sabato 2 febbraio 2013

Documenti conciliari: GAUDIUM ET SPES – I SEGNI DEI TEMPI


La profonda svolta teologica di cui abbiamo parlato deve essere completata da un secondo argomento. La GS, affrontando i più gravi problemi sociali del nostro tempo, dichiara di volerlo fare procedendo “alla luce del vangelo e dell’esperienza umana” (GS 46). Questo specifica il metodo che la costituzione intende assumere nella seconda parte. La chiesa per vivere in pienezza la propria missione ha bisogno dell’esperienza umana, ha bisogno del mondo. Ciò è un preciso riferimento alla DOTTRINA DEI SEGNI DEI TEMPI.

A. Nei documenti del Vaticano II si trova per tre volte l’uso esplicito della formula.
Gaudium et spes 4“Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”;
Unitatis redintegratio 4: “Siccome oggi, sotto il soffio della grazia dello Spirito Santo, in più parti del mondo con la preghiera, la parola e l'azione si fanno molti sforzi per avvicinarsi a quella pienezza di unità che Gesù Cristo vuole, questo santo Concilio esorta tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all'opera ecumenica”;
Presbyterorum ordinis 9: “Siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, tenendo conto con interesse fraterno delle loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell'attività umana, in modo da poter assieme riconoscere i segni dei tempi”.

Altre volte i testi richiamano lo stesso concetto, pur non usando esplicitamente la formula:
ad esempio, GS 11: “Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l'universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell'uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane”; 
ed ancora GS 44: “È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l'aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta”; 
il concetto lo si può infine rintracciare in Presbyterorum ordinis 6, Apostolicam Actuositatem 14, Dignitatis Humanae 15.

B. L’acquisizione della categoria dei segni dei tempi non era stata del tutto pacifica nella fase di preparazione del concilio.
Si può parlare di una preistoria della formula che muove il primo passo dalla Scrittura. In Mt 16,2-3 infatti si dice:“Ma egli rispose: "Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l'aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi?”
Nella tradizione teologica la troviamo nel teologo spagnolo del XVI sec. Melchior Cano (1509-1560), nella sua opera De Locis theologicis, dove per la prima volta tra i luoghi teologici che rivelano la presenza di Dio viene indicata anche la storia; un luogo laico accanto ai luoghi più sacrali (la chiesa, i sacramenti, la Bibbia). E nella storia, secondo Cano, luogo privilegiato di rivelazione di Dio sono i poveri.
In tempi più recenti era stato principalmente Giovanni XXIII ad usare la formula, nella Bolla di indizione del Vaticano II (1961), poi nell’enciclica Pacem in terris (1963). Quindi Paolo VI riprenderà la stessa formula nell’enciclica Ecclesiam suam (1964). Più tardi, in documenti come la Populorum progressio (1967) e la Octogesima adveniens (1971), Paolo VI assumerà la scansione metodologica proposta dalla JOC -vedere, giudicare, agire- facendo della lettura dei segni dei tempi addirittura il punto di partenza per le riflessioni teologiche e per le indicazioni pastorali.
I biblisti cercarono di opporsi al passaggio dal significato biblico - cristologico (il grande segno dei tempi che viene indicato è Gesù, compimento dell’era messianica e punto d’incontro di Dio con la storia dell’umanità) al significato sociologico - culturale; ma la formula passa e il teologo M.D. Chenu, definisce così i segni dei tempi: “I fenomeni che, per la loro generalizzazione e la loro frequenza, caratterizzano un’epoca e attraverso i quali si esprimono i bisogni e le aspirazioni dell’umanità presente”.

C. E’ il significato di storia e il riferimento ad essa la vera novità che entra nella teologia e nel magistero con la formula dei segni dei tempi. Il passaggio appare chiaro richiamando l’impostazione dei documenti della dottrina sociale della chiesa precedenti al vaticano II.
Nell’impianto metodologico, ad esempio, della Rerum novarum la storia era una realtà che stava deviando e che quindi occorreva riportare sulla strada giusta con la chiarezza e la forza dell’insegnamento, al quale doveva seguire la prassi, come esecuzione di un progetto ben strutturato. Il fondamento di tale insegnamento non era tanto la Scrittura, quanto il concetto di natura. La storia, insomma era vista come realtà passiva, amorfa che riceve dinamismo e forma da elementi ad essa estranei e provenienti dal mondo delle idee, dei princìpi. In una storia sentita e vissuta in questa maniera, il dovere dell’uomo è di tipo esecutivo e consiste nel portare la storia, cioè gli avvenimenti, in linea con le idee e i princìpi.

Ma l’attenzione per la persona, che aveva mosso la stessa Rerum novarum, favorisce il cambiamento metodologico, che sarà poi adottato dalla GS, attraverso l’assunzione della categoria della storicità, come categoria essenziale dell’essere umano e di tutte le realtà e le esperienze, compresa l’esperienza della fede cristiana. E due sono gli elementi portanti di una nuova visione che nasce dall’acquisizione della storicità.

