martedì 11 gennaio 2022

POST 69 – IL DISTRETTO RURALE, LA TERZA RIVOLUZIONE DELLA MAREMMA DOPO LA BONIFICA E LA RIFORMA AGRARIA

Fu ideato e realizzato grazie all’assessore Alessandro Pacciani. Partendo dalla debolezza storica dell’area maremmana trovammo la forza propulsiva di un nuovo sviluppo. La regione Toscana riconobbe il distretto ma lo sterilizzò, peccato. Eppure sarebbe ancora di straordinaria attualità

Normalmente nei miei post parto in medias res e non ab ovo. In questo caso faccio un’eccezione e inizio con un preambolo. Il preambolo ha un nome: Alessandro Pacciani, allora professore ordinario di economia politica agraria alla Facoltà di Economia di Firenze e direttore dell’osservatorio dell’economia agraria della Toscana. Come detto nel post n. 46, lo tirai fuori dal cappello come un prestigiatore; la sorpresa fu molta, alcuni manifestarono fastidio perché non consultai nessuno e non era della provincia, ma il suo curriculum lo rendeva inattaccabile. Fu un’illuminazione. Con lui fu possibile da subito far fronte ad alcune situazioni di crisi piuttosto acute, penso al settore lattiero-caseario (ma non solo) e soprattutto ci rendemmo conto che la provincia di Grosseto pur presentandosi, nel panorama toscano, coma l’area agricola forte, doveva iniziare a intraprendere strade innovative che le potessero consentire di avere un ruolo di primo piano anche nell’immediato futuro.

① Avevamo bisogno di QUALCOSA DI FORTE, perché, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, il territorio provinciale – come ho già segnalato del post n. 52 – era caratterizzato da indicatori e situazioni negative: un tasso di disoccupazione molto più alto della media regionale, un fortissimo impoverimento delle risorse umane nelle aree interne e montane, un turismo monotematico e stagionale, la irreversibile crisi delle attività minerarie e la difficoltà di riconversione produttiva anche in ragione del deficit infrastrutturale e delle comunicazioni. Inoltre un’agricoltura che incontrava difficoltà a diversificarsi, con un tessuto della cooperazione di servizio che rischiava il collasso per effetto anche di una politica agricola europea che frenava la crescita dell’imprenditorialità. Sempre in quegli anni si stavano raccogliendo i cocci del Progetto Amiata mai decollato e si registrava la mancata realizzazione dell’invaso Farma-Merse. Tra l’altro, il territorio provinciale non aveva saputo, per arretratezza culturale, o potuto, per emarginazione fisica, cavalcare i precedenti anni dell’industrializzazione diffusa propria del modello toscano, generando un’immagine negativa di se stesso (Alessandro Pacciani e Daniela Toccaceli, 2010).

Cosa fare per non assistere passivamente al declino?

Le due principali azioni che intraprendemmo furono la realizzazione del Patto Territoriale per lo Sviluppo della Maremma Grossetana e la progettazione della MAREMMA DISTRETTO RURALE. Del primo parlerò più avanti, il secondo scontava una difficoltà di partenza: quel termine rurale proprio non andava giù a molti. Lo spazio rurale era divenuto una categoria residuale e lo stesso concetto rurale veniva spesso definito in negativo, correlato a non urbano, quindi isolato, disperso, arretrato, tradizionale, povero. Era molto peggio di un’obbligazione subordinata di oggi. Ma grazie alla guida di Pacciani ci incamminammo in quel sentiero e, tra l’altro, nella riorganizzazione dell’ente Provincia di quegli anni cambiai il nome del settore Agricoltura in Sviluppo rurale. Piccolissima cosa, ma significativa della nostra volontà, anche se i conservatori continuarono a chiamarlo ufficio e settore agricoltura. Cambiare le strutture è più facile che cambiare le teste.

Ad esser sinceri, le prime intuizioni ci avevano preceduto e sono rintracciabili nel contributo della Federazione Lavoratori Agro Industria della CGIL del 1993 e nel Progetto per il Sistema di Qualità Maremma predisposto nell’ambito dell’Iniziativa Comunitaria Leader II dal settore agricoltura della stessa Provincia.

② Fu però nella legislatura 1995-99 che prese forza l’idea della Maremma Distretto Rurale d’Europa ed ebbe una prima importante condivisione nella I Conferenza Provinciale del 1996, che, non a caso, ebbe come slogan La Terra Promessa. La definitiva consacrazione ci fu con la II Conferenza Provinciale del 1998 dove furono presentate e discusse le linee programmatiche ed operative del Distretto Rurale e individuati gli assi di intervento su cui far confluire tutti gli strumenti finanziari. E candidammo formalmente la Provincia di Grosseto a Distretto Rurale. Dal 13 al 16 maggio 1999 a Grosseto, nella Conferenza europea organizzata da ECOVAST (European Council for the Village and Small Town) dal titolo Tendenze globali e risposte locali, tenemmo a battesimo il Distretto della Maremma nel contesto europeo. Si registrò un generale riconoscimento dell’originalità dell’impostazione progettuale, legata al tentativo di disegnare una strategia unitaria intorno al mondo rurale. La candidatura del Distretto rurale riuscì ad avere il riconoscimento della Giunta regionale toscana, in via sperimentale, nel giugno 2002. La cosa fece scuola a tal punto che altre zone toscane seguirono la nostra idea e condusse la stessa Regione Toscana a disciplinare la costituzione dei distretti rurali con Legge 21/2004. L’approvazione definitiva infine avvenne nell’ottobre 2006.

③ QUALE ERA L’INTUIZIONE ALLA BASE DEL DISTRETTO RURALE?

Era quella che non bastasse più parlare semplicemente di agricoltura, ma che fosse necessario ragionare e programmare in termini di Sviluppo Rurale Integrato. L’obiettivo politico che avevamo in mente, detto in soldoni, era quello di mantenere i presìdi umani sul territorio e far tornare attraente vivere in un territorio rurale. Obiettivo che non era più raggiungibile alla vecchia maniera, ma richiedeva un approccio nuovo che individuammo, appunto, nello sviluppo rurale integrato. Esso era, infatti, uno sviluppo di tipo territoriale (piuttosto che settoriale) che si manifestava attraverso una pluralità di settori e ambiti d’intervento: le infrastrutture, i servizi, l’ambiente, il turismo, il patrimonio culturale, artistico e paesaggistico, la creazione di nuove professionalità, l’artigianato, la trasformazione dei prodotti della natura, gli aspetti sociali.

Pacciani lo esplicitò con chiarezza nella I Conferenza Provinciale del 1996. Dichiarò che quel disegno si poneva “l’obiettivo di valorizzare le tipologie aziendali capaci di integrare le tradizionali attività di produzione con altre collegate all’industria alimentare, ai servizi e all’artigianato locale, attente agli aspetti ambientali e disponibili a far proprie le tecniche agronomiche più rispettose dell’ambiente e del paesaggio, in grado di raccordare il territorio con le attività turistiche, la caccia e la pesca, le attività sportive e ricreative, orientate alla produzione di prodotti e servizi di qualità tipici”.

Quindi, in realtà, gli obiettivi erano molteplici.

• Dal punto di vista del SETTORE AGRICOLO in senso stretto, l’obiettivo era quello di migliorare il reddito e il tenore di vita delle imprese professionali, razionalizzando e innovando l’organizzazione economica e integrando la produzione con le attività a monte (fornitori di beni e servizi) e a valle (trasformazione e distribuzione dei prodotti) in una logica di filiera produttiva. Come pure quello di favorire l’innovazione di processo e di prodotto con particolare riguardo alle tecnologie e alle produzioni eco-compatibili e di salvaguardare e qualificare l’occupazione attraverso il ricambio generazionale e l’accentuazione dell’imprenditorialità.

 

• Sul versante dello SVILUPPO RURALE in generale, gli obiettivi erano vari. Dalla produzione di qualità ambientale e territoriale quale nuova misura del livello di benessere alla promozione di attività economiche distribuite sul territorio, quali i turismi alternativi e integrativi a quello balneare: termale, culturale, religioso e montano (strade del vino e della gastronomia, sentieristica attrezzata per turismo equestre, trekking, cicloturismo, pesca sportiva, caccia, ecc.). Ma anche la valorizzazione del territorio e dell’ambiente come risorse economiche plurifunzionali strategiche e coerenti con un bisogno di ricomposizione unitaria del paesaggio, delle sedimentazioni storiche (centri storici e insediamenti agricoli), dei parchi, delle riserve naturali, delle attività agricole, turistiche, artigianali, commerciali e anche industriali. Infine, il riequilibrio territoriale attraverso il coordinamento delle iniziative degli Enti Locali e la sollecitazione della solidarietà tra aree deboli e aree forti della provincia.

