Fu ideato e realizzato grazie all’assessore Alessandro Pacciani. Partendo dalla debolezza storica dell’area maremmana trovammo la forza propulsiva di un nuovo sviluppo. La regione Toscana riconobbe il distretto ma lo sterilizzò, peccato. Eppure sarebbe ancora di straordinaria attualità
Normalmente nei miei post
parto in medias res e non ab ovo.
In questo caso faccio un’eccezione e inizio con un preambolo. Il preambolo ha
un nome: Alessandro Pacciani, allora
professore ordinario di economia politica agraria alla Facoltà di Economia di
Firenze e direttore dell’osservatorio dell’economia agraria della Toscana. Come
detto nel post n. 46, lo tirai fuori dal cappello come un prestigiatore; la
sorpresa fu molta, alcuni manifestarono fastidio perché non consultai nessuno e
non era della provincia, ma il suo curriculum lo rendeva inattaccabile. Fu
un’illuminazione. Con lui fu possibile da subito far fronte ad alcune
situazioni di crisi piuttosto acute, penso al settore lattiero-caseario (ma non
solo) e soprattutto ci rendemmo conto che la provincia di Grosseto pur
presentandosi, nel panorama toscano, coma l’area agricola forte, doveva
iniziare a intraprendere strade innovative che le potessero consentire di avere
un ruolo di primo piano anche nell’immediato futuro.
① Avevamo bisogno di
QUALCOSA DI FORTE, perché, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni
Novanta, il territorio provinciale – come ho già segnalato del post n. 52 – era
caratterizzato da indicatori e situazioni negative: un tasso di disoccupazione
molto più alto della media regionale, un fortissimo impoverimento delle risorse
umane nelle aree interne e montane, un turismo monotematico e stagionale, la
irreversibile crisi delle attività minerarie e la difficoltà di riconversione
produttiva anche in ragione del deficit infrastrutturale e delle comunicazioni.
Inoltre un’agricoltura che incontrava difficoltà a diversificarsi, con un
tessuto della cooperazione di servizio che rischiava il collasso per effetto
anche di una politica agricola europea che frenava la crescita
dell’imprenditorialità. Sempre in quegli anni si stavano raccogliendo i cocci
del Progetto Amiata mai decollato e si registrava la mancata realizzazione
dell’invaso Farma-Merse. Tra l’altro, il territorio provinciale non aveva
saputo, per arretratezza culturale, o potuto, per emarginazione fisica,
cavalcare i precedenti anni dell’industrializzazione diffusa propria del
modello toscano, generando un’immagine negativa di se stesso (Alessandro
Pacciani e Daniela Toccaceli, 2010).
Cosa fare per non assistere
passivamente al declino?
Le due principali azioni che
intraprendemmo furono la realizzazione del Patto
Territoriale per lo Sviluppo della Maremma Grossetana e la progettazione
della MAREMMA DISTRETTO RURALE. Del primo parlerò più avanti, il secondo
scontava una difficoltà di partenza: quel termine rurale proprio non andava giù a molti. Lo spazio rurale era
divenuto una categoria residuale e lo stesso concetto rurale veniva spesso
definito in negativo, correlato a non urbano, quindi isolato, disperso,
arretrato, tradizionale, povero. Era molto peggio di un’obbligazione
subordinata di oggi. Ma grazie alla guida di Pacciani ci incamminammo in quel sentiero
e, tra l’altro, nella riorganizzazione dell’ente Provincia di quegli anni cambiai il nome del settore Agricoltura in
Sviluppo rurale. Piccolissima cosa, ma significativa della nostra volontà,
anche se i conservatori continuarono a chiamarlo ufficio e settore agricoltura.
Cambiare le strutture è più facile che
cambiare le teste.
Ad esser sinceri, le prime
intuizioni ci avevano preceduto e sono rintracciabili nel contributo della
Federazione Lavoratori Agro Industria della CGIL del 1993 e nel Progetto per il
Sistema di Qualità Maremma predisposto nell’ambito dell’Iniziativa Comunitaria
Leader II dal settore agricoltura della stessa Provincia.
