venerdì 30 novembre 2012

L’OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (2)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 b)

Quasi improvvisamente, ma alcune avvisaglie già c’erano state (PIO XII, Allocuzione alla VII Assemblea medica mondiale, 30.09.1954), l’inizio degli anni ’60 porta con sé una serie di prese di posizioni magisteriali (pontificie e conciliari) decisive per lo sviluppo di un’ etica teologia che guardasse in modo nuovo e più evangelico le questioni relative alla pace e alla guerra.
Sempre con riferimento esplicito al tema della guerra, i Padri conciliari, fedeli al motto vedere-giudicare-agire, vedranno… che erano accadute COSE (specie negli ultimi 15 anni) che li obbligavano “a considerare l'argomento della guerra con mentalità completamente nuova” (GS 80).

Quali erano state queste “cose”?
Io le descriverei con tre H:
Hitler  e tutta la sua vicenda che condurrà alla II Guerra mondiale (con i suoi milioni di morti e il devastante epilogo di Auschwitz),
Hiroshima (la bomba Atomica, sganciata anche su Nagasaki),
la Bomba H (ad idrogeno o termonucleare: 250-350 volte superiore alla bomba Atomica) prodotta nel 1952 dagli USA e nel 1953 dall’URSS, accompagnata nel 1957 dai missili balistici intercontinentali (ICBM). Fu anche differenziata la possibilità di attacco nucleare: si era, infatti, in grado di attaccare dal cielo grazie agli aerei da guerra (bombardieri), da terra grazie agli ICBM, dal mare grazie ai sottomarini (Giulio Cesareo).

La terza H e i suoi sviluppi aprì la strada alla teoria della deterrenza strategica nucleare, che condurrà ad una corsa agli armamenti sempre più sfrenata, al fine di superare in continuazione l’avversario quanto a potenza militare.
Infatti, “sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti sarebbero (stati) in grado di scagliare l’uno contro l’altro le rispettive armi nucleari, senza però alcuna speranza di impedire alla maggior parte della ogive nucleari avversarie di arrivare quasi tutte vicino ai bersagli, causando così disastri inimmaginabili. Ma anche dopo un siffatto attacco di sorpresa, il paese colpito avrebbe (avuto) ancora un numero di missili sufficienti per effettuare un’efficace rappresaglia, e distruggere così ampie aree del paese attaccante. Le perdite di entrambe le parti ascenderebbero a milioni di morti, e le rispettive risorse economiche sarebbero annientate” (Burrows – Goff).

GIOVANNI XXIII: L’USO DELLA FORZA MILITARE “ALIENUM EST A RATIONE”
Cose che aveva già visto bene Papa Giovanni XXIII quando irromperà con il suo pontificato, segnando una svolta radicale nella vita della Chiesa.
Anche se va pur detto che “Roncalli quando divenne papa non aveva precedenti significativi di militanza contro la guerra per la pace. […] Non si conoscono neppure notizie di una sua attenzione per gli uomini e i movimenti che nell’ambito cristiano e anche in quello specificamente cattolico avevano sviluppato posizioni pacifiste”.
Ma a partire dal 1961, con l’aggravarsi della crisi internazionale (la questione dei missili a Cuba), comincia la sua attività di instancabile promotore della pace e del dialogo, in modo particolare nei confronti del blocco comunista. “Si assiste perciò ad un crescendo di interventi pubblici su questa problematica, che non mancavano di sollevare riserve e resistenze sempre più marcate nella curia ma anche negli ambienti politici ad essa collegati” (Giuseppe Alberigo).

Al vertice di questo cammino si collocherà, l’11 aprile del 1963, la pubblicazione dell’enciclica Pacem in Terris che rappresenterà una vera e propria rivoluzione, rispetto all’insegnamento magisteriale precedente, nei confronti dei temi legati alla pace e alla guerra.

Tutta l’enciclica tende a mostrare come la pace, a cui tutti anelano, non può non stabilirsi che su delle relazioni fondate sulla giustizia e sulla carità.
La guerra, allora, nasce e si sviluppa in contesti di ingiustizia: anzi, essa può portare proprio alla distruzione dei rapporti sociali. Il discorso si fa palmare nella terza parte (ai numeri 39-41, in particolare) quando, riflettendo sulla maniera di stabilire un’equa e solidale collaborazione tra le varie Nazioni, si tocca il tema degli armamenti e del disarmo.

L’argomentazione si snoda in quattro tappe:
1. l’enorme quantità di armamenti prodotti e stoccati è anzitutto uno spreco gigantesco di risorse (finanziarie, scientifiche) che, al contrario, potrebbero essere utilizzate per lo sviluppo dei rispettivi popoli e delle popolazioni dei Paesi del Terzo Mondo;
2. si passa poi a smascherare l’assurdità della corsa agli armamenti, attraverso la quale si intende procurare la propria sicurezza, cercando continuamente di superare in potenza militare il proprio possibile avversario: e anche se le armi tacciono, certamente non è possibile per questo parlare di pace, né tanto meno di sicurezza;
3. per di più, l’uso delle armi nucleari in un eventuale conflitto potrebbe davvero condurre ad una catastrofe di dimensioni inimmaginabili: sia per il numero di vittime che sarebbe in grado di procurare, che per gli stravolgimenti (a causa soprattutto della quantità di radiazioni diffuse su scala planetaria) dell’intero ecosistema terrestre, mettendo a repentaglio, qualora la guerra fosse generalizzata, la stessa esistenza umana nel suo complesso; dunque “giustizia, saggezza e umanità” richiedono da un lato la fine della corsa agli armamenti per dare avvio, invece, “simultaneamente e reciprocamente” (PT 39) ad un progressivo ma effettivo disarmo e al bando delle armi nucleari;
4. viene, infine, rivolto l’invito alle autorità politiche, affinché si impegnino nel fare in modo che le tensioni e le dispute fra Stati siano affrontate e risolte essenzialmente per via diplomatica, attraverso la lealtà, il rispetto della giustizia e del diritto internazionale (Giulio Cesareo).

Quasi al termine e a sintesi del percorso fatto, al n. 67, troviamo una delle affermazioni centrali dell’enciclica, una vera e propria pietra miliare per la ricerca etico-teologica, una discriminante con cui tutta la riflessione successiva dovrà necessariamente fare i conti: l’uso della forza militare per risolvere le controversie internazionali “ALIENUM EST A RATIONE”.