• Insomma proponevamo uno SVILUPPO DI TIPO ALTERNATIVO, “fondato sul recupero e sul rafforzamento dei legami tra agricoltura, territorio e ambiente, basato su produzioni e servizi di qualità, sul rispetto del paesaggio e delle risorse produttive” e che faceva leva “sulla cultura e la tradizione locale” e, quindi, sull’immagine complessiva del territorio. Alternativo a cosa? “Al modello tendenziale, imperniato sulla produzione e il consumo di massa di prodotti standardizzati”, che comportava sul fronte industriale “l’affermazione delle imprese di grandi dimensioni” che adottavano processi industriali ad elevata intensità di capitale e sul fronte agricolo “l’estensione dei metodi di produzione meccanizzati ad alto impiego di input” di energia ausiliaria, fertilizzanti e pesticidi di sintesi, combustibili fossili, ecc. (sempre Alessandro Pacciani, alla citata Conferenza provinciale). Gli effetti negativi sull’agricoltura di elevati livelli di input erano palesi: una minore diversificazione dei prodotti, le eccedenze produttive, minore salvaguardia ambientale, minore fertilità del terreno, minore salubrità dei prodotti. Quindi svantaggi per l’uomo, per la società, per il bilancio aziendale, per l’agroindustria. La nostra proposta voleva anche contrastare quegli effetti nefasti.

In questo rinnovato contesto il TERRITORIO assumeva un ruolo sempre più strategico come àmbito della pianificazione dello spazio rurale nel quale attuare lo sviluppo rurale integrato. Ciò mediante il cambiamento del suo ruolo – in sintonia con l’impostazione europea di allora (dalla Carta Rurale Europea alla Conferenza di Cork sullo sviluppo rurale del 1996) – da sede fisica (contenitore di interventi edilizi, infrastrutturali, dello sviluppo) a fattore che consentisse la verifica della qualità dello sviluppo e del suo impatto sulla vita della gente.

 

④ UNA SCELTA DI POLITICA ECONOMICA PER IL CAMBIAMENTO. La nostra, insomma, non fu solo un’azione di pura economia agraria, ma di vera e propria politica economica. Dalla debolezza storica di origine dell’area maremmana volevamo trarre la forza propulsiva di un nuovo sviluppo, agganciato anche alle mutate esigenze di tipo consumistico. Trovare la forza nella debolezza. Sembrava quasi un paradosso evangelico, ma noi ci puntammo le nostre fiches. In questi termini non furono molti quelli che la compresero. C’era molta ignoranza e approssimazione e difficilmente si era disponibili a muoversi dall’acquisito: un bel pezzo di mondo agricolo, pure in crisi, ad iniziare dai vertici, non voleva cambiare. Figurarsi, ad esempio chi conosceva il decalogo di Cork e i tre appellativi che definivano concettualmente e tracciavano la metodologia operativa dello sviluppo rurale: endogeno, integrato, sostenibile. Noi, invece, li avevamo conosciuti, grazie a Pacciani, e facendovi leva volevamo cambiare quasi tutto, senza disperdere, anzi, valorizzando il patrimonio di conoscenze umane presente nei sistemi produttivi agricoli o agro-industriali del passato.

 

Nell’introduzione alla I Conferenza Provinciale del 1996, dovendo semplicemente portare i saluti dell’amministrazione provinciale (la relazione strategica competeva all’assessore Pacciani) parlai proprio della battaglia per il cambiamento, ampliando lo sguardo all’Italia. “Al di là delle apparenze, è in atto una formidabile lotta tra l’Italia che non vuol cambiare e l’Italia del cambiamento. La prima, un po’ come gli antichi greci, è tutta protesa al passato, alla ricerca di una perduta età dell’oro; il suo simbolo è Ulisse che anela a ritornare nella sua terra: la sua patria è un prima, la sua vita un ritorno. La seconda, fedele all’ideale della terra promessa, è invece spinta ad assumere la prospettiva dell’esodo, dell’uscita; il suo simbolo è Mosè proteso verso una patria che è un poi, è un avanti. Anche noi oggi dobbiamo scegliere tra un prima e un poi, tra i nostalgici del ritorno e i fautori del balzo in avanti, tra i restauratori e i riformisti presenti in tutti gli schieramenti, nelle organizzazioni, nelle associazioni, nelle istituzioni. Il titolo che abbiamo scelto per questa importante Conferenza Provinciale dice chiaramente noi da che parte stiamo: nel nostro futuro non c’è un’Itaca da recuperare, c’è una Gerusalemme da conquistare”.

Mi rifeci a due tradizioni del passato, la greca e l’ebraica, per dire che bisognava organizzare il futuro. Con chi ci stava e trascinando, con forza e delicatezza, i conservatori. Pian piano la maggioranza degli operatori, delle associazioni, dei responsabili politici e amministrativi ne intuirono lo straordinario valore strategico e parteciparono all’ardua impresa. L’istituzione del tavolo verde, che proposi in conclusione della II Conferenza Provinciale dell’Agricoltura, favorì questo percorso condiviso.

Insomma, in quel progetto vi era rappresentata la svolta avvenuta in Maremma nella COSTRUZIONE DI UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, a partire dalla consapevolezza della propria identità e attivando atti di programmazione e di governo in grado di dare concretezza a concetti di per sé astratti, quali sviluppo integrato, sviluppo sostenibile e compatibile, riequilibrio territoriale, sussidiarietà, concertazione, multifunzionalità dell’agricoltura, qualità dei prodotti, delle risorse e del territorio.

 

⑤ Il tutto realizzato con il METODO DI GOVERNO DELLA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA (già sperimentato con il Patto Territoriale) attivando la concertazione con le categorie economiche, sociali e gli enti locali. Cioè, per dirla da scienziato della politica, favorimmo il passaggio dal governo alla governance, individuando meccanismi organizzativo-istituzionali nuovi, che poggiassero sul maggior coinvolgimento e la partecipazione di tutti gli attori socio-economici e istituzionali del territorio.

• Metodo che lasciava ampi spazi di autonomia decisionale agli attori pubblici e privati del territorio, creando le condizioni di una reale PROGRAMMAZIONE DAL BASSO, tanto più invocata dall’Unione Europea, quanto più difficile da praticare a livello locale. E in questo caso mutammo il modello top-down (la vecchia programmazione dall’alto verso il basso) nel modello bottom-up (dal basso verso l’alto).

• Con chiari riflessi sul piano della CONCRETEZZA, mettendo in moto un meccanismo che poteva alimentare un flusso eccezionale di investimenti pubblici e privati e quindi nuove opportunità occupazionali (cosa avvenuta sempre con il Patto Territoriale per lo sviluppo della Maremma). L’individuazione condivisa dei 3 Assi strategici d’intervento (consolidamento delle filiere e delle infrastrutture pubbliche, rafforzamento della qualità, fare della Maremma un sistema), l’orientamento su di essi anche di tutti gli strumenti di programmazione e di spesa locale (Provincia e Comunità montane dell’Amiata Grossetana, delle Colline Metallifere, delle Colline del Fiora), la concentrazione e la convergenza su di essi di tutte le risorse provenienti da fonti diverse (europee, nazionali, regionali), l’attivazione di ulteriori risorse anche private, permise il raggiungimento di risultati straordinari.

Utilizzando i vari programmi comunitari (2078/92, 2080/92, 2079/92, 2081/93, 2052/88, 2328/91, 822/87, 866/90, 867/90, 1442/88, 1599/91, 2505 e 2684, 2261/84), le leggi regionali (63/81, 64/95, 23/98) e il premio di primo insediamento giovani, nei quattro anni della nostra legislatura erogammo contributi per 158 miliardi di lire, che misero in moto investimenti per 238 miliardi di lire. All’inizio venivano erogati in base alle richieste più disparate dei singoli imprenditori o delle associazioni, poi con la crescita del progetto del Distretto furono tutte orientate alle richieste conformi con gli assi strategici d’intervento. Nel contesto di questo sistema sarà possibile pochi anni dopo, sempre sotto la sapiente regia di Pacciani, costruire il Patto specialistico per l’Agricoltura, sul modello del Patto Territoriale già sperimentato e il Contratto di Programma per l’Agro-Alimentare.

⑥ LA TERZA RIVOLUZIONE DELLA MAREMMA. Il progetto, nonostante qualche limite, rappresentò – come osserverà Pacciani nel 2003 – “l’avvio di un processo che ha caratterizzato la società e l’economia grossetana negli ultimi sette/otto anni, ponendosi alla base di quella che può essere considerata oggi la terza rivoluzione della Maremma dopo la Bonifica e la Riforma agraria.

Con la Bonifica, nelle sue varie interpretazioni temporali – idraulica, sanitaria, integrale – il territorio è recuperato alla produzione e agli insediamenti senza modificare il regime fondiario dal punto di vista tecnico-giuridico.

Con la Riforma agraria la trasformazione ha investito la distribuzione della proprietà fondiaria puntando all’incremento e alla qualificazione dell’occupazione, attraverso la creazione di un tessuto diffuso di imprese coltivatrici supportate da interessanti esperienze di cooperazione.