② Fu però nella legislatura
1995-99 che prese forza l’idea della Maremma
Distretto Rurale d’Europa ed ebbe una prima importante condivisione nella I
Conferenza Provinciale del 1996, che, non a caso, ebbe come slogan La Terra Promessa. La definitiva
consacrazione ci fu con la II Conferenza Provinciale del 1998 dove furono
presentate e discusse le linee programmatiche ed operative del Distretto Rurale
e individuati gli assi di intervento su cui far confluire tutti gli strumenti
finanziari. E candidammo formalmente la Provincia di Grosseto a Distretto
Rurale. Dal 13 al 16 maggio 1999 a Grosseto, nella Conferenza europea
organizzata da ECOVAST (European Council for the Village and Small Town) dal
titolo Tendenze globali e risposte locali,
tenemmo a battesimo il Distretto della Maremma nel contesto europeo. Si registrò un generale riconoscimento
dell’originalità dell’impostazione progettuale, legata al tentativo di
disegnare una strategia unitaria intorno al mondo rurale. La candidatura
del Distretto rurale riuscì ad avere il riconoscimento della Giunta regionale
toscana, in via sperimentale, nel giugno 2002. La cosa fece scuola a tal punto
che altre zone toscane seguirono la nostra idea e condusse la stessa Regione
Toscana a disciplinare la costituzione dei distretti rurali con Legge 21/2004.
L’approvazione definitiva infine avvenne nell’ottobre 2006.
③ QUALE ERA L’INTUIZIONE
ALLA BASE DEL DISTRETTO RURALE?
Era
quella che non bastasse più parlare semplicemente di agricoltura, ma che fosse
necessario ragionare e programmare in termini di Sviluppo Rurale Integrato. L’obiettivo politico che avevamo in
mente, detto in soldoni, era quello di mantenere
i presìdi umani sul territorio e far tornare attraente vivere in un territorio
rurale. Obiettivo che non era più raggiungibile alla vecchia maniera, ma
richiedeva un approccio nuovo che individuammo, appunto, nello sviluppo rurale
integrato. Esso era, infatti, uno sviluppo
di tipo territoriale (piuttosto che settoriale) che si manifestava attraverso una pluralità di settori e ambiti
d’intervento: le infrastrutture, i servizi, l’ambiente, il turismo, il
patrimonio culturale, artistico e paesaggistico, la creazione di nuove
professionalità, l’artigianato, la trasformazione dei prodotti della natura,
gli aspetti sociali.
Pacciani
lo esplicitò con chiarezza nella I Conferenza Provinciale del 1996. Dichiarò
che quel disegno si poneva “l’obiettivo
di valorizzare le tipologie aziendali capaci di integrare le tradizionali
attività di produzione con altre collegate all’industria alimentare, ai servizi
e all’artigianato locale, attente agli aspetti ambientali e disponibili a far
proprie le tecniche agronomiche più rispettose dell’ambiente e del paesaggio,
in grado di raccordare il territorio con le attività turistiche, la caccia e la
pesca, le attività sportive e ricreative, orientate alla produzione di prodotti
e servizi di qualità tipici”.
Quindi, in realtà, gli
obiettivi erano molteplici.
• Dal punto di vista del
SETTORE AGRICOLO in senso stretto, l’obiettivo era quello di migliorare il
reddito e il tenore di vita delle imprese professionali, razionalizzando e
innovando l’organizzazione economica e integrando la produzione con le attività
a monte (fornitori di beni e servizi) e a valle (trasformazione e distribuzione
dei prodotti) in una logica di filiera produttiva. Come pure quello di favorire
l’innovazione di processo e di prodotto con particolare riguardo alle
tecnologie e alle produzioni eco-compatibili e di salvaguardare e qualificare
l’occupazione attraverso il ricambio generazionale e l’accentuazione
dell’imprenditorialità.
• Sul versante dello
SVILUPPO RURALE in generale, gli obiettivi erano vari. Dalla produzione di
qualità ambientale e territoriale quale nuova misura del livello di benessere
alla promozione di attività economiche distribuite sul territorio, quali i
turismi alternativi e integrativi a quello balneare: termale, culturale,
religioso e montano (strade del vino e della gastronomia, sentieristica
attrezzata per turismo equestre, trekking, cicloturismo, pesca sportiva,
caccia, ecc.). Ma anche la valorizzazione del territorio e dell’ambiente come
risorse economiche plurifunzionali strategiche e coerenti con un bisogno di
ricomposizione unitaria del paesaggio, delle sedimentazioni storiche (centri
storici e insediamenti agricoli), dei parchi, delle riserve naturali, delle
attività agricole, turistiche, artigianali, commerciali e anche industriali.
