e le autorità ecclesiastiche, porterà con sé delle conseguenze molto importanti, per quanto riguarda il nostro tema.
“Già nell’estate del 314 il sinodo di Arles non solo permette il servizio militare dei cristiani, ma lo dichiara addirittura un dovere. Esso punisce la diserzione in tempo di pace con l’esclusione dai sacramenti. Sarebbe difficile immaginare una cesura più drammatica nell’etica politica. Quella che prima era considerata l’unica possibilità politica viene ora colpita con la scomunica” (Hans Campenhausen).
Le ragioni politiche di questa scelta, sono certamente comprensibili e probabilmente giustificabili.
La politica, tuttavia, non fa la teologia: sarà dunque la riflessione teologica successiva che, attingendo sia dalla tradizione biblico-patristica che da quella filosofico-politica (soprattutto Platone, Aristotele, Cicerone), offrirà gli elementi dottrinali che giustificheranno la nuova prassi e che daranno il via ad un insegnamento secolare, che tanta fortuna avrà nel corso dei secoli, che è quello della teoria della guerra giusta (Giulio Cesareo).

Appunto, la guerra giusta.
La prima grande personalità cristiana che elabora una riflessione sistematica sulla pace e sulla guerra come strumento di giustizia e di pace, è quella di S. Agostino.
La sua primaria intenzione non è quella di parlare della guerra e giustificarla, anzi, per converso cerca di mettere in luce il bene supremo della pace, dono dell’Altissimo rivolto all’umanità, che si compirà definitivamente nell’escatologia (la Civitas Dei).
La pace, frutto della grazia di Dio, però è sempre minacciata dal male e dal peccato insiti nel cuore dell’uomo e la violenza e la guerra ne sono i frutti più clamorosi.
Consapevole che la pace perfetta è quella che sarà, Agostino sa che è possibile e doveroso compiere tutti gli sforzi per costruire in terra la pace storicamente possibile. E questo è compito primario dell’autorità politica, che ha il compito di ristabilire le condizioni di giustizia e quindi di pace quando sono minacciate.
Praticamente Agostino, collocato in quel particolare momento storico, si trova “costretto, primo teologo cristiano, a dare forma sistematica al compromesso fra éthos politico della prima cristianità, orientato alla nonviolenza, e partecipazione dei cristiani all’esercizio del potere politico, ivi inclusi i mezzi militari violenti” (Huber – Reuter).
Spetterà a lui, quindi, individuare i criteri che possono rendere giusto un conflitto armato: si tratta dello ius ad bellum.
Ecco i criteri: 1)che sia motivato da giusta causa; 2)che sia per davvero l’extrema ratio; 3) che sia mosso da retta intenzione; 4) che sia promosso dalla legittima autorità.

“Lo schema della dottrina cattolica è stato così fissato per sempre dalla penna di s. Agostino. Su di esso lavoreranno i posteri, s. Tommaso, che lo espone in forma sistematica, e particolarmente i teologi e moralisti del sec. XVI, tra i quali si segnalano il Vitoria e il Suárez, che lo hanno svolto in un corpo organico di dottrina, rimasta quasi immutata fino ai nostri giorni” (Messineo).

Va precisato che S. Tommaso, riprendendo Agostino, inquadra la dottrina della guerra all’interno della virtù della carità e non in quello della giustizia.
Quindi tenterà di comprendere se il combattere in guerra sia sempre peccaminoso.
La guerra è certo un male, contrario al precetto della carità, che tuttavia per delle circostanze straordinarie (di qui appunto la riflessione sui principi del bellum iustum) può essere resa moralmente legittima, come mezzo di ristabilimento della giustizia violata. Tutto ciò, inoltre, permette di comprendere ancora più chiaramente perché Tommaso cominci a prendere in considerazione ed ad affrontare, la questione della valutazione etica del modo di fare la guerra e dei mezzi e delle tecniche usati in battaglia (Giulio Cesareo): siamo allo ius in bello.
I due criteri ulteriori dell’insegnamento sulla guerra giusta saranno quindi:
1. il criterio di proporzionalità, che prende in esame il rapporto tra i mali arrecati (anche dal punto di vista semplicemente materiale) e i beni promossi, prodotti o semplicemente difesi con il ricorso al conflitto;
2. la fondamentale discriminazione tra combattenti e non combattenti, tra militari e civili: questi ultimi, dunque, non possono essere coinvolti nelle ostilità e non devono inoltre fungere da bersaglio o essere vittime di incursioni o attacchi armati dell’una o dell’altra parte avversa.