Ecco il testo latino: “Quare aetate hac nostra, quae vi atomica gloriatur, alienum est a ratione, bellum iam aptum esse ad violata iura sarcienda”.
Purtroppo la traduzione italiana – come talvolta accade – (“per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia”) fa perdere la razionalità del testo latino.
Meglio la traduzione francese:  “Il devient humainement impossible de penser que la guerre soit, en notre ère atomique, le moyen adéquat pour obtenir justice d’une violation de droits” (Dragas).

Con un tratto di penna viene definitivamente abbandonata la teoria della guerra giusta e ogni pessimismo antropologico o teologico che possa giustificare moralmente i conflitti armati (la teologia del male minore).
Si afferma con chiarezza e lucidità che nel nostro tempo, in cui sono a disposizione le armi atomiche, è impensabile, irrazionale e illogico (“alienum est a ratione”) credere di ristabilire il diritto violato, con la guerra.

Tutto questo apre finalmente la strada alla ricerca di nuovi percorsi di riflessione e alla possibilità di individuare nuovi criteri e nuove strade per superare le contese internazionali in una maniera più umana e, soprattutto, più degna dell’uomo.
E proprio in questa direzione Giovanni XXIII insiste perché, al fine di risolvere le tensioni che possono insorgere tra stati sovrani, si provveda all’istituzione di un’Autorità internazionale imparziale (non asservita cioè agli interessi di una Potenza o di un gruppo di Nazioni) con competenza universale.
La categoria morale, che richiede ed orienta direttamente la promozione di una autorità mondiale, è l’introduzione de concetto di “bene comune universale”.

“Il bene comune universale pone ora problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici […] che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale. […] Devono essere in grado di operare efficacemente; però, nello stesso tempo, la loro azione deve essere informata a sincera ed effettiva imparzialità; deve cioè essere un'azione diretta a soddisfare alle esigenze obiettive del bene comune universale” (PT 45-46).

Assurdità della guerra e necessità di un’Autorità internazionale che metta gli uni insieme agli altri: lo ribadirà, qualche anno dopo (il 4 ottobre 1965), Papa Paolo VI nel solenne discorso alle Nazioni Unite:
“Voi attendete da Noi questa parola, che non può svestirsi di gravità e di solennità: non gli uni contro gli altri, non più, non mai! A questo scopo principalmente è sorta l'Organizzazione delle Nazioni Unite; contro la guerra e per la pace ! Ascoltate le chiare parole d'un grande scomparso, di John Kennedy, che quattro anni or sono proclamava: "L'umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all'umanità". Non occorrono molte parole per proclamare questo sommo fine di questa istituzione. Basta ricordare che il sangue di milioni di uomini e innumerevoli e inaudite sofferenze, inutili stragi e formidabili rovine sanciscono il patto che vi unisce, con un giuramento che deve cambiare la storia futura del mondo: non più la guerra, non più la guerra! La pace, la pace deve guidare le sorti dei Popoli e dell'intera umanità!”. 

Stefano Gentili

martedì 27 novembre 2012

L’OCCHIO DELLA GAUDIUM ET SPES SULLA PIAGA DELLA GUERRA (1)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (5 a)

Come nel precedente argomento, anche in questo caso l’intento è quello di scandagliare i testi conciliari sul gravoso tema della guerra.
Ed anche questa volta debbo intrattenermi in una rapida premessa storica.

LA GUERRA NELLA TRADIZIONE ECCLESIALE SINO ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE
La pace e la guerra sono un tema antico quanto l’umanità: da sempre, in ogni società e civilizzazione, in ogni epoca della sua storia, l’uomo ha vissuto questa costante tensione tra l’anelito alla pace, alla concordia, alla collaborazione e il desiderio di possesso, di vendetta, la brama di conquista.
E la storia del pensiero umano si è sempre trovata di fronte a questa duplice realtà e ha fornito di essa varie interpretazioni: già per Eraclito, in effetti, la guerra era l’origine e la madre di ogni cosa (Giulio Cesareo).
Il tema se lo sono trovato dinanzi anche i Padri conciliari e hanno reagito…come vedremo.
Intanto, per motivi puramente espositivi, divido il tema in due: la guerra e la pace.
Facendoli entrambi precedere da una premessa sul passato (rispetto al Concilio) e sul magistero di Papa Giovanni, in entrambi i casi straordinariamente decisivo e sulla guerra certamente più ardito.
Partiamo, allora, dal primo tema: la guerra.

Per le prime comunità cristiane l’obbedienza al precetto evangelico dell’amore comportava un rifiuto netto della violenza e, a maggior ragione, della sua massima espressione, che è la guerra (Anna Morisi).
In breve tempo, però, le cose cambiarono radicalmente.
Assunto il potere Costantino, con l’editto di Milano del 313 dichiarò lecita la religione cristiana, mettendo fine alla condizione giuridica che per più di duecento anni aveva giustificato le persecuzioni, e concesse ai cristiani piena libertà religiosa. Questa novità in campo politico, segnata da un progressivo riavvicinamento tra il potere politico imperiale e le autorità ecclesiastiche, porterà con sé delle conseguenze molto importanti, per quanto riguarda il nostro tema.
“Già nell’estate del 314 il sinodo di Arles non solo permette il servizio militare dei cristiani, ma lo dichiara addirittura un dovere. Esso punisce la diserzione in tempo di pace con l’esclusione dai sacramenti. Sarebbe difficile immaginare una cesura più drammatica nell’etica politica. Quella che prima era considerata l’unica possibilità politica viene ora colpita con la scomunica” (Hans Campenhausen).
Le ragioni politiche di questa scelta, sono certamente comprensibili e probabilmente giustificabili.
La politica, tuttavia, non fa la teologia: sarà dunque la riflessione teologica successiva che, attingendo sia dalla tradizione biblico-patristica che da quella filosofico-politica (soprattutto Platone, Aristotele, Cicerone), offrirà gli elementi dottrinali che giustificheranno la nuova prassi e che daranno il via ad un insegnamento secolare, che tanta fortuna avrà nel corso dei secoli, che è quello della teoria della guerra giusta (Giulio Cesareo).

