Periodo faticoso, intenso, emozionante. Le poche amicizie, i
grandi professori, la tesona.
Il periodo
della giovinezza si consolidò con l’esperienza presso la Facoltà Universitaria
di Scienze Politiche Cesare Alfieri di Firenze.
Fu un’esperienza in tutti i sensi. Anche di
vita.
Per la prima
volta mi trovai da solo in una città dove avevo alcune amicizie nate ai
campi-scuola, ma nella quale non fu semplice ambientarsi, specie a livello
universitario. Per i fuori-sede non era facile entrare nei meccanismi di
facoltà e, almeno per me, non lo fu. I contatti con i docenti erano piuttosto
rarefatti, tanto era l’alone sacrale che avvolgeva taluni di loro. Quei
pavimenti erano stati calpestati da Giovanni Spadolini, Giovanni Sartori,
Gaetano Arfé.
L’orientamento
era disorientato, cioè in realtà non esisteva.
E poi i
viaggi da Pitigliano con il pullman delle 5,45 che giungeva a Firenze alle
10.10, erano impegnativi. Dalla stazione di Santa Maria Novella subito di corsa
all’università, allora in via Laura; il pomeriggio a casa, o meglio in una
camera (divisa con l’amico Massimo Calò) all’interno di una casa dove abitavano
due signorine simpatiche e attempate. I pranzi e le cene le consumavo alla
mensa di via dei Servi, dopo aver fatto file di 30-45 minuti. E così via, dal
lunedì al giovedì, raramente il venerdì. Facevo la settimana corta perché gli
impegni in Azione Cattolica mi spingevano al ritorno settimanale.
Tutto questo
allungò oltre il previsto i tempi universitari (nel mezzo ci si mise anche il
militare) e la cosa mi dispiaceva assai, perché la mia permanenza a Firenze era
dovuta agli sforzi economici dei miei genitori, che in verità non mi hanno mai
fatto pesare nulla; anzi, erano proprio felici che il loro figlio potesse
diventare dottore.
Il periodo fiorentino fu intenso e mi segnò profondamente.
Intanto,
perché Firenze è una città con un patrimonio artistico diffuso di primissimo
livello il cui profumo si assorbe semplicemente camminando per le sue vie.
Poi, per il
ricordo di momenti emozionanti e tragici: rammento come se fosse ora la
quantità enorme di posti di blocco, con militari in assetto di guerra, che
incontrammo per il ritorno a Pitigliano il giorno successivo a quello del rapimento di Aldo Moro nel marzo del
1978; come pure la notizia dell’uccisione
ad opera delle BR di Vittorio Bachelet, nostro amato presidente di Azione
Cattolica, nel febbraio dell’80. Stavo uscendo, insieme a Rossella,
dall’ascensore del palazzo dove dimoravo quando seppi la notizia, il 13 maggio
1981, dell’attentato a Giovanni Paolo II
che, tra l’altro, costrinse a trasformare l’incontro
che la sera avemmo con Madre Teresa di Calcutta da una riflessione sulla
vita (quattro giorni dopo, il 17 maggio, ci sarebbero stati 2 referendum per la
soppressione della legge 194 sull’aborto) in un forte momento di preghiera per
la vita del Papa.
Ma
anche per altre cose che sono scolpite nel mio cuore: il fidanzamento con Rossella e le
deliziose serate che di tanto in tanto passavamo nella casa delle sorelle De
Caro.
Quanto
all’università, dopo aver sostenuto 23 esami, si concluse con l’agognata
laurea.
Vi giunsi
dopo aver lavorato a lungo alla elaborazione di una tesi su “La struttura organizzativa del P.S.I. dalla
ricostruzione ai giorni nostri: continuità e innovazione”, che infatti
prese una forma spropositata: 1.100 pagine. Il colpo finale lo detti recandomi
20 giorni a Sarnano, chiuso in casa con la mia zia Maria e con un orario di
lavoro che andava dalle 4,30 del mattino sino alle 19,30 di sera interrotto
solo dalla colazione verso le 8,00 e dal pranzo alle 12,00. Poi la cena e a
ninna entro le 21,00. A quei ritmi il lavoro rende.
Naturalmente ricordo come ora il giorno della discussione,
con Rossella e i miei genitori a farmi da corona. Vi giungevo con una media dei
voti intorno a 102 o 103 e quindi mi sarei accontentato di un 106 o 107. Debbo
dire che non avevo mai assistito alla discussione delle tesi e neppure gli
inattesi complimenti del preside Lotti per la parte storica del mio lavoro mi
misero in allerta. Ero un ragazzo rurale. Dopo la discussione uscii dall’aula
in attesa della chiamata per il voto finale. L’attesa fu breve e fu preceduta
dal suono di una campanella. “E che è”,
dissi. “La lode… la lode” aggiunse
con decisione la bidella. “La lode, e
come è possibile”. Rientrai tesissimo e in effetti mi assegnarono la
votazione di 110 e lode.
L’elaborato
che avevo presentato doveva essere piaciuto molto e la cosa fu confermata dalla
proposta di pubblicazione che mi fu
fatta dai professori Alberto Spreafico e Roberto D’Alimonte (splendido tandem
che si occupava di Sistema politico italiano). Ad una condizione: che le 1.100
pagine fossero ridotte a 250. Cosa che, con lo stress e la fatica accumulata,
non riuscii ad accettare e quindi a fare.
Dell’università
ricordo l’alto livello dei professori: oltre a Spreafico e D’Alimonte, il
preside e ordinario di Storia contemporanea Luigi Lotti, anche Antonio
Zanfarino (estroso ordinario di Filosofia politica), Fausto Vicarelli
(keynesiano ordinario di Economia politica), Luciano Cavalli (innovativo
ordinario di Sociologia), Domenico Fisichella (rigoroso ordinario di Dottrina
dello Stato), Stefano Passigli (brillante ordinario di Scienza della politica),
il poeta Mario Luzi con il quale rammento un seminario di pochi intimi, su
Marcel Proust e il suo monumentale ciclo narrativo Alla ricerca del tempo perduto, di una suggestione straordinaria.
Una piccola
chiosa vorrei farla sul professor Roberto
D’Alimonte, non per ricordarne il livello o la notorietà, tanto è
conosciuto e presente sui media e sulla stampa specie durante i periodi
elettorali, essendo uno dei massimi esperti italiani del settore. Ma per
ricordare una sua telefonata che mi giunse inaspettata 22 anni dopo, un giorno
della prima settimana di gennaio 2007. Io stavo molto male, mi muovevo a
malapena con l’ausilio dell’ossigeno, mi fu passato da Rossella il telefono: era il prof. D’Alimonte che chiedeva di me.
Gli ero tornato in mente, così mi disse, perché riordinando le tesi degli
studenti che lui aveva seguito nel corso degli anni, era riemersa nella sua
prorompente consistenza quella che discussi io nel lontano 1985 (e che ora è
collocata nello scaffale del suo studio presso la facoltà fiorentina).
Fu per me un’emozione unica, anche perché pensavo che fosse una delle ultime.
Pochi giorni
dopo, la notte tra il 6 e il 7 gennaio, fui chiamato a Siena per il trapianto.
Il prof. Luigi Lotti proclama il voto finale |
I professori Alberto Spreafico e Roberto D'Alimonte a colloquio con me |
La mamma Ele, la fidanzata Rossella e il babbo Ezio insieme a me dopo il 110 e lode |
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