Infine, il riequilibrio territoriale attraverso il coordinamento delle
iniziative degli Enti Locali e la sollecitazione della solidarietà tra aree
deboli e aree forti della provincia.
• Insomma proponevamo uno
SVILUPPO DI TIPO ALTERNATIVO, “fondato
sul recupero e sul rafforzamento dei legami tra agricoltura, territorio e
ambiente, basato su produzioni e servizi di qualità, sul rispetto del paesaggio
e delle risorse produttive” e che faceva leva “sulla cultura e la tradizione locale” e, quindi, sull’immagine
complessiva del territorio. Alternativo a cosa? “Al modello tendenziale, imperniato sulla produzione e il consumo di
massa di prodotti standardizzati”, che comportava sul fronte industriale “l’affermazione delle imprese di grandi
dimensioni” che adottavano processi industriali ad elevata intensità di
capitale e sul fronte agricolo “l’estensione
dei metodi di produzione meccanizzati ad alto impiego di input” di energia
ausiliaria, fertilizzanti e pesticidi di sintesi, combustibili fossili, ecc.
(sempre Alessandro Pacciani, alla citata Conferenza provinciale). Gli effetti
negativi sull’agricoltura di elevati livelli di input erano palesi: una minore
diversificazione dei prodotti, le eccedenze produttive, minore salvaguardia
ambientale, minore fertilità del terreno, minore salubrità dei prodotti. Quindi
svantaggi per l’uomo, per la società, per il bilancio aziendale, per
l’agroindustria. La nostra proposta voleva anche contrastare quegli effetti
nefasti.
In questo rinnovato contesto
il TERRITORIO assumeva un ruolo sempre più strategico come àmbito della
pianificazione dello spazio rurale nel quale attuare lo sviluppo rurale
integrato. Ciò mediante il cambiamento del suo ruolo – in sintonia con
l’impostazione europea di allora (dalla Carta Rurale Europea alla Conferenza di
Cork sullo sviluppo rurale del 1996) – da sede fisica (contenitore di
interventi edilizi, infrastrutturali, dello sviluppo) a fattore che consentisse
la verifica della qualità dello sviluppo e del suo impatto sulla vita della
gente.
④ UNA SCELTA DI
POLITICA ECONOMICA PER IL CAMBIAMENTO. La nostra, insomma, non fu solo
un’azione di pura economia agraria, ma di vera e propria politica economica.
Dalla debolezza storica di origine dell’area maremmana volevamo trarre la forza
propulsiva di un nuovo sviluppo, agganciato anche alle mutate esigenze di tipo
consumistico. Trovare la forza nella
debolezza. Sembrava quasi un paradosso evangelico, ma noi ci puntammo le
nostre fiches. In questi termini non furono molti quelli che la compresero.
C’era molta ignoranza e approssimazione e difficilmente si era disponibili a
muoversi dall’acquisito: un bel pezzo di mondo agricolo, pure in crisi, ad
iniziare dai vertici, non voleva cambiare. Figurarsi, ad esempio chi conosceva
il decalogo di Cork e i tre appellativi che definivano concettualmente e
tracciavano la metodologia operativa dello sviluppo rurale: endogeno, integrato, sostenibile. Noi,
invece, li avevamo conosciuti, grazie a Pacciani, e facendovi leva volevamo
cambiare quasi tutto, senza disperdere, anzi, valorizzando il patrimonio di
conoscenze umane presente nei sistemi produttivi agricoli o agro-industriali
del passato.
Nell’introduzione
alla I Conferenza Provinciale del 1996,
dovendo semplicemente portare i saluti dell’amministrazione provinciale (la
relazione strategica competeva all’assessore Pacciani) parlai proprio della
battaglia per il cambiamento, ampliando lo sguardo all’Italia. “Al di là delle apparenze, è in atto una
formidabile lotta tra l’Italia che non vuol cambiare e l’Italia del
cambiamento. La prima, un po’ come gli antichi greci, è tutta protesa al
passato, alla ricerca di una perduta età dell’oro; il suo simbolo è Ulisse che
anela a ritornare nella sua terra: la sua patria è un prima, la sua vita un
ritorno. La seconda, fedele all’ideale della terra promessa, è invece spinta ad
assumere la prospettiva dell’esodo, dell’uscita; il suo simbolo è Mosè proteso
verso una patria che è un poi, è un avanti. Anche noi oggi dobbiamo scegliere
tra un prima e un poi, tra i nostalgici del ritorno e i fautori del balzo in
avanti, tra i restauratori e i riformisti presenti in tutti gli schieramenti,
nelle organizzazioni, nelle associazioni, nelle istituzioni. Il titolo che abbiamo
scelto per questa importante Conferenza Provinciale dice chiaramente noi da che
parte stiamo: nel nostro futuro non c’è un’Itaca da recuperare, c’è una
Gerusalemme da conquistare”.