Appunto, la guerra giusta.
La prima grande personalità cristiana che elabora una riflessione sistematica sulla pace e sulla guerra come strumento di giustizia e di pace, è quella di S. Agostino.
La sua primaria intenzione non è quella di parlare della guerra e giustificarla, anzi, per converso cerca di mettere in luce il bene supremo della pace, dono dell’Altissimo rivolto all’umanità, che si compirà definitivamente nell’escatologia (la Civitas Dei).
La pace, frutto della grazia di Dio, però è sempre minacciata dal male e dal peccato insiti nel cuore dell’uomo e la violenza e la guerra ne sono i frutti più clamorosi.
Consapevole che la pace perfetta è quella che sarà, Agostino sa che è possibile e doveroso compiere tutti gli sforzi per costruire in terra la pace storicamente possibile. E questo è compito primario dell’autorità politica, che ha il compito di ristabilire le condizioni di giustizia e quindi di pace quando sono minacciate.
Praticamente Agostino, collocato in quel particolare momento storico, si trova “costretto, primo teologo cristiano, a dare forma sistematica al compromesso fra éthos politico della prima cristianità, orientato alla nonviolenza, e partecipazione dei cristiani all’esercizio del potere politico, ivi inclusi i mezzi militari violenti” (Huber – Reuter).
Spetterà a lui, quindi, individuare i criteri che possono rendere giusto un conflitto armato: si tratta dello ius ad bellum.
Ecco i criteri: 1)che sia motivato da giusta causa; 2)che sia per davvero l’extrema ratio; 3) che sia mosso da retta intenzione; 4) che sia promosso dalla legittima autorità.

“Lo schema della dottrina cattolica è stato così fissato per sempre dalla penna di s. Agostino. Su di esso lavoreranno i posteri, s. Tommaso, che lo espone in forma sistematica, e particolarmente i teologi e moralisti del sec. XVI, tra i quali si segnalano il Vitoria e il Suárez, che lo hanno svolto in un corpo organico di dottrina, rimasta quasi immutata fino ai nostri giorni” (Messineo).

Va precisato che S. Tommaso, riprendendo Agostino, inquadra la dottrina della guerra all’interno della virtù della carità e non in quello della giustizia.
Quindi tenterà di comprendere se il combattere in guerra sia sempre peccaminoso.
La guerra è certo un male, contrario al precetto della carità, che tuttavia per delle circostanze straordinarie (di qui appunto la riflessione sui principi del bellum iustum) può essere resa moralmente legittima, come mezzo di ristabilimento della giustizia violata. Tutto ciò, inoltre, permette di comprendere ancora più chiaramente perché Tommaso cominci a prendere in considerazione ed ad affrontare, la questione della valutazione etica del modo di fare la guerra e dei mezzi e delle tecniche usati in battaglia (Giulio Cesareo): siamo allo ius in bello.
I due criteri ulteriori dell’insegnamento sulla guerra giusta saranno quindi:
1. il criterio di proporzionalità, che prende in esame il rapporto tra i mali arrecati (anche dal punto di vista semplicemente materiale) e i beni promossi, prodotti o semplicemente difesi con il ricorso al conflitto;
2. la fondamentale discriminazione tra combattenti e non combattenti, tra militari e civili: questi ultimi, dunque, non possono essere coinvolti nelle ostilità e non devono inoltre fungere da bersaglio o essere vittime di incursioni o attacchi armati dell’una o dell’altra parte avversa.

Prima di fermarci un attimo, vorrei avvertire di non lasciarsi andare a sommari giudizi sulla dottrina della tradizione ecclesiale accennata.
Essa ha avuto lo scopo di limitare la violenza e la guerra, sottraendole al libero arbitrio del potente di turno, per ricondurle, viceversa, entro un alveo etico-giuridico a servizio del bene comune e della giustizia.
Peccato, però, che la dottrina della guerra giusta si sia progressivamente trasformata, in pratica, in uno strumento privilegiato di giustificazione e di legittimazione teologica ed etica proprio di ciò che intendeva limitare e regolare.
Per non andare troppo indietro, basti ricordare che “Pio XI condannò i nazionalismi, ma legittimò le guerre d’Etiopia e di Spagna. Nel 1939, contro la guerra parlò Pio XII e poche altre voci, ma non la voce corale dei cristiani. Le giustificazioni religiose della guerra, facilmente piegate alle pretese nazionalistiche, erano ancora attuali” (Sergio Luzzatto).

Stefano Gentili

martedì 20 novembre 2012

LA RIVOLUZIONE SESSUALE DELLA GAUDIUM ET SPES (terza parte)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (4 c) 

Ci siamo lasciati nell’ultima lettera affermando che la Provvidenza volle che proprio al centro del terremoto di cui abbiamo parlato si svolgesse il Concilio Vaticano II: la Chiesa ebbe così modo di prendere posizione, e una posizione piena di coraggio e di speranza.

Ma non fu così semplice e le resistenze non mancarono, tanto era radicato quello che la messicana Luz Maria Longoria, presente al Concilio con il marito Josè Alvarez Icaza (in veste di uditori), pose in discussione e che, come abbiamo compreso, era fissato nei manuali di teologia, in uso prima del Concilio: la questione dei fini “primari” e “fini secondari” del matrimonio, dove primaria era la procreazione dei figli e secondario il rimedio alla concupiscenza dell’atto sessuale.
La copresidente del Movimiento Familiar Cristiano (MFC), molto attiva all’interno del gruppo che doveva esaminare lo “schema XIII”, chiese di liberare l’atto sessuale dal senso di colpa e di restituire ad esso la sua insita motivazione d’amore. Ad un padre conciliare disse: “Disturba molto a noi madri di famiglia che i figli risultino frutto della concupiscenza. Io personalmente ho avuto molti figli senza alcuna concupiscenza: essi sono il frutto dell’amore” (tratto da http://www.c3dem.it/).
Amen!
L’atto sessuale nel matrimonio è vissuto come espressione gioiosa dell’amore dei coniugi e non come qualcosa di brutto, appena da tollerare!
E quanto ci voleva a dire una cosa del genere! E perché non era stato detto!
Se poi si vuol dire che il peccato può anche abbrutire la sfera sessuale, questo è vero come lo è per qualsiasi altra cosa sotto il cielo, foss’anche la più alta e nobile.