Con il Distretto Rurale si favorisce l’affermarsi dell’imprenditorialità agricola, della multifunzionalità dell’agricoltura e la valorizzazione del territorio e di tutte le attività che in qualche modo rientrano nel contesto della ruralità”.

L’esperienza maremmana è lì a dimostrare come la scommessa sul Distretto Rurale non solo abbia prodotto effetti positivi sui comportamenti delle imprese e della pubblica amministrazione, ma per molti aspetti sia stata anticipatrice rispetto ai cambiamenti delle politiche, determinando un forte stimolo verso la riconversione produttiva delle attività del mondo rurale, in particolare di quella agricola, e richiamando forti flussi di nuovi investimenti, quindi di nuova occupazione e nuove fonti di reddito.

Gli indicatori più significativi per rappresentare gli effetti della trasformazione in atto – ricordava sempre nel 2003 Pacciani – “oltre al valore del capitale fondiario, più che quintuplicato negli ultimi sette/otto anni, anche nelle aree marginali della provincia, sono altresì ravvisabili nella crescita eccezionale degli investimenti delle imprese e delle amministrazioni locali, accompagnati da un apprezzabile ricambio generazionale dell’imprenditoria agricola in particolare quella femminile e da una evidente vitalità sociale e culturale delle aree rurali”.

Non solo. L’accoglimento del progetto in sede regionale avrebbe potuto e dovuto trasformare la nostra ruralità in laboratorio privilegiato dove l’Unione Europea poteva concentrare la sperimentazione di tecniche e processi produttivi, progetti pilota sulla tutela e la valorizzazione delle produzioni, dei patrimoni genetici vegetali e animali, come pure la formazione sulle tematiche dello sviluppo rurale ed integrato.

Che dire, in conclusione.

Noi eravamo ambiziosi, qualcuno diceva troppo, perché ci ponevamo l’obiettivo di orientare il generale percorso di sviluppo della Maremma verso il modello di sviluppo rurale di qualità dotandosi, come detto, dei necessari meccanismi di concertazione e di governance locale e fungendo da catalizzatore ed organizzatore delle risorse umane e finanziarie necessarie alla sua attuazione. L’interpretazione che invece ne dette la Regione Toscana fu più restrittiva sostanziandosi nella predisposizione di un numero limitato di azioni che il distretto poteva attivare e senza prevedere finanziamenti specifici o contributi. Inoltre lo strumento del Distretto rurale non fu inserito all’interno degli strumenti della programmazione territoriale regionale, né considerato quale strumento da utilizzare per la realizzazione delle misure del Piano di Sviluppo Rurale (Giovanni Belletti e Andrea Marescotti, 2010).

Ancora oggi, a distanza di molti anni da quando fu concepito, il Distretto Rurale si trova in quel dilemma. Far prevalere la nostra interpretazione forte delle sue funzioni (strumento di programmazione, coordinamento degli interventi, proposizione di progetti e via dicendo) o quella debole della Regione (azione di animazione locale e di marketing territoriale) è frutto della volontà e compito della politica.




























lunedì 10 gennaio 2022

POST 68 – IL TORMENTONE DELL’INTERPORTO DI BRACCAGNI

Dovetti dedicare tempo prezioso ad una vicenda che non aveva prospettive. Presentato come l’ennesimo treno da non perdere, si concluse in un autentico flop

Nella vita, tanto più in quella politico-amministrativa, talvolta si è costretti a percorrere strade che si pensa non giungano a niente. Non per accondiscendenza, populismo o falsità, ma perché in tutta onestà si presume che altri (la gente o i corpi intermedi) possano avere una vista più lunga della tua. Inquadro in questa categoria la vicenda dell’Interporto di Braccagni.

A metà ’97 (ma il battage era iniziato prima), promosso dai responsabili della Confartigianato e fatto planare da alcuni interventi sul quotidiano Il Tirreno, prese il via il solito tormentone maremmano: vogliamo l’Interporto! “L’interporto vale 2500 posti. Tanti ne sono previsti se il progetto proposto dagli artigiani decollerà. Donati denuncia intralci burocratici che rischiano di fare perdere alla maremma l’ennesimo treno” (Il Tirreno, 9.5.1997). A me la cosa non convinceva affatto. E con me non convinceva neppure altri interlocutori associativi: Renzo Alessandri, direttore della Cna e Giovanni Tamburro, direttore dell’Associazione Industriali di Grosseto. E anche la Camera di Commercio era divisa al suo interno. “Interporto perplessità e speranze. I tanti dubbi di Cna e Assoindustriali. La Camera di Commercio è favorevole a patto che tutti siano coinvolti, Regione compresa” (Il Tirreno, 10.5.1997).

Perché non mi convinceva? Per le nostre debolezze. La nostra provincia era ancora marginale rispetto ai flussi di interscambio merci che caratterizzavano la regione e la nostra economia locale non aveva una forte base industriale consolidata. Pertanto non era in grado di esprimere elevati volumi di traffico. Inoltre, eravamo in presenza di inadeguate infrastrutture stradali e ferroviarie e carenti di efficienti strutture per la movimentazione, lo stoccaggio e il consolidamento delle merci. Infine, la zona di Braccagni non trovandosi nell’obiettivo 2 della normativa europea, non poteva beneficiare di finanziamenti a fondo perduto o con agevolazioni particolarmente vantaggiose.

• Nonostante le forti perplessità che io e i miei stretti collaboratori avevamo, non mi tirai indietro. Anzi, ribadii che la Provincia aveva “per prima proposto l’Interporto e noi avevamo riconfermato quella scelta (più modesta di un centro intermodale) nella prima Conferenza sul Piano Territoriale di Coordinamento”. Invitai, peraltro, ad essere “molto prudenti nel dire cose che poi rischiano di creare illusioni” (Il Tirreno, 10.5.1997). Stavo, da due anni, lavorando sul Patto territoriale per lo sviluppo della maremma grossetana e toccavo con mano quanta dedizione, fatica, competenza, silenzio operativo, capacità di tessere le giuste relazioni, coinvolgimento di tanti attori erano necessarie per puntare a raggiungere il traguardo (che allora intravedevamo ancora lontano). Ma tant’è. Tra l’altro, il presidente della Camera di Commercio, Eliseo Martelli, non trovò altro che polemizzare col sottoscritto perché dissi che lo studio sulla fattibilità dell’opera, che loro avevano già pensato di assegnare alla Sgl Logistica, non poteva essere a carico degli enti pubblici. E se l’associazione camerale voleva farlo, se lo doveva pure pagare (Il Tirreno, 16.05.1997).

Per quanto mi riguardava, in un intervento alla Conferenza regionale dei trasporti (nel gruppo sull’intermodalità) del 20 giugno 1997, dapprima criticai fortemente il dott. Casini, coordinatore del bacino logistico centro-nord delle ferrovie dello stato, che aveva parlato di potenziamenti dell’asse ferroviario fuorché in una zona della Toscana, quella grossetana e gli dissi che avrei gradito “conoscere le motivazioni di questo disinteresse per la logistica di una zona della Regione che potrebbe invece utilmente collocarsi tra l’Interporto di Guasticce e Civitavecchia. A meno che non si voglia sostenere che la Maremma non fa più parte del centro, ma del Sud (e allora esulerebbe dalle sue competenze di coordinatore)”. Poi aggiunsi: “Prendo atto della volontà della Regione di puntare al potenziamento o alla completa realizzazione dei due Interporti di Livorno-Guasticce e Prato-Gonfienti. Forte, però, di quanto indicato nel Piano di Indirizzo Territoriale regionale, dove si parla della possibilità di previsione di centri intermodali e scali merci, comunico che in sintonia con la Camera di Commercio, il Comune capoluogo e il mondo associazionistico grossetano, stiamo lavorando per verificare la fattibilità di un centro intermodale collocato in Maremma. Ciò in ragione della presenza di una importante T di tipo stradale (Aurelia e Due Mari) e di tipo ferroviario (specie se si tendesse a potenziare la linea trasversale). Vorrei, pertanto, comprendere se la Regione Toscana condivide la nostra volontà di lavorare in tal senso. Noi lo stiamo facendo con senso di realismo, senza pensare ad inutili concorrenze, ma ad un sistema integrato e perseguendo quella logica di spesa che punta alla conclusione delle opere intraprese”. Non ebbi risposte, né in quella sede, né dopo.

• Quando adottammo il PTC, il 7 aprile 1999, mantenemmo la previsione di un centro intermodale (non un interporto) e trovammo pure il finanziamento per lo studio di fattibilità nel Fondo di sviluppo del Monte dei Paschi di Siena, da me presieduto, per un importo di 89 milioni di lire. Fu effettuato quel magno studio che al punto 1.4. recitava: “Considerato quanto sopra, l’iniziativa imprenditoriale relativa alla realizzazione di un Centro Intermodale al momento non si giustifica”. Amen!