Prima di fermarci un attimo, vorrei avvertire di non lasciarsi andare a sommari giudizi sulla dottrina della tradizione ecclesiale accennata.
Essa ha avuto lo scopo di limitare la violenza e la guerra, sottraendole al libero arbitrio del potente di turno, per ricondurle, viceversa, entro un alveo etico-giuridico a servizio del bene comune e della giustizia.
Peccato, però, che la dottrina della guerra giusta si sia progressivamente trasformata, in pratica, in uno strumento privilegiato di giustificazione e di legittimazione teologica ed etica proprio di ciò che intendeva limitare e regolare.
Per non andare troppo indietro, basti ricordare che “Pio XI condannò i nazionalismi, ma legittimò le guerre d’Etiopia e di Spagna. Nel 1939, contro la guerra parlò Pio XII e poche altre voci, ma non la voce corale dei cristiani. Le giustificazioni religiose della guerra, facilmente piegate alle pretese nazionalistiche, erano ancora attuali” (Sergio Luzzatto).

Stefano Gentili

martedì 20 novembre 2012

LA RIVOLUZIONE SESSUALE DELLA GAUDIUM ET SPES (terza parte)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (4 c) 

Ci siamo lasciati nell’ultima lettera affermando che la Provvidenza volle che proprio al centro del terremoto di cui abbiamo parlato si svolgesse il Concilio Vaticano II: la Chiesa ebbe così modo di prendere posizione, e una posizione piena di coraggio e di speranza.

Ma non fu così semplice e le resistenze non mancarono, tanto era radicato quello che la messicana Luz Maria Longoria, presente al Concilio con il marito Josè Alvarez Icaza (in veste di uditori), pose in discussione e che, come abbiamo compreso, era fissato nei manuali di teologia, in uso prima del Concilio: la questione dei fini “primari” e “fini secondari” del matrimonio, dove primaria era la procreazione dei figli e secondario il rimedio alla concupiscenza dell’atto sessuale.
La copresidente del Movimiento Familiar Cristiano (MFC), molto attiva all’interno del gruppo che doveva esaminare lo “schema XIII”, chiese di liberare l’atto sessuale dal senso di colpa e di restituire ad esso la sua insita motivazione d’amore. Ad un padre conciliare disse: “Disturba molto a noi madri di famiglia che i figli risultino frutto della concupiscenza. Io personalmente ho avuto molti figli senza alcuna concupiscenza: essi sono il frutto dell’amore” (tratto da http://www.c3dem.it/).
Amen!
L’atto sessuale nel matrimonio è vissuto come espressione gioiosa dell’amore dei coniugi e non come qualcosa di brutto, appena da tollerare!
E quanto ci voleva a dire una cosa del genere! E perché non era stato detto!
Se poi si vuol dire che il peccato può anche abbrutire la sfera sessuale, questo è vero come lo è per qualsiasi altra cosa sotto il cielo, foss’anche la più alta e nobile.