Mi rifeci a due tradizioni
del passato, la greca e l’ebraica, per dire che bisognava organizzare il futuro. Con chi ci stava e trascinando,
con forza e delicatezza, i conservatori. Pian piano la maggioranza degli
operatori, delle associazioni, dei responsabili politici e amministrativi ne
intuirono lo straordinario valore strategico e parteciparono all’ardua impresa.
L’istituzione del tavolo verde, che proposi in conclusione della II Conferenza
Provinciale dell’Agricoltura, favorì questo percorso condiviso.
Insomma, in quel
progetto vi era rappresentata la svolta avvenuta in Maremma nella COSTRUZIONE
DI UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, a partire dalla consapevolezza della propria
identità e attivando atti di programmazione e di governo in grado di dare
concretezza a concetti di per sé astratti, quali sviluppo integrato, sviluppo
sostenibile e compatibile, riequilibrio territoriale, sussidiarietà,
concertazione, multifunzionalità dell’agricoltura, qualità dei prodotti, delle
risorse e del territorio.
⑤ Il tutto realizzato con il
METODO DI GOVERNO DELLA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA (già sperimentato con il Patto
Territoriale) attivando la concertazione con le categorie economiche, sociali e
gli enti locali. Cioè, per dirla da scienziato della politica, favorimmo il passaggio dal governo alla governance, individuando meccanismi
organizzativo-istituzionali nuovi, che poggiassero sul maggior coinvolgimento e
la partecipazione di tutti gli attori socio-economici e istituzionali del
territorio.
• Metodo che lasciava ampi
spazi di autonomia decisionale agli attori pubblici e privati del territorio,
creando le condizioni di una reale PROGRAMMAZIONE DAL BASSO, tanto più invocata
dall’Unione Europea, quanto più difficile da praticare a livello locale. E in
questo caso mutammo il modello top-down
(la vecchia programmazione dall’alto verso il basso) nel modello bottom-up (dal basso verso l’alto).
• Con chiari riflessi sul
piano della CONCRETEZZA, mettendo in moto un meccanismo che poteva alimentare
un flusso eccezionale di investimenti pubblici e privati e quindi nuove
opportunità occupazionali (cosa avvenuta sempre con il Patto Territoriale per
lo sviluppo della Maremma). L’individuazione condivisa dei 3 Assi strategici d’intervento (consolidamento delle filiere e
delle infrastrutture pubbliche, rafforzamento della qualità, fare della Maremma
un sistema), l’orientamento su di essi anche di tutti gli strumenti di
programmazione e di spesa locale (Provincia e Comunità montane dell’Amiata
Grossetana, delle Colline Metallifere, delle Colline del Fiora), la
concentrazione e la convergenza su di essi di tutte le risorse provenienti da
fonti diverse (europee, nazionali, regionali), l’attivazione di ulteriori
risorse anche private, permise il raggiungimento di risultati straordinari.
Utilizzando i vari programmi
comunitari (2078/92, 2080/92, 2079/92, 2081/93, 2052/88, 2328/91, 822/87,
866/90, 867/90, 1442/88, 1599/91, 2505 e 2684, 2261/84), le leggi regionali
(63/81, 64/95, 23/98) e il premio di primo insediamento giovani, nei quattro anni della nostra legislatura
erogammo contributi per 158 miliardi di lire, che misero in moto investimenti
per 238 miliardi di lire. All’inizio venivano erogati in base alle
richieste più disparate dei singoli imprenditori o delle associazioni, poi con
la crescita del progetto del Distretto furono tutte orientate alle richieste
conformi con gli assi strategici d’intervento. Nel contesto di questo sistema
sarà possibile pochi anni dopo, sempre sotto la sapiente regia di Pacciani,
costruire il Patto specialistico per l’Agricoltura, sul modello del Patto
Territoriale già sperimentato e il Contratto di Programma per
l’Agro-Alimentare.