Più che una vista più lunga, quella dell’interporto fu una svista clamorosa.







POST 67 – TRE RIVOLUZIONARI A CUBA

Ricordo quando a L’Avana io, Achille ed Eliseo sferrammo un attacco rivoluzionario a “el bloqueo”. Tre ex-democristiani contro gli Usa e a favore del popolo cubano; da non crederci

Un particolare rapporto di amicizia che mi piace ricordare è quello che instaurammo col regime cubano, in particolare con i responsabili della Provincia dell’Avana. Tutto decollò dalla visita di una settimana all’Avana che tenemmo nel luglio 1996. La proposta di quel viaggio era partita dalla Grosseto-Export, allora guidata da Achille Giusti e fu appoggiata dalla Camera di Commercio presieduta da Eliseo Martelli. Fu un viaggio bellissimo per le cose viste e provate e fisicamente molto impegnativo, per la tratta aerea, il fuso, il clima, il tourbillon di incontri con il ministro del turismo, quello del commercio estero, con i massimi dirigenti della sanità, con il presidente della Camera di commercio cubana, con quello della Provincia, con il Vescovo della diocesi dell’Avana e con altri responsabili i cui ruoli non ricordo. 

Vi furono visite abbastanza pilotate a stabilimenti di artigianato tessile, a zone di possibile sviluppo termale e ad aree di sicura attrazione turistica (ricordo un’isola raggiunta nell’ultimo tratto a nuoto), ma anche altre che facemmo personalmente, scoprendo i forti disagi e la grande dignità di quella popolazione, come pure i progressi fatti nell’alfabetismo, nell’istruzione e nella sanità (interessantissimo l’incontro con alcuni scienziati proprio in questo campo). In molti tratti la città de L’Avana sembrava appena uscita da una guerra.

L’intento di quel viaggio era quello di stabilire relazioni di amicizia e rapporti commerciali con un’area del tutto nuova e di sottoscrivere intese che aprissero la strada a partenariati duraturi. C’era, almeno in me, anche il desiderio che i nostri popoli si conoscessero meglio e avviassero ciascuno percorsi di riflessione e di autocritica: chi sul regime, chi sul modello di sviluppo, chi sulla libertà, chi sulla giustizia. Due anni dopo i cubani restituirono la visita: nel settembre 1998 ricevetti una delegazione dell’Avana e il Presidente della Provincia che la guidava, Angel Garate Dominguez, definì la provincia di Grosseto “interlocutore privilegiato”. Per questo mi presi una reprimenda dal presidente di un Circolo grossetano di AN, Fabrizio Pazzaglia. “Gentili interlocutore di un dittatore”, intitolava La Nazione riportando un suo intervento. Il 28 gennaio 1999 ricevetti l’Ambasciatore in Italia di Cuba e il vicepresidente della Provincia dell’Avana per siglare un ulteriore accordo di collaborazione istituzionale. Piccole cose, s’intende, quelle che poteva fare un ente come la Provincia.

Al di là di questo mi sovviene un episodio, anch’esso modesto, ma significativo e simpatico, che ci accadde durante quel viaggio: il penultimo giorno, a coronamento dei colloqui dei giorni precedenti, sottoscrivemmo un accordo noi, Provincia di Grosseto, Camera di Commercio, Grosseto Export, e i nostri omologhi cubani. In quella circostanza erano previsti brevi discorsi di tutti i presidenti. Sia io che Giusti e Martelli – pur non avendo concordato nulla e con le diverse sfumature dei ruoli – fummo molto decisi, anzi decisissimi, su una cosa: sulla fine dell’embargo (o bloquéo, come lo chiamavano) che durava dal 1960 e il ritiro della legge Helms-Burton, voluta dal Presidente Clinton, del 1996. Provvedimento quest’ultimo che inaspriva ulteriormente l’embargo, penalizzando le imprese straniere che avevano affari con Cuba e consentiva ai cittadini americani di far causa agli investitori stranieri che utilizzassero proprietà espropriate dal regime dell’Avana. Il tutto si concluse con l’obbligatoria fumata di un sigaro cubano (o di parte di esso), cosa che ricordo ancora con piacere e qualche giramento di testa.

Quelle nostre dichiarazioni, riportate anche dalla radio nazionale cubana (un parente di Toronto, anni dopo, mi disse che della nostra visita ne aveva sentito parlare appunto alla radio), mi sembra furono un episodio semplice ma significativo.

La simpatia della cosa è legata al fatto che a pronunciare quei discorsi veramente rivoluzionari fummo 3 ex-democristiani, quindi per definizione anti-comunisti: Eliseo e Achille certamente, io un po’ meno perché dal 1987 (quando mi iscrissi alla Dc) al 1994 (quando la Dc si dissolse) avevo sempre teorizzato le necessità dell’incontro in Italia delle forze di tradizione marxista con quelle di tradizione cattolico-democratica.

La circostanza che io, Achille ed Eliseo prendemmo le difese del popolo cubano, contro la strategia degli USA, l’ho sempre in seguito ricordata con grande affetto e simpatia.

Ma era proprio da non crederci.











POST 66 – FRATELLI DI CHI SOFFRE

Sciagure nazionali e sofferenze di altri popoli ci trovarono al pezzo. Dalla Versilia e la Garfagnana al terremoto umbro-marchigiano, passando per il popolo Saharawi, la Bolivia e Mostar in Bosnia-Erzegovina

Purtroppo il quotidiano rischiava di schiacciare la nostra azione solo e soltanto entro i nostri ristretti confini. Ma oltre noi c’era il mondo. Il mondo ci riguardava e ci interessava, come cittadini e come istituzioni. Ma il mondo non era in pace perché non si muoveva sulla linea dell’autentico sviluppo e in larga parte non si sviluppava perché non era in pace. Lo statuto del nostro Ente – oltre alle tipiche attività – dichiarava che “la Provincia promuove e sostiene ogni iniziativa ed azione che tenda ad un concreto conseguimento dei valori fondamentali della pace, della solidarietà, della democrazia e della libertà, sui quali sui basa il rispetto della persona umana”. (art. 1 comma 1). C’erano anche le alluvioni e i terremoti che di tanto in tanto devastavano la nostra Penisola. Non eravamo certo la Farnesina, la Protezione Civile o la Croce Rossa. Potevamo però portare il nostro piccolo mattone alla costruzione di una umanità meno dolente e più solidale. E provammo a farlo. Tra queste iniziative ricordo l’aiuto alle popolazioni della Versilia e della Garfagnana, il nostro intervento dopo il terremoto nell’Umbria e nelle Marche, il patto di amicizia e gemellaggio con il popolo Saharawi, il sostegno alla missione della diocesi di Grosseto in Bolivia, la partecipazione alla cooperazione con l’area di Mostar in Bosnia.

• Seguendo l’iniziativa promossa dall’Unione delle province Tosca-ne partecipammo a due progetti per la ricostruzione di alcune zone della Versilia e della Garfagnana alluvionate nel giugno 1996. Mettemmo 100 milioni che furono utilizzati a Fornovolasco, una frazione di Vergemoli in Garfagnana e nell’abitato di Cardoso, nel comune di Sant’Anna di Stazzema (in entrambi i casi servirono per la ricostruzione di ponti).

 

• Nel settembre 1997 un forte sisma interessò l’Umbria e le Marche. Raccogliemmo quel grido di dolore nel modo più semplice e concreto possibile: attraverso una serie di interventi secondo le necessità e le richieste avanzate dai responsabili dell’emergenza e delle istituzioni di quelle zone. Poche ore dopo il sisma eravamo sul posto con i nostri uomini per realizzare l’urbanizzazione di un’area. Stanziammo fondi per l’emergenza e in particolare ci preoccupammo di far ripartire la didattica in alcuni paesi dove erano state danneggiate le scuole. I nostri tecnici si occuparono di fare sopralluoghi nelle case del comune di Foligno, poi l’intera squadra si trattenne per due mesi a fare interventi a Nocera Umbra, Isola, Collecroce, Colfiorito. Li voglio citare, perché ne vado ancora fiero: gli ingegneri Massimo Luschi e Carlo Bocci; i geometri Mauro Bindi, Danilo Corridori, Massimo Bartalucci, Tiziano Romualdi, Carlo Massetti, Enrico Pasquini, Lorella Santori; gli operatori Romolo Bacci, Renzo Landeschi, Aldo Raffi, Danilo Rossi, Roberto Cosimi.

Non solo. Avviammo anche una campagna di sensibilizzazione e di sottoscrizione con lo slogan, Non solo Giotto, che accompagnò per tre mesi la vita dei grossetani e si propagò in tutte le località della provincia: manifesti, lettere ad associazioni e cittadini, inserzioni su quotidiani e periodici, spot televisivi e radiofonici. C’eravamo assunti la responsabilità morale e istituzionale di fare una raccolta fondi sull’intero territorio provinciale. Iniziativa che volli con tutte le mie forze, anche se a taluno non sembrava propria di un Ente. Non ricordo quanto alla fine si riuscì a raccogliere (30 milioni circa?), ma più di tutti contava il messaggio: “ci metto del mio per aiutare persone in difficoltà”.