Ma andiamo a cogliere gli elementi di novità che la Gaudium et spes ai numeri 47-51 introduce.
Intanto va notato che risulta centrale la inseparabilità della sessualità dalla relazione tra persone vista nella sua globalità: il matrimonio è definito come “intima comunità di vita e d'amore coniugale”. Questa “intima unione” è vista come “mutua donazione di due persone”. Si tratta quindi di un amore “eminentemente umano”, diretto da persona a persona e che coinvolge le espressioni dell’anima e del corpo. E pertanto “questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall'esercizio degli atti che sono propri del matrimonio”: il rapporto sessuale è dunque visto come espressione e arricchimento del dono reciproco fra persone. Il sesso come comunicazione.
Ormai la moralità nella sfera sessuale non può più esser letta (almeno primariamente) nei singoli comportamenti sessuali, ma nell’animo – o meglio: nel quadro globale della relazione fra persone – da cui tali comportamenti scaturiscono.

Leggiamo parti del testo.
L'intima comunità di vita e d'amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall'alleanza dei coniugi, vale a dire dall'irrevocabile consenso personale. E così, è dall'atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l'istituzione del matrimonio, che ha stabilità per ordinamento divino. In vista del bene dei coniugi, della prole e anche della società, questo legame sacro non dipende dall'arbitrio dell'uomo. Perché è Dio stesso l'autore del matrimonio, dotato di molteplici valori e fini: tutto ciò è di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale e la sorte eterna di ciascuno dei membri della famiglia, per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa famiglia e di tutta la società umana.
Per la sua stessa natura l'istituto del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento. E così l'uomo e la donna, che per l'alleanza coniugale « non sono più due, ma una sola carne » (Mt 19,6), prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, esperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono.
Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità (GS 48).

Cristo Signore ha effuso l'abbondanza delle sue benedizioni su questo amore dai molteplici aspetti, sgorgato dalla fonte della divina carità e strutturato sul modello della sua unione con la Chiesa. Infatti, come un tempo Dio ha preso l'iniziativa di un'alleanza di amore e fedeltà con il suo popolo cosi ora il Salvatore degli uomini e sposo della Chiesa viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per essa così anche i coniugi possano amarsi l'un l'altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione. L'autentico amore coniugale è assunto nell'amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla forza redentiva del Cristo e dalla azione salvifica della Chiesa, perché i coniugi in maniera efficace siano condotti a Dio e siano aiutati e rafforzati nello svolgimento della sublime missione di padre e madre. Per questo motivo i coniugi cristiani sono fortificati e quasi consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato. Ed essi, compiendo con la forza di tale sacramento il loro dovere coniugale e familiare, penetrati dello spirito di Cristo, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione, ed assieme rendono gloria a Dio (GS 48).

I fidanzati sono ripetutamente invitati dalla parola di Dio a nutrire e potenziare il loro fidanzamento con un amore casto, e gli sposi la loro unione matrimoniale con un affetto senza incrinature. Anche molti nostri contemporanei annettono un grande valore al vero amore tra marito e moglie, che si manifesta in espressioni diverse a seconda dei sani costumi dei popoli e dei tempi. Proprio perché atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell'amore abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell'amicizia coniugale.
Il Signore si è degnato di sanare, perfezionare ed elevare questo amore con uno speciale dono di grazia e carità. Un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di se stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi anzi, diventa più perfetto e cresce proprio mediante il generoso suo esercizio. È ben superiore, perciò, alla pura attrattiva erotica che, egoisticamente coltivata, presto e miseramente svanisce.
Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall'esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi (GS 49).

In queste brevi frasi della GS si ha una svolta netta e coraggiosa nei confronti di tutta la tradizione in materia di morale sessuale in precedenza descritta.
Il tema morale della sessualità è ormai visto primariamente come parte dell’unico grande tema morale della carità, mentre il tema della natura passa decisamente in secondo piano.
Ed è rilevante il fatto che qui si torna alla radice biblica, laddove in forme ed espressioni diverse resta sempre ferma la lettura della sessualità come espressione di amore: non di una infatuazione passeggera ma di un amore "forte come la morte".
Il tema del procreazionismo come necessaria giustificazione dell’attività sessuale è certamente ancora sottolineato, ma non ha l’esclusiva.