Ma andiamo a cogliere gli elementi di novità che la Gaudium et spes ai numeri 47-51 introduce.
Intanto va notato che risulta centrale la inseparabilità della sessualità dalla relazione tra persone vista nella sua globalità: il matrimonio è definito come “intima comunità di vita e d'amore coniugale”. Questa “intima unione” è vista come “mutua donazione di due persone”. Si tratta quindi di un amore “eminentemente umano”, diretto da persona a persona e che coinvolge le espressioni dell’anima e del corpo. E pertanto “questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall'esercizio degli atti che sono propri del matrimonio”: il rapporto sessuale è dunque visto come espressione e arricchimento del dono reciproco fra persone. Il sesso come comunicazione.
Ormai la moralità nella sfera sessuale non può più esser letta (almeno primariamente) nei singoli comportamenti sessuali, ma nell’animo – o meglio: nel quadro globale della relazione fra persone – da cui tali comportamenti scaturiscono.

Leggiamo parti del testo.
L'intima comunità di vita e d'amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dall'alleanza dei coniugi, vale a dire dall'irrevocabile consenso personale. E così, è dall'atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono, che nasce, anche davanti alla società, l'istituzione del matrimonio, che ha stabilità per ordinamento divino. In vista del bene dei coniugi, della prole e anche della società, questo legame sacro non dipende dall'arbitrio dell'uomo. Perché è Dio stesso l'autore del matrimonio, dotato di molteplici valori e fini: tutto ciò è di somma importanza per la continuità del genere umano, il progresso personale e la sorte eterna di ciascuno dei membri della famiglia, per la dignità, la stabilità, la pace e la prosperità della stessa famiglia e di tutta la società umana.
Per la sua stessa natura l'istituto del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento. E così l'uomo e la donna, che per l'alleanza coniugale « non sono più due, ma una sola carne » (Mt 19,6), prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l'intima unione delle persone e delle attività, esperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono.
Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità (GS 48).

Cristo Signore ha effuso l'abbondanza delle sue benedizioni su questo amore dai molteplici aspetti, sgorgato dalla fonte della divina carità e strutturato sul modello della sua unione con la Chiesa. Infatti, come un tempo Dio ha preso l'iniziativa di un'alleanza di amore e fedeltà con il suo popolo cosi ora il Salvatore degli uomini e sposo della Chiesa viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per essa così anche i coniugi possano amarsi l'un l'altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione. L'autentico amore coniugale è assunto nell'amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla forza redentiva del Cristo e dalla azione salvifica della Chiesa, perché i coniugi in maniera efficace siano condotti a Dio e siano aiutati e rafforzati nello svolgimento della sublime missione di padre e madre. Per questo motivo i coniugi cristiani sono fortificati e quasi consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato. Ed essi, compiendo con la forza di tale sacramento il loro dovere coniugale e familiare, penetrati dello spirito di Cristo, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione, ed assieme rendono gloria a Dio (GS 48).

I fidanzati sono ripetutamente invitati dalla parola di Dio a nutrire e potenziare il loro fidanzamento con un amore casto, e gli sposi la loro unione matrimoniale con un affetto senza incrinature. Anche molti nostri contemporanei annettono un grande valore al vero amore tra marito e moglie, che si manifesta in espressioni diverse a seconda dei sani costumi dei popoli e dei tempi. Proprio perché atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell'amore abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell'amicizia coniugale.
Il Signore si è degnato di sanare, perfezionare ed elevare questo amore con uno speciale dono di grazia e carità. Un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di se stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi anzi, diventa più perfetto e cresce proprio mediante il generoso suo esercizio. È ben superiore, perciò, alla pura attrattiva erotica che, egoisticamente coltivata, presto e miseramente svanisce.
Questo amore è espresso e sviluppato in maniera tutta particolare dall'esercizio degli atti che sono propri del matrimonio. Ne consegue che gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi (GS 49).

In queste brevi frasi della GS si ha una svolta netta e coraggiosa nei confronti di tutta la tradizione in materia di morale sessuale in precedenza descritta.
Il tema morale della sessualità è ormai visto primariamente come parte dell’unico grande tema morale della carità, mentre il tema della natura passa decisamente in secondo piano.
Ed è rilevante il fatto che qui si torna alla radice biblica, laddove in forme ed espressioni diverse resta sempre ferma la lettura della sessualità come espressione di amore: non di una infatuazione passeggera ma di un amore "forte come la morte".
Il tema del procreazionismo come necessaria giustificazione dell’attività sessuale è certamente ancora sottolineato, ma non ha l’esclusiva.

Così quando gli sposi cristiani, fidando nella divina Provvidenza e coltivando lo spirito di sacrificio , svolgono il loro ruolo procreatore e si assumono generosamente le loro responsabilità umane e cristiane, glorificano il Creatore e tendono alla perfezione cristiana.
Tra i coniugi che in tal modo adempiono la missione loro affidata da Dio, sono da ricordare in modo particolare quelli che, con decisione prudente e di comune accordo, accettano con grande animo anche un più grande numero di figli da educare convenientemente.
Il matrimonio tuttavia non è stato istituito soltanto per la procreazione; il carattere stesso di alleanza indissolubile tra persone e il bene dei figli esigono che anche il mutuo amore dei coniugi abbia le sue giuste manifestazioni, si sviluppi e arrivi a maturità. E perciò anche se la prole, molto spesso tanto vivamente desiderata, non c'è, il matrimonio perdura come comunità e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore e la sua indissolubilità (GS 50).

Nella Bibbia e nel Concilio i peccati in materia sessuale sono dunque peccati contro l’amore, ma nella tradizione cristiana sono peccati contro la legge naturale letta con gli occhi dei filosofi greco-romani precristiani.

E anche l’indissolubilità della “comunità di vita e di amore” non è più fondata – come invece in praticamente tutti i manuali di morale preconciliari – sulla necessità dell’educazione dei figli o della stabilità sociale, che restano peraltro elementi moralmente di grande significato – ma sulla totalità del dono reciproco.

Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità (GS 48).

Si noti che nell’applicazione particolare al rapporto sessualità-procreazione il Concilio afferma che “la sessualità propria dell'uomo e la facoltà umana di generare sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita”, mentre tutta la tradizione della legge naturale partiva proprio dall’osservazione della vita animale ("id quod natura omnia animalia docuit" - ciò che la natura insegnò a tutti gli animali).
La sessualità propria dell'uomo e la facoltà umana di generare sono meravigliosamente superiori a quanto avviene negli stadi inferiori della vita; perciò anche gli atti specifici della vita coniugale, ordinati secondo la vera dignità umana, devono essere rispettati con grande stima (GS 51).