Ai soldi raccolti aggiungemmo 100 milioni di lire e dopo accordi con la Provincia di Perugia e il comune di Nocera Umbra li destinammo alla realizzazione di una scuola prefabbricata (17 moduli per ospitare 10 aule per gli alunni, 2 aule per i laboratori, 2 per la segreteria e la presidenza, 2 box per i servizi igienici) dove temporaneamente spostare l’Istituto professionale di Stato per l’Industria e l’Artigianato di Nocera Umbra. 160 studenti che, dopo tre mesi – unici delle superiori in quel comune – poterono usufruire di una scuola e iniziare di nuovo le lezioni.

Pochi giorni prima del Natale 1997, insieme all’assessore Renato De Carlo, ai nostri uomini che avevano operato ed alle autorità locali, partecipai al taglio del nastro dell’inaugurazione della nuova scuola. Fu un’emozione unica. Come ricordava Giancarlo Capecchi, in un articolo su La Nazione del 23.12.1997, ricevetti dal sindaco di Nocera la loro massima onorificenza, il Giglio d’oro, e gli studenti ci dedicarono “uno spettacolo, fatto di canti e letture sulla tragica vicenda vissuta”. Capecchi ricorda anche le poche parole che dissi nel saluto: “Sono lieto di poter essere felice con chi ha tanto sofferto e continuerà a soffrire. Voglio trasmettervi la stessa speranza che alla nostra gente fu trasmessa il 4 novembre del 1966 quando Grosseto fu travolta e stravolta da un’incredibile alluvione. La nostra presenza, il nostro lavoro sono anche la testimonianza che l’Italia c’è, che non siamo tribù, ma una nazione, una Patria: tutte sensazioni che voglio segnalare perché ci devono fare sentire il gusto di essere italiani”. Rispose il Presidente della Provincia di Perugia: “Siamo certi che i nostri ragazzi capiranno il valore aggiunto che c’è in queste strutture, che è fatto di solidarietà, organizzata ed efficiente e di volontà”. Su sollecitazione della Provincia di Macerata erogammo un altro finanziamento di 80 milioni di lire al comune di Serravalle del Chienti per realizzare una struttura prefabbricata di circa 140 mq, costituita da 4 box con ingressi indipendenti, da utilizzare come negozi: struttura completa di infissi, impianto elettrico e riscaldamento.

• Un pezzetto di Maremma, dal 1995, aveva scelto l’emisfero sud per vivere e lavorare. Un gruppo di volontari composto da un sacerdote della diocesi di Grosseto (padre Claudio Piccinini) e due laici (la famiglia Ferrara) viveva a stretto contatto con i poveri e gli emarginati di Santa Cruz de la Sierra nella Missione San Lorenzo (patrono di entrambe le città), collaborando a diversi progetti. Riuscimmo a trovare motivazioni e risorse per contribuire al sostegno di alcune di queste attività, la più importante delle quali fu la costruzione del Giardino d’Infanzia San Lorenzo nell’area amministrata da padre Claudio.

 

• Dall’estate 1996 e da un incontro con una delegazione di 30 bambini del popolo Saharawi e i loro accompagnatori (ospiti a Follonica dell’Associazione di Solidarietà con la Repubblica Democratica Araba del Saharawi) nacque un’occasione di solidarietà con un popolo – circa 160 mila persone – che dalla metà degli anni ’70 viveva in esilio nei campi profughi del deserto algerino, ultima vittima del sistema coloniale. Nel marzo 1997 stipulammo un patto di amicizia con questo popolo, rappresentato nell’occasione dalla provincia-tendopoli di Smara. Il patto impegnava noi e loro ad intraprendere iniziative di cooperazione, favorendo scambi sociali, culturali ed economici finalizzati al raggiungimento della pace.

 

• Nella seduta congiunta dei Consigli Comunale e Provinciale del 19.07.95 ci impegnammo a promuovere e a partecipare ad iniziative per ogni forma di solidarietà ed aiuti umanitari in favore della popolazione della ex Jugoslavia. In tal senso la Provincia intervenne in un progetto per la vita di un popolo, per la pace e per la cultura. Mostar era una città divisa. Fino alla tarda primavera del 1994, musulmani e croati si erano combattuti porta a porta. La frattura rappresentata fisicamente dalla distruzione del ponte Stari Most (il Ponte Vecchio costruito con 465 blocchi di pietra bianca sin dal 1557) era il segno tangibile di una separazione culturale profonda. La via della pace e dell’unità, della solidarietà tra popoli di etnie diverse, ulteriormente divisi dalla guerra, dai ricordi di violenza, poteva essere percorsa attraverso un processo di recupero di una cultura della convivenza che partisse dai giovani. A Mostar est erano poche le strutture scolastiche operanti, quasi tutte di livello inferiore. La ricostruzione della società civile stava nel recupero, nello scambio e nella crescita culturale dei giovani. Una giovane insegnante, Jelka Kebo, si era battuta per l’apertura di un grande Centro Giovanile polivalente a Mostar Est ospitato in una struttura ultimata grazie ad un finanziamento dell’Unione Europea.

L’Arci aveva costruito intorno alla volontà dell’insegnante e dei giovani che già si incontravano nel centro, un progetto che non rendesse questo stabile una scatola vuota. Le esigenze espresse dai giovani del Centro andavano dall’allestimento di una stazione radio e di una redazione giornalistica di base, a quella di una sala proiezione. Noi decidemmo di entrare nel progetto intervenendo in una prima fase con 15 milioni di lire a condizione che divenissero subito operativi. Contribuimmo alla realizzazione di una sala video. Si trattava di acquistare poltroncine, un videoproiettore, uno schermo mobile e delle tende oscuranti. Un piccolo passo possibile e concreto. Non l’ultimo passo del nostro Ente nella ex Jugoslavia. L’inizio di un percorso di relazioni che portò, dal 25 al 29 settembre 1996, una delegazione della Provincia di Grosseto a Mostar Est (composta da Gloria Faragli e Manuela Bracciali) – insieme ad Alessandro Lotti per il comune di Grosseto e Roberto Mori per l’Arci – per verificare direttamente ciò che serviva, ma anche e soprattutto per aprire relazioni, scambi utili, nel loro piccolo, al difficile processo di democratizzazione del paese. Aderimmo anche al progetto di solidarietà Atlante delle Comunità Locali della Bosnia Erzegovina per la cooperazione decentrata per lo sviluppo umano in un contesto post-conflitto.

• Durante il consiglio provinciale congiunto con quello del comune di Grosseto del 19 luglio 1995, che – mi pare – si tenne all’aperto, pronunciai il seguente discorso. “Non ho mai vissuto la guerra direttamente, fortunatamente, come molti di coloro che sono qui. Vi vorrei chiedere, dunque, di smuovere la fantasia e di capire cosa significa essere cacciati, in una sera d’estate del 1995, dalle proprie case bruciate con gli uomini portati a destinazione sconosciuta e trovarsi in migliaia su un prato, sotto delle leggere tende bianche e blu. I fatti accadono a poche centinaia di chilometri di distanza, oltre il mare esplodono granate, cresce il filo spinato dei lager, fuggono e muoiono bambine, uomini e donne, città, paesi, case di campagna vengono trafitte, bruciate. Una reazione su tutte è quella di cancellare, di portare queste vicende di guerra a far parte della realtà virtuale che, ogni giorno in parte viviamo. Allora, solo così, Srebrenica e Sarajevo possono tornare lontane in uno spazio ed in un tempo illusorio, raccontato da un televisore, senza interferire con la normalità del quotidiano. Dieci anni fa sono andato a visitare, in silenzio e lacrime, il campo di concentramento di Dachau in Baviera. Mi si disse che all’arrivo degli Alleati le popolazioni dei paesi limitrofi si erano dette ignare dell’Olocausto che a pochi chilometri si consumava. Ne rimasi sconcertato. Noi oggi, che non possiamo far finta di non sapere, rischiamo l’assuefazione al male, la fuga nell’immaginario, l’annullamento dell’orrore con l’abitudine. Con un moto di sana reazione questa sera siamo invece in piazza per esprimere il tormento delle nostre coscienze, riacquistare la dignità dell’indignazione, dichiarare pubblicamente la normalità di provare orrore per ciò che accade in Bosnia (ma anche in Afghanistan, nel Kashmir, in parte della Cina e in altre zone del mondo dove non vi sono tante telecamere in azione).