Così quando gli sposi cristiani, fidando nella divina Provvidenza e coltivando lo spirito di sacrificio , svolgono il loro ruolo procreatore e si assumono generosamente le loro responsabilità umane e cristiane, glorificano il Creatore e tendono alla perfezione cristiana.
Tra i coniugi che in tal modo adempiono la missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un più grande numero di figli da educare convenientemente.
Il matrimonio tuttavia non è stato istituito soltanto per la procreazione; il carattere stesso di alleanza indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c'è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità (GS 50).

Nella Bibbia e nel Concilio i peccati in materia sessuale sono dunque peccati contro l’amore, ma nella tradizione cristiana sono peccati contro la legge naturale letta con gli occhi dei filosofi greco-romani precristiani.

E anche l’indissolubilità della “comunità di vita e di amore” non è più fondata – come invece in praticamente tutti i manuali di morale preconciliari – sulla necessità dell’educazione dei figli o della stabilità sociale, che restano peraltro elementi moralmente di grande significato – ma sulla totalità del dono reciproco.

Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità (GS 48).

Si noti che nell’applicazione particolare al rapporto sessualità-procreazione il Concilio afferma che “la sessualità propria dell'uomo e la facoltà umana di generare sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita”, mentre tutta la tradizione della legge naturale partiva proprio dall’osservazione della vita animale ("id quod natura omnia animalia docuit" - ciò che la natura insegnò a tutti gli animali).
La sessualità propria dell'uomo e la facoltà umana di generare sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita; perciò anche gli atti specifici della vita coniugale, ordinati secondo la vera dignità umana, devono essere rispettati con grande stima (GS 51).

A me pare che le acquisizioni della Gaudium et spes traccino la strada per disegnare un’etica della sessualità, che tragga ispirazione dal cristianesimo, umanizzante e positiva.
Quanto è accaduto nel post-Concilio non sempre è andato nella direzione auspicata.
“Dall’enciclica Humanae vitae (1968) di Paolo VI ai nostri giorni, la morale sessuale cattolica si trova, a livello mondiale, in una situazione difficile.
A partire al più tardi da quel documento, l’insegnamento morale del magistero e la pratica quotidiana, non solo dei cattolici che hanno preso le distanze dalla Chiesa, hanno imboccato strade diverse, come hanno molto chiaramente potuto osservare i pastori. Di conseguenza in molti casi nella predicazione, nella catechesi e nella pastorale non si affronta praticamente più il tema della sessualità” (Stefan Orth).

Per la verità ormai da tempo, in molte parti del mondo, in campo cattolico si discutono in materia di etica sessuale specialmente due affermazioni centrali del magistero, presenti anche nell’enciclica Humanae vitae:
il luogo della sessualità vissuta è unicamente quello del matrimonio fra un uomo e una donna, per cui la morale sessuale è sempre morale coniugale;
ogni atto sessuale deve essere aperto alla procreazione, per cui non è permessa la regolazione artificiale delle nascite.
Probabilmente le argomentazioni «taglia unica» non rendono giustizia alla varietà dell’esistenza umana. Indipendentemente dal fatto di essere sposati, di convivere, di essere celibi o single, tutti devono sforzarsi di integrare la sessualità nel proprio essere; al riguardo, ognuno deve essere giudicato alla luce delle sue concrete condizioni di vita.

Poi c’è la grande questione del piacere. Può essere conferito significato morale positivo alla ricerca del piacere?
La risposta a questa domanda richiede una profonda riflessione sul valore etico del piacere.
Ricorda il teologo Enrico Chiavacci, che nella dottrina recepita (ancora oggi) il piacere sessuale è legittimato moralmente come mezzo al fine. La ricerca del piacere in sé è immorale perché ignora il fine (la procreazione) da cui la ricerca del piacere è legittimata e a cui deve sempre coscientemente tendere.
Se invece il piacere sessuale è visto come un’area particolare in cui la doverosa ricerca dell’autotrascendersi si esprime e, parzialmente, si realizza e il circolo del piacere sessuale non si chiude in se stesso, ma tende a esprimere (o parzialmente realizzare) una gratificazione costituita dalla relazione con l’altro - e pertanto l’altro entra principalmente come termine di un atteggiamento relazionale/oblativo - il piacere può  ben’avere un profondo significato etico, sia nella ricerca sia nella soddisfazione, come espressione puntuale della tendenza alla realizzazione di sé: e tale tendenza è un dovere morale.
Esso non è strumento di altri fini, è piuttosto la concretizzazione in un preciso momento di un valore che domina tutta l’esistenza.