A me pare che le acquisizioni della Gaudium et spes traccino la strada per disegnare un’etica della sessualità, che tragga ispirazione dal cristianesimo, umanizzante e positiva.
Quanto è accaduto nel post-Concilio non sempre è andato nella direzione auspicata.
“Dall’enciclica Humanae vitae (1968) di Paolo VI ai nostri giorni, la morale sessuale cattolica si trova, a livello mondiale, in una situazione difficile.
A partire al più tardi da quel documento, l’insegnamento morale del magistero e la pratica quotidiana, non solo dei cattolici che hanno preso le distanze dalla Chiesa, hanno imboccato strade diverse, come hanno molto chiaramente potuto osservare i pastori. Di conseguenza in molti casi nella predicazione, nella catechesi e nella pastorale non si affronta praticamente più il tema della sessualità” (Stefan Orth).

Per la verità ormai da tempo, in molte parti del mondo, in campo cattolico si discutono in materia di etica sessuale specialmente due affermazioni centrali del magistero, presenti anche nell’enciclica Humanae vitae:
il luogo della sessualità vissuta è unicamente quello del matrimonio fra un uomo e una donna, per cui la morale sessuale è sempre morale coniugale;
ogni atto sessuale deve essere aperto alla procreazione, per cui non è permessa la regolazione artificiale delle nascite.
Probabilmente le argomentazioni «taglia unica» non rendono giustizia alla varietà dell’esistenza umana. Indipendentemente dal fatto di essere sposati, di convivere, di essere celibi o single, tutti devono sforzarsi di integrare la sessualità nel proprio essere; al riguardo, ognuno deve essere giudicato alla luce delle sue concrete condizioni di vita.

Poi c’è la grande questione del piacere. Può essere conferito significato morale positivo alla ricerca del piacere?
La risposta a questa domanda richiede una profonda riflessione sul valore etico del piacere.
Ricorda il teologo Enrico Chiavacci, che nella dottrina recepita (ancora oggi) il piacere sessuale è legittimato moralmente come mezzo al fine. La ricerca del piacere in sé è immorale perché ignora il fine (la procreazione) da cui la ricerca del piacere è legittimata e a cui deve sempre coscientemente tendere.
Se invece il piacere sessuale è visto come un’area particolare in cui la doverosa ricerca dell’autotrascendersi si esprime e, parzialmente, si realizza e il circolo del piacere sessuale non si chiude in se stesso, ma tende a esprimere (o parzialmente realizzare) una gratificazione costituita dalla relazione con l’altro - e pertanto l’altro entra principalmente come termine di un atteggiamento relazionale/oblativo - il piacere può  ben’avere un profondo significato etico, sia nella ricerca sia nella soddisfazione, come espressione puntuale della tendenza alla realizzazione di sé: e tale tendenza è un dovere morale.
Esso non è strumento di altri fini, è piuttosto la concretizzazione in un preciso momento di un valore che domina tutta l’esistenza.

Benedetto XVI, volando su alti livelli, ci ha ricordato nella “Deus Caritas est” (specie al n. 10), che l’Amore non esclude l’eros ma lo comprende, lo purifica e lo innalza definitivamente sino a trasformarlo in agape.

Io penso che ci sia materia per meditare e per uscire dal silenzio, annunciando le potenzialità umanizzanti dell’etica sessuale cristiana.
Occorre avere il coraggio di rivedere criticamente i sistemi etico-normativi della morale cristiana riguardo al piacere, nati non dalla Parola ma da filoni culturali o filosofici tipici dell’Occidente.
Migliori e più approfondite letture del piacere in genere e in specie di quello sessuale sono richieste dalla ricerca filosofica e scientifica e dallo stesso supremo magistero del Concilio Vaticano II.
E anche dal vissuto positivo di molte persone cristiane (e non cristiane).

Stefano Gentili

sabato 17 novembre 2012

LA RIVOLUZIONE SESSUALE DELLA GAUDIUM ET SPES (seconda parte)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (4 b) 

LA SCOSSA DEL XX SECOLO
La lettura della sessualità profondamente diversa e assai più ricca offerta dalla Gaudium et spes non nasce, però, dal nulla.
Nasce invece da un arricchimento delle conoscenze scientifiche e della stessa esperienza spirituale cristiana, maturato dalla fine del sec. XIX e che esplode, come un terremoto, nella mentalità e nella cultura occidentale.

Di seguito si segnalano alcuni elementi che hanno portato alla svolta della metà del secolo appena trascorso.
→ Un elemento essenziale è stato certamente Freud. La sua lettura della sessualità come fatto umano globale, in cui l’elemento fisico è inscindibile da quello psichico così che non esiste comportamento sessuale (interno o esterno) in cui non sia coinvolta l’intera personalità del singolo, offre una prospettiva del tutto nuova nella valutazione dei comportamenti sessuali.

→ Un secondo elemento, meno noto e meno studiato, è di ordine filosofico e consiste in una sotterranea variazione del significato che l’altro ha nella mia esistenza. (Feuerbach: solo guardandoti negli occhi io scopro me stesso; Husserl e la intenzionalità della coscienza di sé di fronte all’altro; Sartre. Poi Ricoeur, ma anche Levinas che fa derivare la preminenza della sua etica dall'esperienza dell'incontro con l'altro. Emerge con forze il bisogno dell’altro per essere se stessi.

→ Un terzo elemento è di natura scientifico-medica: solo alla fine del sec. XIX si è scoperta nell’incontro fra gameti la pari importanza dell’elemento femminile e di quello maschile: la collocazione dell’uomo rispetto alla donna, come collocazione sociale e anche fisica (nel corso del coito), cambia radicalmente.

→ Un quarto, importantissimo, elemento è l’esperienza maturata nelle coppie cristiane. Fino agli inizi del XX sec., e anche in aree contadine fino almeno agli anni ’60, matrimonio e amore non erano affatto collegati: il matrimonio (e i conseguenti rapporti sessuali in esso consentiti) era un contratto fra famiglie.
Oggi il matrimonio cosiddetto di amore è la normalità, ma solo da meno di un secolo.
Ed ecco allora, nella prima metà del XX secolo, nascere tutto un movimento di spiritualità coniugale, in cui l’evento sessuale viene visto all’interno di un coinvolgimento globale della personalità dei coniugi.
Ma quando negli anni ’50 Carlo Carretto scrisse il libro Famiglia piccola chiesa destò scandalo e vituperio sia negli ecclesiastici che nei buoni laici: dopo il Concilio tale titolo è divenuto quasi uno slogan.