Il silenzio e l’impotenza dei singoli ha fatto da sfondo al nazismo ed ha accompagnato l’instaurazione dei regimi dittatoriali. Il silenzio della maggioranza, il chiudere gli occhi per non vedere la realtà circostante ha alimentato la forza di una minoranza agguerrita, motivata ideologicamente. Ma attenzione: sarebbe errato ritenere soltanto una parte violenta e le altre solo vittime. Purtroppo quella bosniaca è una situazione orribile dove oggi spadroneggiano i signori della guerra. E purtroppo quella balcanica – nonostante le attuali atrocità serbe – ha più i tratti di una guerra civile (se mai una guerra in tal modo si possa chiamare), che quelli di una guerra di pura aggressione e ciò rende tutto più complicato: anche un eventuale intervento militare. Anzi parlare in tale contesto di soluzione militare è assurdo. Come ha detto qualche autorevole commentatore, se davvero volessimo imporre scelte con la forza, dovremmo rassegnarci ad occupare la Bosnia per decine di anni e affrontare un altissimo prezzo in vite umane. Ma ciò che sta accadendo in Bosnia esige l’impegno di ciascuno di noi. Chi può parlare parli, chi può gridare gridi, chi può pregare preghi, chi può operare operi. E uniamoci per spingere i singoli governi, l’ONU, la NATO a mettere in campo tutte le loro forze per fermare questa strage di innocenti, per permettere alla gente di Sarajevo, delle enclave musulmane assediate, di poter ricevere gli aiuti sufficienti per sopravvivere. Almeno questo: aiutarli a sopravvivere. È l’unico intervento a cui riesco a pensare. Non posso immaginare il sangue dei nostri figli bagnare i Balcani. Il muro che dobbiamo far crescere è quello dei medicinali, degli alimenti, del controllo rigoroso degli armamenti, il muro della pace”.

Piccole cose le nostre, ma che ci permettono ancora oggi di dire che noi c’eravamo.
















domenica 9 gennaio 2022

POST 65 – IL ROMPICAPO DELLA CACCIA

Grazie alla competenza dell’assessore Giampiero Sammuri rivoluzionammo anche quel mondo, abituato ai suoi riti e ai suoi re. Nonostante le fucilate del controrivoluzionario Barbetti

La caccia per me era un problema, lo confesso, nonostante da bambino abbia avuto a casa mio zio Claudio, un cacciatore a 40 carati, che rientrava spesso con tasche piene di selvaggina e trascorso molti pomeriggi nel bar di mio zio Nazareno frequentato da cacciatori, specie fiorentini, che sparavano anche alle mosche.


In campagna elettorale avevo scritto una lettera ai cacciatori (è importante, mi fu detto) e con loro avevo preso l’impegno di seguire direttamente la spinosa questione. Ma la cosa mi preoccupava assai. Provvidenzialmente, una delle due candidature proposte dal Pds per gli assessorati era Giampiero Sammuri, laureato in scienze biologiche e dirigente delle risorse ambientali e faunistiche della provincia di Siena. Tirai un respiro di sollievo e lo incaricai di occuparsene. Quando scrissi ai cacciatori “me ne occuperò io” intendevo soprattutto dire che saremmo usciti dai rapporti privilegiati del passato, avremmo coinvolto la base e provocato cambiamenti. Erano le stesse intenzioni di Giampiero.

Le associazioni dei cacciatori di allora, Federcaccia, Liberacaccia, Italcaccia, Arci-caccia, con Roberto Barbetti, Paolo Isidori, Romano Fanciulli, Euro Rocchi erano molto attive. Specie Barbetti era un vero e proprio peperino. Credo che nel passato fosse stato abituato dall’amministrazione provinciale a rapporti privilegiati, quanto alle scelte di politica venatoria. Questi vertici rappresentavano una vera e propria casta e taluno di loro millantava capacità di orientare voti da una parte o dall’altra. Molte erano chiacchiere, ma un certo appeal lo avevano. Noi invece intendevamo trattare tutti allo stesso modo: rapporti privilegiati con nessuno, rispetto per tutti. Desideravamo condividere le decisioni, ma partendo dal rispetto delle regole. Le scelte poi le avremmo compiute nella sede deputata, il consiglio provinciale. Scegliemmo anche di coinvolgere la base dei cacciatori, allora stimabili in circa 11.000 persone, sia per sentire il loro parere sulle nostre proposte di cambiamento, sia – detto tra noi – per scavalcare la casta venatoria.

Della nostra politica venatoria se ne occupava Sammuri, ma io intervenni a dare il placet o il non placet nei momenti decisivi e in quelli delicati, nei quali la polemica si fece rovente. Presi parte a diversi incontri territoriali nei quali imparai a conoscere i cacciatori. Oltre ad essere il Presidente e, quindi, a dovermi assumere in primis le responsabilità delle scelte di fondo, non trascuravo minimamente il valore di questa attività e mi feci sempre più convinto di quanta importanza avesse per le persone che la praticavano. Ho visto cacciatori piangere e – come detto in un precedente post – ho ricevuto anche un avviso di garanzia per le boiate del responsabile di un’azienda venatoria.

• Ma cosa voleva dire che la Provincia si occupava di caccia? Molto di più di quanto si potesse pensare. Significava occuparsi della gestione faunistica del territorio, dell’attività di vigilanza, del miglioramento degli habitat e del ripopolamento della fauna selvatica. Tutto apparentemente semplice, ma in realtà complesso e delicato. Nei quattro anni elaborammo programmi per centinaia di milioni. Tanto per fare un esempio, perché ho ancora i dati, negli anni 1996 e 1997 presentammo progetti per 2 miliardi e 300 milioni di lire.

Per quello che riguardava la gestione faunistica decidemmo – come detto – di promuovere il cambiamento, adeguandoci intelligentemente alle leggi nazionali (157 del 1992 e 3 del 1994) e alla delibera della regione Toscana 292 del 1994.

① L’ABACUS SULLE TRACCE DELLE ABITUDINI DEI CACCIATORI. Lo facemmo intanto andando a saggiare le opinioni della base dei cacciatori, visto che le litanie dei vertici le conoscevamo anche troppo bene. Commissionammo un’indagine alla società Abacus sui comportamenti di caccia e sulle opinioni relative ad alcune proposte di modifica delle modalità di caccia dei cacciatori grossetani. Furono intervistati 1.000 cacciatori, selezionati tra un elenco di 14.000. Avevamo bisogno di giungere ad una programmazione dell’attività venatoria che tendesse ad una diversa distribuzione dei cacciatori sul territorio, in modo da limitare il nomadismo e riequilibrare la pressione venatoria tra i vari territori. Ricevemmo risposte confortanti.


② IL TERRITORIO SUDDIVISO IN TRE ATC. La nostra prima mossa riguardò gli ATC. Dopo una seria concertazione con le associazioni venatorie suddividemmo il territorio in 3 Ambiti Territoriali di Caccia (ATC) che finanziammo regolarmente tutti gli anni. Per ciascuno di questi nominammo un comitato di gestione formato dai rappresentanti delle associazioni dei cacciatori, degli agricoltori, delle associazioni ambientaliste e della Provincia. Fu un’operazione sensata ed equilibrata e nonostante ciò scatenò le contrarietà di qualche associazione venatoria e le ire di alcuni cacciatori che giunsero addirittura – come ho già detto – a minacciare me e la mia famiglia. Roba da matti.

③ LE NUOVE REGOLE PER LA CREAZIONE E LA GESTIONE DEGLI ISTITUTI FAUNISTICI. La seconda mossa riguardava la definizione di nuove regole per la creazione e la gestione degli istituti faunistici sia pubblici che privati. Le nuove regole erano necessarie nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione perché, sino ad allora, nelle materie che riguardavano le Zone di Ripopolamento e Cattura della fauna selvatica (Zrc), le Aziende Faunistico Venatorie (Afv) e le Aziende Agrituristico (o turistico) Venatorie (Atv) della provincia di Grosseto, molto era stato lasciato alla discrezionalità degli amministratori. Cioè, poche assolvevano alle indicazioni previste dalla delibera regionale 292 del 1994 e noi non potevamo, né volevamo, far finta di niente, anche perché la situazione era veramente confusa se non vicina allo sfascio. I precedenti amministratori a circa un anno dalle elezioni, non avevano avuto il fegato di toccare la caccia. La questione era, però, delicata anche perché andavamo a toccare interessi economici di tutto rilievo. Circolavano dati (approssimativi) sull’attività delle aziende private: dicevano che in esse trovavano accoglienza circa 25.000 presenze di cacciatori, con un fatturato presumibile di oltre 3 miliardi annui e decine di posti di lavoro. Senza considerare l’indotto: ristorazione, permanenza nelle aziende agrituristiche e acquisto dei prodotti della terra.