Benedetto XVI, volando su alti livelli, ci ha ricordato nella “Deus Caritas est” (specie al n. 10), che l’Amore non esclude l’eros ma lo comprende, lo purifica e lo innalza definitivamente sino a trasformarlo in agape.

Io penso che ci sia materia per meditare e per uscire dal silenzio, annunciando le potenzialità umanizzanti dell’etica sessuale cristiana.
Occorre avere il coraggio di rivedere criticamente i sistemi etico-normativi della morale cristiana riguardo al piacere, nati non dalla Parola ma da filoni culturali o filosofici tipici dell’Occidente.
Migliori e più approfondite letture del piacere in genere e in specie di quello sessuale sono richieste dalla ricerca filosofica e scientifica e dallo stesso supremo magistero del Concilio Vaticano II.
E anche dal vissuto positivo di molte persone cristiane (e non cristiane).

Stefano Gentili

sabato 17 novembre 2012

LA RIVOLUZIONE SESSUALE DELLA GAUDIUM ET SPES (seconda parte)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (4 b) 

LA SCOSSA DEL XX SECOLO
La lettura della sessualità profondamente diversa e assai più ricca offerta dalla Gaudium et spes non nasce, però, dal nulla.
Nasce invece da un arricchimento delle conoscenze scientifiche e della stessa esperienza spirituale cristiana, maturato dalla fine del sec. XIX e che esplode, come un terremoto, nella mentalità e nella cultura occidentale.

Di seguito si segnalano alcuni elementi che hanno portato alla svolta della metà del secolo appena trascorso.
→ Un elemento essenziale è stato certamente Freud. La sua lettura della sessualità come fatto umano globale, in cui l’elemento fisico è inscindibile da quello psichico così che non esiste comportamento sessuale (interno o esterno) in cui non sia coinvolta l’intera personalità del singolo, offre una prospettiva del tutto nuova nella valutazione dei comportamenti sessuali.

→ Un secondo elemento, meno noto e meno studiato, è di ordine filosofico e consiste in una sotterranea variazione del significato che l’altro ha nella mia esistenza. (Feuerbach: solo guardandoti negli occhi io scopro me stesso; Husserl e la intenzionalità della coscienza di sé di fronte all’altro; Sartre. Poi Ricoeur, ma anche Levinas che fa derivare la preminenza della sua etica dall'esperienza dell'incontro con l'altro. Emerge con forze il bisogno dell’altro per essere se stessi.

→ Un terzo elemento è di natura scientifico-medica: solo alla fine del sec. XIX si è scoperta nell’incontro fra gameti la pari importanza dell’elemento femminile e di quello maschile: la collocazione dell’uomo rispetto alla donna, come collocazione sociale e anche fisica (nel corso del coito), cambia radicalmente.

→ Un quarto, importantissimo, elemento è l’esperienza maturata nelle coppie cristiane. Fino agli inizi del XX sec., e anche in aree contadine fino almeno agli anni ’60, matrimonio e amore non erano affatto collegati: il matrimonio (e i conseguenti rapporti sessuali in esso consentiti) era un contratto fra famiglie.
Oggi il matrimonio cosiddetto di amore è la normalità, ma solo da meno di un secolo.
Ed ecco allora, nella prima metà del XX secolo, nascere tutto un movimento di spiritualità coniugale, in cui l’evento sessuale viene visto all’interno di un coinvolgimento globale della personalità dei coniugi.
Ma quando negli anni ’50 Carlo Carretto scrisse il libro Famiglia piccola chiesa destò scandalo e vituperio sia negli ecclesiastici che nei buoni laici: dopo il Concilio tale titolo è divenuto quasi uno slogan.

