Tema
delicato nel quale non mi addentro più di tanto, ma anche semplice se seguiamo
quanto Benedetto XVI ha detto alla Curia romana nel discorso di auguri natalizi
del 23 dicembre 2005 (quarantennale della chiusura del Vaticano II):
“Emerge la domanda:
perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è
svolta in modo così difficile?
Tutto dipende dalla
esatta interpretazione del Concilio o – come diremo oggi – dalla sua giusta
ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e applicazione.
I problemi della
recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a
confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra
silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.
Da una parte esiste un’interpretazione
che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’ (…).
Dall’altra parte c’è
‘l’ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico
soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel
tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo
di Dio in cammino”.
Benedetto
XVI si pone sul solco dell’ermeneutica della riforma, “come l’hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso
di apertura del Concilio dell’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso
di conclusione del 7 dicembre 1965”.
E
cita le parole del primo quando diceva che il Concilio “vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o
travisamenti”. E continuava: “Il
nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci
preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e
senza timore a quell’opera che la nostra età esige…E’ necessario che questa
dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia
approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro
tempo”.
Ma attenzione: la parola
riforma
in bocca ad un papa tedesco ha certamente una valenza assai pregnante.
E poi, non si può non
pensare al ‘carattere dirompente’ che molti passaggi dei documenti conciliari e
le conseguenti decisioni assunsero all’interno di un cattolicesimo
frequentemente attardato su posizioni conservatrici e attraversato dalla
nostalgia di un improponibile ritorno al medio evo. I più avvertiti sentirono
tremare la terra sotto i piedi, quasi come aveva provato, trent’anni prima, uno
dei protagonisti del Diario di un parroco di campagna di Georges Bernanos:
“Oggi si legge in tutta tranquillità la famosa enciclica di Leone XIII, come se
fosse una qualsiasi notificazione per la Quaresima. Ma, a quell’epoca...
abbiamo creduto di sentire la terra tremare sotto i piedi. Quale entusiasmo!”.
Anche oggi si leggono ‘in
tutta tranquillità’ molti passi del Concilio. ‘Ma a quell’epoca…’.
Lo percepì bene un grande
oppositore del Concilio, il cardinale Alfredo Ottaviani, “l’inflessibile
custode della tradizione, fiero oppositore della riforma liturgica e del nuovo
messale, l’uomo che nei confronti del Concilio formulò il giudizio più
tranciante: ‘Spero di morire prima che finisca, così potrò morire cattolico’.”
(Aldo Maria Valli, 2011).
Stefano Gentili
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