Per questi e per altri motivi – si pensi agli studi di M. Foucault – il ripensamento teorico della sessualità divenne terremoto sociale.
Due libri, fino agli anni ’60 noti solo agli studiosi, divennero bestseller: La rivoluzione sessuale di W. Reich (1946), Eros e civiltà di H. Marcuse (1954).
Grande eco ebbero anche I Rapporti Kinsey, Il comportamento sessuale dell’uomo (1948) e Il comportamento sessuale della donna (1953) che sfidavano le conoscenze convenzionali sulla sessualità e si occupavano di argomenti in precedenza considerati tabù. Intervistando negli Stati Uniti 5.300 maschi e 5.940 femmine Alfred Kinsey tracciò un quadro rivoluzionario per l’epoca.

La Provvidenza volle che proprio al centro di questo terremoto si svolgesse il Concilio Vaticano II: la Chiesa ebbe così modo di prendere posizione, e una posizione piena di coraggio e di speranza (anche se non tutti i nodi furono sciolti). Lo vedremo nella prossima lettera.

Stefano Gentili

mercoledì 14 novembre 2012

LA RIVOLUZIONE SESSUALE DELLA GAUDIUM ET SPES (prima parte)

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (4 a) 

Le presente Lettera è un po’ diversa dalle precedenti, perché non cita mai il testo conciliare, base fondamentale del nostro percorso.
E’ però la necessaria premessa insieme alla lettera che seguirà a breve (per non essere proprio lunghissimi) alla terza Lettera nella quale andremo proprio a citare passi della Gaudium et spes relativi al tema in questione.

La parola rivoluzione riportata nel titolo può apparire esorbitante, ma non v’è dubbio che la dottrina conciliare sulla sessualità, contenuta in alcuni passaggi della Gaudium et spes (parte II, capitolo I: “dignità del matrimonio e della famiglia e sua valorizzazione”), rappresenta un’autentica svolta rispetto alla logica dominante fin dai primi secoli dell’annuncio cristiano.
Prima di entrare nel merito è opportuno raccontare brevemente il passato. Per questo mi avvalgo delle riflessioni del teologo Enrico Chiavacci.

Anzi, ancor prima, vado a ricordare, con Gianfranco Ravasi, che quando il cristianesimo fece la sua comparsa, sulla questione sessualità, mise sul tavolo una serie di carte vincenti:
• l'Incarnazione, prima fra tutte, che trascinava con sé l'esaltazione del corpo contro ogni riserva spiritualistica greca;
• il matrimonio che introduceva una prima parità (nel capitolo 7 della Prima Lettera ai Corinzi san Paolo propone una significativa trattazione duplice, sia per il marito sia per la moglie);
• la sorprendente innovazione del celibato/verginità non come statuto anagrafico, ma come ministero ecclesiale e sociale;
• ma soprattutto la nuova categoria agape, ben diversa dall'eros greco.
Nonostante tutte queste carte vincenti, lo sguardo sulla sessualità in campo cattolico è stato, per così dire, molto complesso, assai teorico, poco disponibile, sempre in teoria, a guardare la realtà nella sua dimensione positiva e realizzante.
Va anche considerato che l’annuncio cristiano è nato in un preciso contesto culturale e ad esso i primi trasmettitori del messaggio si sono riferiti per veicolare determinati contenuti, così come il cristianesimo ha nel corso della storia occidentale influenzato a sua volta i costumi del vivere civile.
Ma andiamo un po’ a ricordare alcune tappe della evoluzione della visione cristiana sulla sessualità.

DALL’APOSTOLO PAOLO A PRIMA DEL CONCILIO VATICANO II
Nella ricerca di un’etica sessuale da proporre alla Chiesa nel suo rapido diffondersi i primi grandi Padri e scrittori cristiani dovettero, come detto, appoggiarsi agli schemi filosofici loro disponibili.

Le stesse lettere di Paolo, e paoline in genere, presentano precetti e consigli legati a situazioni particolari, e soprattutto elenchi di vizi che sono quasi tutti ripresi dalla morale stoica o cinica o comunque di derivazione aristotelica, che Paolo conosceva bene.

La dottrina morale dei Padri, ripresa poi dai libretti di confessione e dalla spiritualità monastica, è legata sia alla derivazione platonica sia a quella aristotelica. Ma, almeno in materia di sessualità, l’idea di legge naturale sembra dominare fino ad Agostino.

Nella tradizione filosofica latina, che è in gran parte post-aristotelica, la legge che regola la natura è espressione della volontà del creatore o di una qualche divinità o interiore coscienza, comunque concepita, e come tale è doveroso moralmente comprenderla e seguirla.
Più spesso la legge naturale è vista come legge di un’etica eudemonistica (se vuoi star bene, segui la tua natura).
Il ragionamento di base è il seguente: se in tutti gli animali – e l’essere umano appartiene al genere animale – l’istinto sessuale è finalizzato alla procreazione, solo i comportamenti sessuali ordinati alla procreazione sono secondo natura. “Id quod natura omnia animalia docuit” (ciò che la natura a tutti gli animali insegnò) viene insegnato all’uomo per mezzo della ragione invece che dell’istinto.
Accanto a questo vero e proprio principio primo in materia di morale sessuale, ve ne è un altro (che in qualche modo rispecchia ancora l’importanza sociale del ruolo sessuale): la superiorità dell’uomo sulla donna, con una varietà di motivazioni che si avvicendano in pratica fino al nostro secolo, mescolando o intervallando ragionamenti biblici, filosofici, scientifici. Così l’attività sessuale riceve l’approvazione etica quando è mirata alla procreazione. Nella predicazione cristiana le leggi della natura sono espressione della volontà di Dio e, come tali, devono essere seguite (così ad esempio si presenta la morale sessuale di Ambrogio). Nella lettura della sessualità domina l’elemento procreazionista, e dominerà fino ad oggi.

Una svolta significativa, e più severa, si ha in Agostino: qui il modello filosofico platonico è dominante. La corporeità viene sempre considerata un elemento negativo rispetto alla vocazione tutta spirituale dell’uomo. Di conseguenza ogni comportamento di risposta allo stimolo carnale è per se stesso un allontanarsi dalla perfezione di Dio.
Ma Dio stesso ha voluto che la coppia uomo-donna procreasse: ciò, dopo il peccato originale, non può purtroppo avvenire che come risposta all’istinto carnale. E perciò esclusivamente come risposta alla vocazione a procreare l’attività sessuale trova la sua giustificazione morale. Il sesso è sempre un disordine morale, e solo con questa precisa intenzione è accettabile.