Per questi e per altri motivi – si pensi agli studi di M. Foucault – il ripensamento teorico della sessualità divenne terremoto sociale.
Due libri, fino agli anni ’60 noti solo agli studiosi, divennero bestseller: La rivoluzione sessuale di W. Reich (1946), Eros e civiltà di H. Marcuse (1954).
Grande eco ebbero anche I Rapporti Kinsey, Il comportamento sessuale dell’uomo (1948) e Il comportamento sessuale della donna (1953) che sfidavano le conoscenze convenzionali sulla sessualità e si occupavano di argomenti in precedenza considerati tabù. Intervistando negli Stati Uniti 5.300 maschi e 5.940 femmine Alfred Kinsey tracciò un quadro rivoluzionario per l’epoca.

La Provvidenza volle che proprio al centro di questo terremoto si svolgesse il Concilio Vaticano II: la Chiesa ebbe così modo di prendere posizione, e una posizione piena di coraggio e di speranza (anche se non tutti i nodi furono sciolti). Lo vedremo nella prossima lettera.

Stefano Gentili

mercoledì 14 novembre 2012

LA RIVOLUZIONE SESSUALE DELLA GAUDIUM ET SPES (prima parte)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (4 a) 

Le presente Lettera è un po’ diversa dalle precedenti, perché non cita mai il testo conciliare, base fondamentale del nostro percorso.
E’ però la necessaria premessa insieme alla lettera che seguirà a breve (per non essere proprio lunghissimi) alla terza Lettera nella quale andremo proprio a citare passi della Gaudium et spes relativi al tema in questione.

La parola rivoluzione riportata nel titolo può apparire esorbitante, ma non v’è dubbio che la dottrina conciliare sulla sessualità, contenuta in alcuni passaggi della Gaudium et spes (parte II, capitolo I: “dignità del matrimonio e della famiglia e sua valorizzazione”), rappresenta un’autentica svolta rispetto alla logica dominante fin dai primi secoli dell’annuncio cristiano.
Prima di entrare nel merito è opportuno raccontare brevemente il passato. Per questo mi avvalgo delle riflessioni del teologo Enrico Chiavacci.

Anzi, ancor prima, vado a ricordare, con Gianfranco Ravasi, che quando il cristianesimo fece la sua comparsa, sulla questione sessualità, mise sul tavolo una serie di carte vincenti:
• l'Incarnazione, prima fra tutte, che trascinava con sé l'esaltazione del corpo contro ogni riserva spiritualistica greca;
• il matrimonio che introduceva una prima parità (nel capitolo 7 della Prima Lettera ai Corinzi san Paolo propone una significativa trattazione duplice, sia per il marito sia per la moglie);
• la sorprendente innovazione del celibato/verginità non come statuto anagrafico, ma come ministero ecclesiale e sociale;
• ma soprattutto la nuova categoria agape, ben diversa dall'eros greco.
Nonostante tutte queste carte vincenti, lo sguardo sulla sessualità in campo cattolico è stato, per così dire, molto complesso, assai teorico, poco disponibile, sempre in teoria, a guardare la realtà nella sua dimensione positiva e realizzante.
Va anche considerato che l’annuncio cristiano è nato in un preciso contesto culturale e ad esso i primi trasmettitori del messaggio si sono riferiti per veicolare determinati contenuti, così come il cristianesimo ha nel corso della storia occidentale influenzato a sua volta i costumi del vivere civile.
Ma andiamo un po’ a ricordare alcune tappe della evoluzione della visione cristiana sulla sessualità.