La non facile operazione di cambiamento la preparammo in modo certosino e culminò nel seminario del 5 novembre 1996 al Granduca, con la presenza dei dirigenti regionali delle organizzazioni venatorie (Massimo Cucchi, Massimo Logi, Leo Francini, Graziano Meoni), di quelle agricole (Maria Pia Mancini, Massimo Pacetti, Francesco Pastorino), di quelle ambientaliste (Fulvio Fraticelli, Armando Garibaldi, Susanna D’Antoni). Per l’università erano presenti i professori Massimo Tocchini, Sandro Lovari, Luigi Boitani. Invitammo quel livello di persone anche perché limitandoci ai responsabili locali il dibattito sarebbe stato asfittico e poco costruttivo. Tutti, anche i responsabili del mondo venatorio, espressero un giudizio positivo sia sul merito delle nostre proposte che sul metodo, sollecitando solo di apportare alcune modifiche per rendere i Regolamenti più efficaci nell’applicazione e gestione.

• Le Zone di Ripopolamento e Cattura erano strutture pubbliche finalizzate alla riproduzione di alcune specie selvatiche (lepre, starna, pernice rossa e fagiano) che venivano poi catturate e reimmesse nel territorio a disposizione dei cacciatori. Noi intendevamo favorire la costituzione di queste zone, puntando alla loro massima qualificazione, anche attraverso interventi di ripristino ambientale. Secondo le nuove regole ogni Zrc (ne esistevano 42) avrebbe dovuto avere una superficie minima di 600 ettari (500 in collina) e per la nuova istituzione e il rinnovo di quelle esistenti si prevedevano una serie di caratteristiche ambientali vincolanti. Non potevano inoltre essere istituite in zone che la Regione definiva vocate al cinghiale. Tra le attenzioni del nostro regolamento c’era l’opera di salvaguardia delle produzioni agricole anche attraverso il controllo della fauna selvatica in eccesso.

• Le Aziende Faunistico Venatorie erano 27 e avevano le stesse finalità della Zrc, ma erano strutture private, gestite dal concessionario, nelle quali era consentita anche la caccia. Qui oltre alle specie producibili previste per le Zrc, trovavano spazio anche la lepre, il capriolo e il muflone, là dove esisteva. Le Afv avrebbero dovuto avere una superficie minima di 400 ettari (1000 se era prevista la produzione di ungulati) e, per ottenere la concessione, gli interessati avrebbero dovuto presentare un piano di gestione ambientale dettagliato, con tanto di cartografia tematica, descrizione delle caratteristiche territoriali, scelta delle specie di indirizzo, valutazione della presenza delle specie riproducibili. Ed anche un progetto di recupero e valorizzazione ambientale. Per i concessionari delle Afv, come per le Zrc, erano previsti particolari incentivi relativi ad interventi per fini naturalistici. I finanziamenti sarebbero stati concessi ai proprietari o ai conduttori dei fondi all’interno dei quali fosse stata accertata la presenza di mammiferi o uccelli appartenenti a specie protette o inserite negli appositi elenchi europei.

• Le 11 Aziende Turistico o Agrituristico Venatorie erano strutture private con una superficie che poteva andare dai 200 ai 500 ettari, consentite dalla legge con finalità di recupero e di valorizzazione di imprese agricole situate in aree svantaggiate o dichiarate marginali ai sensi degli interventi comunitari. Qui la caccia entrava a far parte dell’attività agrituristica, con un vantaggio economico immediato per i concessionari. Nessuna finalità naturalistica dunque, ma solo la possibilità di aumentare la redditività di alcune aziende agricole. Infatti chiedemmo, per la concessione delle licenze, un ritorno in termini occupazionali (l’occupazione, il nostro costante assillo).

Intendevamo valorizzare le produzioni di fauna selvatica di qualità che si riproducesse in libertà e non negli allevamenti. E i problemi principali delle Zrc e delle Afv erano l’ubicazione, che spesso interessava territori non idonei, e l’eccessiva burocratizzazione della loro gestione che noi volevamo snellire. Insomma, eravamo intenzionati ad esaltare l’immagine di una provincia dal territorio sano, anche attraverso la regolamentazione delle attività faunistico venatorie. Se quindi le strutture faunistico venatorie ci qualificavano, allora – come diceva Sammuri – occorreva che le regole fossero chiare.

Non avevamo ancora definitivamente approvato le nuove norme, che già iniziarono a fischiare pallottole. Tra le associazioni venatorie avemmo il plauso dell’Arci-Caccia e la contrarietà delle altre associazioni. “Sulla caccia è guerra aperta” titolava Il Tirreno del 31 dicembre 1996 e continuava con il presidente Rocchi che diceva “Siamo sulla buona strada” e i responsabili grossetani di Federcaccia, Liberacaccia e Italcaccia che invece parlavano di “Novità contestabili”. Addirittura, secondo la triplice, con i nostri Regolamenti saremmo andati oltre la legge nazionale e la delibera regionale. Opinioni tutte opinabili, ma che a ben vedere, risentivano in parte della collocazione politica dei responsabili delle associazioni e del fatto che qualcuno non era più considerato il principe del foro. Ci attaccò pure il cosiddetto consigliere verde Guido Ceccolini, che di lì a poco sarebbe uscito dalla nostra maggioranza (anche per divergenze sulla Diaccia Botrona e praticamente su tutto), secondo il quale con la nostra riforma avremmo danneggiato l’ambiente e addirittura avrebbero dovuto chiudere un sacco di Aziende Faunistico Venatorie. Il tempo ha poi dimostrato l’inconsistenza di quella contestazione, anche se molte di queste dovettero adeguarsi, come era giusto e doveroso, alle nuove regole, ciò a dire alla legge nazionale e regionale.

④ LA CACCIA DI SELEZIONE. Mentre nelle passate stagioni venatorie il contenimento delle varie specie di fauna selvatica avveniva con l’aiuto di cacciatori indicati dai proprietari o dai conduttori dei terreni, noi decidemmo di formare direttamente i cacciatori.

Realizzammo corsi per la preparazione dei cacciatori alle azioni di contenimento della fauna in eccesso (cinghiale, volpe, storno, nutria, passeri, corvidi) e per gli interventi di caccia di selezione al capriolo e al daino. Coinvolsero un migliaio di cacciatori abilitati a svolgere un servizio necessario a mantenere un buon equilibrio di fauna selvatica nel nostro territorio, sotto il controllo delle guardie provinciali (1270 cacciatori fecero domanda e gli abilitati furono 900 per la caccia di contenimento e 99 per la caccia di selezione).  Per agevolare i cacciatori abilitati, eliminammo i tempi burocratici attivando un nuovo sistema di teleprenotazione degli interventi di abbattimento. Si passò dai 15-30 giorni del passato ad un preavviso di 48 ore.

Anche su questo ricevemmo le critiche dell’amico verde Ceccolini che parlava un po’ confusamente di caccia in estate, di strage dei nidi, di interventi di contenimento con le gabbie Larsen, del rischio di colpire gufi e rapaci diurni. Gli rispose Sammuri con un intervento pepato ne La Nazione del 23 giugno 1997, ricordando che: “quella estiva non era caccia ma contenimento della fauna selvatica in eccesso”, i cui piani “richiedono il parere dell’Istituto Nazionale della Fauna selvatica di Bologna alle cui indicazioni la Provincia di Grosseto si è uniformata”. Inoltre che “gli interventi proposti sono altamente selettivi e l’intervento ai nidi è solo residuale”. Quanto alla cattura con le gabbie Larsen, essa “non offre risultati soddisfacenti”. Riguardo al rischio di colpire involontariamente altre specie, “esiste nel disciplinare autorizzato la prescrizione di accertarsi visivamente della specie presente nel nido”. Ricordò infine che i piani di contenimento riguardavano solo le Zone di Ripopolamento e Cattura che coprivano il 7% del territorio provinciale.

⑤ LE AREE VOCATE E I CORSI DI ABILITAZIONE ALLA CACCIA AL CINGHIALE. Iniziammo anche a rivedere le aree vocate alla caccia al cinghiale, per riportarle entro i parametri indicati negli indirizzi regionali di programmazione faunistico venatoria. Predisponemmo il programma didattico dei corsi di formazione e specializzazione per l’abilitazione alla caccia al cinghiale in battuta. Provvedemmo, nel primo periodo, anche all’assegnazione dei territori di caccia al cinghiale alle squadre che ne avevano fatto domanda, chiedendo alla regione Toscana una deroga per l’iscrizione di squadre composte da un numero di cacciatori inferiore a 40 prevista dal Regolamento, per poter ridurre tale limite a 25 cacciatori. Il numero totale dei cacciatori di cinghiale era di 8.000, un esercito.

⑥ I DIVIETI DI CACCIA. Nel 1997 sottoponemmo a verifica gli istituti dei divieti di caccia (28 in quell’anno). Analizzammo caso per caso gli istituti (per loro natura temporanei) e, ove possibile, li trasformammo in altri istituti duraturi (Oasi, Area protetta, Zrc). Dove non fu possibile, liberalizzammo l’attività venatoria.