Alla lettura procreazionista si aggiunge una componente pessimistica. Tale impostazione di un’etica sessuale cristiana rimane praticamente stabile fino a Tommaso, pur con diverse accentuazioni nel diritto, nella predicazione, nella prassi confessionale, nella spiritualità.
Non è certo estranea ad essa (e in particolare alla spiritualità monastica) la graduale introduzione del celibato ecclesiastico.

Tommaso, strettamente legato ad Aristotele (da poco tradotto in latino), esce decisamente dall’eredità platonizzante: l’istinto è parte della natura ed è quindi in sé buono, a patto che non si vanifichi la sua naturale finalità, valida per tutto il mondo animale. Ed è questa la dottrina e la disciplina ufficiale ancora vigente nella chiesa, nonostante che il Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et spes presenti una lettura della sessualità profondamente diversa e assai più ricca.

Tornando ai due principi - procreazionista e di superiorità dell’uomo sulla donna – si deve dire che essi restano immutati nella teologia morale cattolica, nella filosofica morale occidentale, nell’organizzazione sociale e anche nel diritto penale praticamente fino agli anni ’60 del XX secolo.

E soffermandoci per un attimo sul secondo principio – la superiorità dell’uomo sulla donna – va ricordato  che nel quadro di quello schema tradizionale, la vita nuova era vista tutta nel seme maschile: la donna doveva limitarsi ad accogliere il seme per farlo sviluppare fino al parto. (La scoperta scientifica della funzione attiva dell’ovulo risale solo alla fine del XVIII secolo, ma compresa e sviluppata solo verso la fine del XIX con la combinazione dei cromosomi).
Nel rapporto sessuale la funzione della donna è sostanzialmente passiva: l’eccitazione è necessaria solo nell’uomo, e la donna ha il dovere di subire l’aggressione maritale.
L’eccitazione sessuale della moglie non era ben vista: era tollerata solo per facilitare l’ingresso del marito.
Ricorda esplicitamente Chiavacci, “Io ho memoria dei cauti accenni di mia nonna e anche di mia madre sulla loro condizione; e nel 1949 nei corsi di morale matrimoniale mi veniva insegnato che il marito può sempre chiedere il debito coniugale, ma non è conveniente che sia la moglie a chiederlo; mi si insegnava anche che la posizione naturale – e perciò non peccaminosa – era quella dell’uomo sopra la donna: altre posizioni non erano considerate lecite, salvo casi di necessità”.

Ma nei 700 anni trascorsi da Tommaso al Concilio molte cose sono successe nella morale cristiana in materia di sessualità.
È da notare che resta sempre più accentuata la centralità del comportamento fisico: quando, fra il ‘500-‘600, nasce la teologia morale come disciplina autonoma, essa diviene rapidamente una praxis confessariorum piuttosto che una vera teologia.
Il richiamo al testo biblico è solo occasionale, per versetti isolati, senza alcuna preoccupazione per una visione globale della sessualità umana: si ha invece una casistica sterminata sui singoli comportamenti sessuali dentro e fuori del matrimonio. In questo quadro si inserisce la rigidità morale del giansenismo, con inevitabili richiami ad Agostino.

S. Alfonso offre una teologia morale legata a questo quadro generale, ma con occhio pastorale e preoccupato di aiutare il penitente e con la preoccupazione di citare e discutere ampiamente le opinioni dei vari Autori.
Da S. Alfonso a oggi ben poco è cambiato fino al Concilio (ed oltre): la moralità è letta tutta all’interno dei singoli comportamenti mentre il tema dell’amore da un lato, e la fatica di un migliore approfondimento biblico dall’altro vengono completamente ignorati: la natura e il contronatura di singoli gesti costituiscono argomento dominante (e definitivo,valido in eterno) della valutazione morale.
Due esempi sono illuminanti. Nel Codice di Diritto Canonico in vigore fino al 1983, can. 1013, il fine primario del matrimonio è la procreazione; il coito coniugale fuori di questa precisa finalità è detto remedium concupiscentiae, cioè qualcosa di non bello ma comunque tollerabile sempre però che non si impedisca un’eventuale procreazione (il c.d. metodo di Ogino, sorto negli anni ’30, fu molto discusso fino al 1951, quando Pio XII – sia pure per casi seri – lo dichiarò ammissibile).
Sempre negli anni ’30 alcuni teologi tedeschi cercarono di introdurre l’idea che l’esser due in uno, idea perfettamente biblica, fosse un valore in sé e non solo strumentale alla procreazione, ma la tesi fu rifiutata e ancora nel 1959 la Civiltà Cattolica ribadiva energicamente il rifiuto.

Nel ringraziare Enrico Chiavacci, docente di teologia morale, per le riflessioni a cui ho potuto attingere, vi rimando alla seconda Lettera: “La scossa del XX secolo”.
Stefano Gentili

martedì 13 novembre 2012

ALL’AMICO MASSIMO ALLEGRINI

Caro Massimo, ora che riposi in pace nel fresco cimitero di Castell’Azzara, posa l’arco sulla nuda terra, riponi le frecce nella faretra e corri verso la Luce.

Stefano Gentili

martedì 6 novembre 2012

DIO SI COMUNICA NELLA STORIA

PITIGLIANO, 18 DEL POMERIGGIO. Lettere del Concilio (3)

Il Dio trinitario è un Dio che si comunica, ci ricorda la Dei Verbum.
Questa comunicazione non è dottrinale, ma vitale; avviene nella storia, ha come forma e centro il Cristo, come destinatario il mondo intero e come fine la salvezza dell’uomo (Enzo Bianchi, 2008).

La Dei Verbum muovendosi su questa linea porta anche il suo fondamentale contributo alla grande impresa del Concilio: riconciliarsi con la modernità. Benedetto XVI lo ha ricordato nel 2005: “Il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra chiesa ed età moderna”.
In effetti, a monte del Concilio stava una pesante eredità di conflitto tra Chiesa e mondo, di rottura tra modernità e cristianesimo risalente alla fine del medioevo.
La Dei Verbum offre il suo decisivo apporto a sanare l’antica questione proprio introducendo, nella sua teologia della rivelazione (DV, tutto il cap. 1), la categoria di storia, caratteristica fondamentale del pensiero moderno.