DALL’APOSTOLO PAOLO A PRIMA DEL CONCILIO VATICANO II
Nella ricerca di un’etica sessuale da proporre alla Chiesa nel suo rapido diffondersi i primi grandi Padri e scrittori cristiani dovettero, come detto, appoggiarsi agli schemi filosofici loro disponibili.

Le stesse lettere di Paolo, e paoline in genere, presentano precetti e consigli legati a situazioni particolari, e soprattutto elenchi di vizi che sono quasi tutti ripresi dalla morale stoica o cinica o comunque di derivazione aristotelica, che Paolo conosceva bene.

La dottrina morale dei Padri, ripresa poi dai libretti di confessione e dalla spiritualità monastica, è legata sia alla derivazione platonica sia a quella aristotelica. Ma, almeno in materia di sessualità, l’idea di legge naturale sembra dominare fino ad Agostino.

Nella tradizione filosofica latina, che è in gran parte post-aristotelica, la legge che regola la natura è espressione della volontà del creatore o di una qualche divinità o interiore coscienza, comunque concepita, e come tale è doveroso moralmente comprenderla e seguirla.
Più spesso la legge naturale è vista come legge di un’etica eudemonistica (se vuoi star bene, segui la tua natura).
Il ragionamento di base è il seguente: se in tutti gli animali – e l’essere umano appartiene al genere animale – l’istinto sessuale è finalizzato alla procreazione, solo i comportamenti sessuali ordinati alla procreazione sono secondo natura. “Id quod natura omnia animalia docuit” (ciò che la natura a tutti gli animali insegnò) viene insegnato all’uomo per mezzo della ragione invece che dell’istinto.
Accanto a questo vero e proprio principio primo in materia di morale sessuale, ve ne è un altro (che in qualche modo rispecchia ancora l’importanza sociale del ruolo sessuale): la superiorità dell’uomo sulla donna, con una varietà di motivazioni che si avvicendano in pratica fino al nostro secolo, mescolando o intervallando ragionamenti biblici, filosofici, scientifici. Così l’attività sessuale riceve l’approvazione etica quando è mirata alla procreazione. Nella predicazione cristiana le leggi della natura sono espressione della volontà di Dio e, come tali, devono essere seguite (così ad esempio si presenta la morale sessuale di Ambrogio). Nella lettura della sessualità domina l’elemento procreazionista, e dominerà fino ad oggi.

Una svolta significativa, e più severa, si ha in Agostino: qui il modello filosofico platonico è dominante. La corporeità viene sempre considerata un elemento negativo rispetto alla vocazione tutta spirituale dell’uomo. Di conseguenza ogni comportamento di risposta allo stimolo carnale è per se stesso un allontanarsi dalla perfezione di Dio.
Ma Dio stesso ha voluto che la coppia uomo-donna procreasse: ciò, dopo il peccato originale, non può purtroppo avvenire che come risposta all’istinto carnale. E perciò esclusivamente come risposta alla vocazione a procreare l’attività sessuale trova la sua giustificazione morale. Il sesso è sempre un disordine morale, e solo con questa precisa intenzione è accettabile.

Alla lettura procreazionista si aggiunge una componente pessimistica. Tale impostazione di un’etica sessuale cristiana rimane praticamente stabile fino a Tommaso, pur con diverse accentuazioni nel diritto, nella predicazione, nella prassi confessionale, nella spiritualità.
Non è certo estranea ad essa (e in particolare alla spiritualità monastica) la graduale introduzione del celibato ecclesiastico.

Tommaso, strettamente legato ad Aristotele (da poco tradotto in latino), esce decisamente dall’eredità platonizzante: l’istinto è parte della natura ed è quindi in sé buono, a patto che non si vanifichi la sua naturale finalità, valida per tutto il mondo animale. Ed è questa la dottrina e la disciplina ufficiale ancora vigente nella chiesa, nonostante che il Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et spes presenti una lettura della sessualità profondamente diversa e assai più ricca.