⑥ LA
TERZA RIVOLUZIONE DELLA MAREMMA. Il progetto, nonostante qualche limite,
rappresentò – come osserverà Pacciani nel 2003 – “l’avvio di un processo che ha caratterizzato la società e l’economia
grossetana negli ultimi sette/otto anni, ponendosi alla base di quella che può
essere considerata oggi la terza rivoluzione della Maremma dopo la Bonifica e
la Riforma agraria.
Con la Bonifica, nelle sue varie interpretazioni temporali
– idraulica, sanitaria, integrale – il territorio è recuperato alla produzione
e agli insediamenti senza modificare il regime fondiario dal punto di vista
tecnico-giuridico.
Con la Riforma
agraria la trasformazione ha investito la
distribuzione della proprietà fondiaria puntando all’incremento e alla
qualificazione dell’occupazione, attraverso la creazione di un tessuto diffuso
di imprese coltivatrici supportate da interessanti esperienze di cooperazione.
Con il Distretto
Rurale si favorisce l’affermarsi
dell’imprenditorialità agricola, della multifunzionalità dell’agricoltura e la
valorizzazione del territorio e di tutte le attività che in qualche modo
rientrano nel contesto della ruralità”.
L’esperienza maremmana è lì
a dimostrare come la scommessa sul Distretto Rurale non solo abbia prodotto
effetti positivi sui comportamenti delle imprese e della pubblica
amministrazione, ma per molti aspetti sia stata anticipatrice rispetto ai
cambiamenti delle politiche, determinando un forte stimolo verso la
riconversione produttiva delle attività del mondo rurale, in particolare di
quella agricola, e richiamando forti flussi di nuovi investimenti, quindi di
nuova occupazione e nuove fonti di reddito.
Gli
indicatori più significativi per rappresentare gli effetti della trasformazione
in atto – ricordava sempre nel 2003 Pacciani – “oltre al valore del capitale fondiario, più che quintuplicato negli
ultimi sette/otto anni, anche nelle aree marginali della provincia, sono
altresì ravvisabili nella crescita eccezionale degli investimenti delle imprese
e delle amministrazioni locali, accompagnati da un apprezzabile ricambio
generazionale dell’imprenditoria agricola in particolare quella femminile e da
una evidente vitalità sociale e culturale delle aree rurali”.
Non solo. L’accoglimento del
progetto in sede regionale avrebbe potuto e dovuto trasformare la nostra
ruralità in laboratorio privilegiato
dove l’Unione Europea poteva concentrare la sperimentazione di tecniche e
processi produttivi, progetti pilota sulla tutela e la valorizzazione delle
produzioni, dei patrimoni genetici vegetali e animali, come pure la formazione
sulle tematiche dello sviluppo rurale ed integrato.
Che dire, in conclusione.
Noi
eravamo ambiziosi, qualcuno diceva troppo, perché ci ponevamo
l’obiettivo di orientare il generale percorso di sviluppo della Maremma verso
il modello di sviluppo rurale di qualità dotandosi, come detto, dei necessari
meccanismi di concertazione e di governance locale e fungendo da catalizzatore
ed organizzatore delle risorse umane e finanziarie necessarie alla sua
attuazione. L’interpretazione che invece
ne dette la Regione Toscana fu più restrittiva sostanziandosi nella
predisposizione di un numero limitato di azioni che il distretto poteva
attivare e senza prevedere finanziamenti specifici o contributi. Inoltre lo
strumento del Distretto rurale non fu inserito all’interno degli strumenti
della programmazione territoriale regionale, né considerato quale strumento da
utilizzare per la realizzazione delle misure del Piano di Sviluppo Rurale
(Giovanni Belletti e Andrea Marescotti, 2010).
Ancora oggi, a distanza di
molti anni da quando fu concepito, il Distretto Rurale si trova in quel
dilemma. Far prevalere la nostra interpretazione forte delle sue funzioni (strumento di programmazione,
coordinamento degli interventi, proposizione di progetti e via dicendo) o
quella debole della Regione (azione
di animazione locale e di marketing territoriale) è frutto della volontà e
compito della politica.