Si dice, infatti, che tutta la rivelazione è storica: “è il parlare di Dio come evento di comunicazione di sé, come la decisione e l’accadimento del parla­re, del parlare agli uomini come ad amici” (Agostino Gasperoni, 2008). E per questo abbiamo già letto DV 1, 2.

E’ storica nel suo inizio, che è la creazione.
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori. (DV 1, 3)

E’ storica nel suo svolgimento.
Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo (DV  1,3)

E’ storica nel suo compimento, che è l’evento storico Gesù di Nazareth.
Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio “ alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini ”, “parla le parole di Dio ” (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. (DV 1, 4 a).

Dinanzi a un Dio così fatto, l’atteggiamento più corretto è quello suggerito in una sua lettera pastorale, In principio la Parola, da Carlo Maria Martini: mettersi spiritualmente in ginocchio “per adorare con commozione e gioia il mistero di un Dio che si rivela e si comunica, che si fa ‘buona notizia’ per noi, Vangelo”.

Dio si comunica nella storia e per ciò stesso dà grande valore alla storia stessa, quindi al mondo e agli uomini che ci vivono.
Infatti, “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (… ) perché si salvi per mezzo di lui” (Giovanni, 3,16-17).
E la parola di Dio “ci dice come l'amore del Padre ha raggiunto in Cristo le varie situazioni umane, le ha rese vere, le ha illuminate e purificate dal di dentro, le ha aperte a nuove e insospettate possibilità. La vita, la morte, l'amicizia, il dolore, l'amore, la famiglia, il lavoro, le varie relazioni personali, la solitudine, i segreti movimenti del cuore, i grandi fenomeni sociali, tutta questa vita umana, insomma, ci viene consegnata dalla parola di Dio in una luce nuova e vera. E noi, mentre incontriamo questa Parola, incontriamo noi stessi, il nostro passato, il nostro futuro, i nostri fratelli.” (Carlo Maria Martini, 1981).

Stefano Gentili

lunedì 5 novembre 2012

6. IL VATICANO II: ROTTURA O RIFORMA?

C’è una domanda che ha sempre aleggiato nel dopo concilio e si manifesta ancora oggi: il Vaticano II, nel suo essere stato un evento epocale, ha rappresentato nella storia della Chiesa una ‘rottura’ o una ‘riforma’.

Tema delicato nel quale non mi addentro più di tanto, ma anche semplice se seguiamo quanto Benedetto XVI ha detto alla Curia romana nel discorso di auguri natalizi del 23 dicembre 2005 (quarantennale della chiusura del Vaticano II):
“Emerge la domanda: perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?
Tutto dipende dalla esatta interpretazione del Concilio o – come diremo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e applicazione.
I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.
Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’ (…).
Dall’altra parte c’è ‘l’ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino”.
Benedetto XVI si pone sul solco dell’ermeneutica della riforma, “come l’hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio dell’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965”.
E cita le parole del primo quando diceva che il Concilio “vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”. E continuava: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige…E’ necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo”.
 Ma attenzione: la parola riforma in bocca ad un papa tedesco ha certamente una valenza assai pregnante.

E poi, non si può non pensare al ‘carattere dirompente’ che molti passaggi dei documenti conciliari e le conseguenti decisioni assunsero all’interno di un cattolicesimo frequentemente attardato su posizioni conservatrici e attraversato dalla nostalgia di un improponibile ritorno al medio evo. I più avvertiti sentirono tremare la terra sotto i piedi, quasi come aveva provato, trent’anni prima, uno dei protagonisti del Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos: “Oggi si legge in tutta tranquillità la famosa enciclica di Leone XIII, come se fosse una qualsiasi notificazione per la Quaresima. Ma, a quell’epoca... abbiamo creduto di sentire la terra tremare sotto i piedi. Quale entusiasmo!”.

Anche oggi si leggono ‘in tutta tranquillità’ molti passi del Concilio. ‘Ma a quell’epoca…’.
Lo percepì bene un grande oppositore del Concilio, il cardinale Alfredo Ottaviani, “l’inflessibile custode della tradizione, fiero oppositore della riforma liturgica e del nuovo messale, l’uomo che nei confronti del Concilio formulò il giudizio più tranciante: ‘Spero di morire prima che finisca, così potrò morire cattolico’.” (Aldo Maria Valli, 2011).

Stefano Gentili

venerdì 2 novembre 2012

5. IL CONCILIO DELLA CHIESA, DI CRISTO, DELL’UOMO

Mi sembra particolarmente azzeccata la definizione del Vaticano II come il Concilio della Chiesa, di Cristo, dell’uomo.

Il Concilio Vaticano II è stato l’unico concilio, tra i 21 riconosciuti dalla Chiesa cattolica, che abbia incentrato la sua attenzione sulla Chiesa. L’obiettivo era quello di ritrovare la Chiesa alla piena luce della fede: cioè alla luce di Cristo.
‘Chiesa sii ciò che sei’ è quello che il Concilio le ha ricordato.
Proprio concentrandosi sulla Chiesa, l’insegnamento del Vaticano II verte – in ultima istanza – su Cristo, sul rapporto della Chiesa a Cristo e dell’uomo a Cristo.

Infatti, così facendo il concilio ha finito per operare una specie di ‘relativizzazione’ della Chiesa stessa.
Nei suoi documenti la Chiesa non è vista come grandezza a sé stante, ma è rimandata sia al Cristo, da cui riceve essere e struttura, sia al mondo, nel quale essa è inviata come segno e strumento di salvezza. Si tratta di una relativizzazione che ha posto più chiaramente la Chiesa in relazione sia con la sua origine, sia con la sua missione nel mondo (Rosino Gibellini, 2009).

Da questa de-centrazione operata dal Concilio deriveranno conseguenze di grande valore: la centralità della Parola di Dio, una mobilitazione di tutte le componenti della comunità ecclesiale sia a livello di direzione della Chiesa (con la collegialità episcopale) sia a livello di laici, che sono chiamati ad assumere le loro responsabilità; un senso più forte della missione in termini di servizio, un rapporto non più antagonistico ma di solidarietà con il mondo nel quale si trova ad operare, un rapporto di dialogo e di attiva ricerca dell’unità con le altre comunità cristiane, un rapporto di dialogo e di collaborazione con  le grandi tradizioni religiose dell’umanità.

Stefano Gentili