Tornando ai due principi - procreazionista e di superiorità dell’uomo sulla donna – si deve dire che essi restano immutati nella teologia morale cattolica, nella filosofica morale occidentale, nell’organizzazione sociale e anche nel diritto penale praticamente fino agli anni ’60 del XX secolo.

E soffermandoci per un attimo sul secondo principio – la superiorità dell’uomo sulla donna – va ricordato  che nel quadro di quello schema tradizionale, la vita nuova era vista tutta nel seme maschile: la donna doveva limitarsi ad accogliere il seme per farlo sviluppare fino al parto. (La scoperta scientifica della funzione attiva dell’ovulo risale solo alla fine del XVIII secolo, ma compresa e sviluppata solo verso la fine del XIX con la combinazione dei cromosomi).
Nel rapporto sessuale la funzione della donna è sostanzialmente passiva: l’eccitazione è necessaria solo nell’uomo, e la donna ha il dovere di subire l’aggressione maritale.
L’eccitazione sessuale della moglie non era ben vista: era tollerata solo per facilitare l’ingresso del marito.
Ricorda esplicitamente Chiavacci, “Io ho memoria dei cauti accenni di mia nonna e anche di mia madre sulla loro condizione; e nel 1949 nei corsi di morale matrimoniale mi veniva insegnato che il marito può sempre chiedere il debito coniugale, ma non è conveniente che sia la moglie a chiederlo; mi si insegnava anche che la posizione naturale – e perciò non peccaminosa – era quella dell’uomo sopra la donna: altre posizioni non erano considerate lecite, salvo casi di necessità”.

Ma nei 700 anni trascorsi da Tommaso al Concilio molte cose sono successe nella morale cristiana in materia di sessualità.
È da notare che resta sempre più accentuata la centralità del comportamento fisico: quando, fra il ‘500-‘600, nasce la teologia morale come disciplina autonoma, essa diviene rapidamente una praxis confessariorum piuttosto che una vera teologia.
Il richiamo al testo biblico è solo occasionale, per versetti isolati, senza alcuna preoccupazione per una visione globale della sessualità umana: si ha invece una casistica sterminata sui singoli comportamenti sessuali dentro e fuori del matrimonio. In questo quadro si inserisce la rigidità morale del giansenismo, con inevitabili richiami ad Agostino.

S. Alfonso offre una teologia morale legata a questo quadro generale, ma con occhio pastorale e preoccupato di aiutare il penitente e con la preoccupazione di citare e discutere ampiamente le opinioni dei vari Autori.
Da S. Alfonso a oggi ben poco è cambiato fino al Concilio (ed oltre): la moralità è letta tutta all’interno dei singoli comportamenti mentre il tema dell’amore da un lato, e la fatica di un migliore approfondimento biblico dall’altro vengono completamente ignorati: la natura e il contronatura di singoli gesti costituiscono argomento dominante (e definitivo,valido in eterno) della valutazione morale.
Due esempi sono illuminanti. Nel Codice di Diritto Canonico in vigore fino al 1983, can. 1013, il fine primario del matrimonio è la procreazione; il coito coniugale fuori di questa precisa finalità è detto remedium concupiscentiae, cioè qualcosa di non bello ma comunque tollerabile sempre però che non si impedisca un’eventuale procreazione (il c.d. metodo di Ogino, sorto negli anni ’30, fu molto discusso fino al 1951, quando Pio XII – sia pure per casi seri – lo dichiarò ammissibile).
Sempre negli anni ’30 alcuni teologi tedeschi cercarono di introdurre l’idea che l’esser due in uno, idea perfettamente biblica, fosse un valore in sé e non solo strumentale alla procreazione, ma la tesi fu rifiutata e ancora nel 1959 la Civiltà Cattolica ribadiva energicamente il rifiuto.

Nel ringraziare Enrico Chiavacci, docente di teologia morale, per le riflessioni a cui ho potuto attingere, vi rimando alla seconda Lettera: “La scossa del XX secolo”.
Stefano Gentili