Un elemento teologico  (il Dio della fede cristiana è il Dio della storia) maturato nella teologia attraverso l’accresciuta conoscenza e familiarità con la Bibbia: Dio, più che un “essere perfettissimo creatore e signore di tutte le cose”, appare come il “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, il Dio della creazione, dell’esodo, della sapienza; il Dio di Gesù Cristo. Un Dio che intreccia la sua storia con la storia di uomini, di un popolo e che diviene il protagonista di una storia di salvezza.

Un elemento antropologico, (l’uomo, con le sue scelte nella storia, gioca se stesso) maturato attraverso l’assunzione della riflessione personalistica (Newman, Teilhard de Chardin, Congar, Chenu, Daniélou, Rahner, De Lubac) e in un clima culturale attento ad evidenziare la libertà della persona e dei gruppi sociali, i diritti e i doveri, la partecipazione democratica (l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale appariva come la negazione sistematica e teorizzata della persona umana, considerata solo oggetto o numero o pedina).

D. Dopo la GS, la formula dei segni dei tempi viene esplicitamente o implicitamente usata di continuo nei documenti papali (Populorum progressio, Sollicitudo rei socialis) e in quelli episcopali.
E l’accoglienza della categoria della storicità determina l’acquisizione di una scansione metodologica nella riflessione teologico - pastorale (già in precedenza richiamata).
L’Esposizione introduttiva della GS (4-10), pur essendo la parte più datata del documento, è  importante da un punto di vista metodologico: partire dall’ascolto della storia contemporanea.
Dopo la lettura dei fatti o fenomeni (vedere) il metodo prevede l’approfondimento teologico, risalendo normalmente alle fonti del pensiero cristiano, Bibbia e Tradizione (giudicare); infine vengono elaborate alcune indicazioni operative (agire). Il metodo porta non solo a leggere i fatti, ma a mettersi, come atteggiamento interiore previo, in un ascolto empatico (profonda penetrazione) degli avvenimenti e degli uomini.

A livello di documenti, il segno di questa rinnovata attenzione all’uomo e alla storia appare evidente nella Centesimus annus di Giovanni Paolo II.
I primi tre capitoli sono una grande lettura sapienziale della storia dell’Occidente europeo dalla Rerum novarum al 1989, condotta alla luce di quello che viene definito “il principio etico fondamentale”: la dignità della persona umana accolta nella sua verità e nella sua libertà. Appare quasi una nuova stesura della GS.
Se una differenza può essere notata essa consiste nel fatto che nella CA, come in tutto il magistero dei Giovanni Paolo II, la “lettura” degli avvenimenti non è semplice constatazione o registrazione da accostare in un secondo momento alle fonti del pensiero cristiano, ma si tratta già di una lettura mirata e perciò valutativa. In tal senso emblematica è la lettura dell’anno 1989 al capitolo terzo: nel registrare i fatti se ne ricercano anche le cause, che appaiono di natura filosofica, etica e religiosa, e vengono segnalate le indicazioni operative.

E. La dottrina dei segni dei tempi è così precisabile: lo Spirito di Dio è sempre all’opera nella storia; e perciò negli eventi, nelle esigenze, nelle aspirazioni degli uomini del nostro tempo si deve cercare quali possano essere i segni della presenza di Dio e quindi del progetto di Dio per noi, che in questo tempo viviamo. Senza un’appassionata attenzione a tali segni rischiamo di non essere in grado di comprendere la chiamata di Dio per noi.
Si tratta di esperienze umane dirette di sofferenza e di aspirazioni (Giovanni XXIII nella PT, 1963, aveva indicato la reale liberazione dei paesi decolonizzati, la rivendicazione della dignità dei lavoratori, il riconoscimento della piena dignità della donna; ma anche la scelta per i poveri fatta dalla Chiesa a Medellin come risposta a un preciso segno di oppressione in America Latina).
E si tratta anche di un altro tipo di esperienza che si può chiamare riflessa: tutta la ricchezza di conoscenze umane formatisi in lunghi secoli e proveniente da ambiti scientifici, culturali: tutto ciò apre sempre nuove vie alla verità e alla stessa comprensione della natura dell’uomo. Ciò è di grande aiuto alla chiesa non solo per meglio proporre il vangelo, ma prima di tutto per capirlo più profondamente.

E’ chiaro che tutte queste voci richiedono un discernimento, ma è necessario prendere sul serio tutto quello che l’esperienza umana riflessa - religiosa o atea che sia - ci offre. Dovunque può esservi una traccia dello Spirito, che la chiesa deve essere in grado di cogliere: questo era l’atteggiamento dei Padri e dei grandi teologi.
Naturalmente non si dice che nella riflessione umana tutto è bello e buono o vero, ma si dice - ed è certezza di fede - che dovunque lo Spirito è all’opera in ogni coscienza umana, e che quest’opera dello Spirito va cercata amorevolmente. Da questo il tema, ricorrente in tutta la GS, della cooperazione con gli uomini di buona volontà  (92) anche se  non credenti o non cristiani.
Pertanto, anche l’accusa al concilio di eccessivo ottimismo è falsa e teologicamente ridicola.

Stefano Gentili

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