⑦ LA LIQUIDAZIONE DEI DANNI ALLE PRODUZIONI AGRICOLE. La giustificata lamentela degli agricoltori giungeva spesso alle nostre orecchie e noi, tutti gli anni, provvedemmo ad accertare i danni arrecati dalla selvaggina ed a liquidare il dovuto, in percentuale del 90% rispetto all’accertato.

 

⑧ IL CENTRO DI RIPRODUZIONE DELLA SELVAGGINA E DI ALLEVAMENTO DELLE LEPRI. Attivammo progetti pilota per la produzione e il ripopolamento della selvaggina offrendo certezza gestionale e sviluppo al Centro per la riproduzione della selvaggina di Scarlino e aiuti al nostro Centro di allevamento delle lepri a Civitella Paganico. Con il primo progetto ci proponevamo di ricostruire una popolazione vitale di pernice rossa nel nostro territorio. Con il secondo fu avviato uno studio relativo alle tecniche di alimentazione e di allevamento della Lepre di Montalto.

⑨ I NIDI DI ALBANELLA MINORE. Con il progetto di salvaguardia e censimento dei nidi di albanella minore, puntammo a tutelare un rapace la cui permanenza nel nostro territorio era considerata molto importante nel quadro dell’avifauna locale.

⑩ IL CENTRO RECUPERO ANIMALI SELVATICI DI SEMPRONIANO. In collaborazione con il WWF creammo a Semproniano un Centro di ricerca e di monitoraggio sulla fauna, il Centro Recupero Animali Selvatici della Maremma (Crasm). Nacque con il riutilizzo di voliere in pieno stato di abbandono, convertite in aree di accoglienza per la fauna soccorsa dai cittadini (compresi i mammiferi). Centro importante anche per l’azione di monitoraggio e di prevenzione sanitaria di malattie che si sviluppano in animali selvatici e possono diffondersi con facilità (in collaborazione con le Università di Perugia e Pisa). Ed anche perché divenne la sede di un importante progetto finalizzato alla reintroduzione del capovaccaio, una particolare specie di avvoltoio dal piumaggio bianco, rarissimo in Italia.

⑪ LA RIFORMA DEL CORPO DI POLIZIA PROVINCIALE E L’ESPANSIONE DEL CORPO DI VIGILANZA VOLONTARIA. Il nostro corpo di Polizia, pur essendo limitato nel numero, operava costantemente a tutela del patrimonio faunistico. In particolare, nell’ambito di operazioni di bracconaggio riuscì a concludere positivamente diverse azioni, anche in collaborazione con le guardie venatorie volontarie. Io espressi a più riprese la necessità di riorganizzare il nostro corpo e la struttura Sviluppo e tutela del territorio della Provincia provvide ad una riforma che andava nella giusta direzione, per la quale il consigliere di minoranza, Gino Maccioni, fece le sue rimostranze e chiese spiegazioni, lasciando intendere, tra l’altro, che avevamo provveduto ad alcuni trasferimenti punitivi nei confronti di due vigili perché avevano partecipato insieme alla Procura ad indagini che avevano condotto alla sospensione temporanea di concessioni ad alcune aziende faunistico venatorie. Una stupidaggine naturalmente. In quella circostanza colsi l’occasione per precisare che le 15 sospensioni delle concessioni dal ’95 a quel momento erano state tutte emesse in seguito a segnalazioni fatte proprio dal nostro servizio Conservazione della natura (La Nazione, 1.12.1997). Ricordo anche che quando si indisse il concorso per l’assunzione di nuove guardie questo ebbe un iter a dir poco travagliato: l’infortunio di una candidata, la malattia di un commissario, ricorsi al Tar, un franco tiratore che accusava gli uffici della Provincia di aver fornito elenchi incompleti e diversi sui testi da studiare ed altro ancora (Il Tirreno, 6.05.1997). Sembrava di essere su Scherzi a parte.

Nonostante i nostri sforzi il corpo di polizia provinciale non poteva essere sufficiente a svolgere il delicato compito di tutela. Per questo, dopo accurato lavoro, il 19 giugno 1998 siglammo una convenzione con le associazioni venatorie, della pesca e dell’ambiente per un coordinamento provinciale delle Guardie Volontarie. Fu un’autentica pietra miliare per il controllo e la tutela del nostro territorio. Alcune di queste (le guardie ecologiche volontarie) furono assegnate ai vari ATC ed ai bacini idrici della provincia, con gli importanti compiti di fornire consulenze per la previsione dei rischi ambientali, per la salvaguardia del territorio e della salute pubblica, oltre ad informare sulla legislazione allora vigente in materia di tutela della fauna, della natura, del paesaggio e dell’ambiente. Non solo quindi repressione, ma soprattutto prevenzione in particolare rivolta a chi per trascuratezza, incuria e non conoscenza poteva compiere o compiva atti contro la natura. Era un “esercito di 254 guardie volontarie”, come titolava La Nazione del 20.06.1998.

 

⑫ BARBETTI SUONA LA TROMBA. Ruggini sulla caccia rimasero con il presidente della Federcaccia, Roberto Barbetti, che utilizzava ogni occasione per parlare male di me, Sammuri, della Provincia. Il 30 agosto 1998, denunciò “l’ennesima delusione sulla gestione del calendario venatorio nei tre anni di presidenza”. Partì da alcune questioni merito, “la chiusura al fagiano il 31 dicembre, l’apertura al colombo il 2 settembre, la chiusura al 29 dicembre, la discordanza sull’apertura della caccia al capriolo e al daino previste per il 1 agosto” per poi giungere al suo vero obiettivo. Siccome a suo dire l’amministrazione da me presieduta non aveva tenuto conto della volontà della maggioranza dei cacciatori (gli iscritti alla sua organizzazione) mi accusava di “una gestione verticistica della cosa pubblica”. “Prendiamo atto di ciò, augurandoci di discutere il prossimo calendario venatorio, il nuovo piano faunistico compresa la riduzione a due Atc, con nuovi amministratori, essendo vicino il rinnovo del consiglio provinciale”, nel corso del quale “sicuramente ci misureremo col consenso popolare, ritenendo di avere le carte in regola per partecipare alla gestione della cosa pubblica attraverso l’assemblea elettiva” (La Nazione, 3.08.1998).

Come è facile intuire, la mia risposta non fu meno polemica (Il Tirreno, 9.08.1998), anche se volta in primis a precisare le molte inesattezze contenute nell’intervista di Barbetti. La prima “falsità” era che la Provincia volesse ridimensionare la Federcaccia. Ma chi se ne fregava della ripartizione dei cacciatori tra le varie associazioni. Il calendario venatorio, poi, l’avevamo steso dopo aver consultato “una ventina di soggetti tra associazioni ed enti”. Inoltre non c’era nessuna apertura al colombaccio il 2 settembre, né la chiusura il 29 dicembre e l’apertura ritardata della caccia di selezione al capriolo dipendeva esclusivamente da un ritardo dell’efficacia della legge regionale. L’unica differenza di opinione riguardava “la chiusura della caccia al fagiano al 31 dicembre invece che al 31 gennaio” e su questo punto ricordai che, nel dicembre 1997, il 67% dei cacciatori grossetani e il 68% di quelli iscritti alla Federcaccia erano favorevoli alla chiusura della caccia al fagiano il 31 dicembre (utilizzando la ricerca Abacus).

Il motivo reale della nota di Barbetti era un altro: “Tutti i responsabili delle associazioni (agricole, ambientaliste e venatorie) sono uguali, ma uno, il presidente della Federcaccia, è più uguale degli altri, perché le sue posizioni sono ordini per le istituzioni e chi non s’adegua è un nemico da combattere”. E così conclusi: “Utilizzare il ruolo che si riveste per condurre battaglie che nulla hanno a che fare con quel ruolo, ma solo con ambizioni personali e di potere, è una cosa veramente disdicevole e, questa sì, da combattere duramente”. Amen. Come Piero Capponi, alle trombe di Barbetti-Carlo VIII opposi le nostre campane.

Ma non mi sfuggì che le campane stavano iniziando a suonare anche per me, e a morto. Infatti, la sproporzione della reazione del presidente della Federcaccia rispetto al banale punto di dissidio con noi, segnalava che era iniziata la guerra per la mia successione. Barbetti tutto era fuorché uno sprovveduto (a me stava anche simpatico ed era stato presente nella mia sede elettorale il giorno dello spoglio) anzi, era molto addentrato nella politica grossetana, specie nelle stanze sinistre. Quindi, o aveva carpito gli umori come un cane da tartufi o aveva avuto l’input da qualcuno di puntare la preda, come un cane da penna. E imbracciò il fucile. Poi si rese conto di averla fatta grossa e il 20 agosto, dopo aver detto che nelle loro stanze non si faceva politica, avanzò la proposta di costituire un tavolo di confronto tra le associazioni e la Provincia per discutere insieme i passaggi più importanti (Il Tirreno, 20.08.1998).

Ma il colpo era partito e si stava dirigendo verso di me per farmi fuori.

⑬ TUTELA, INCREMENTO E CONTROLLO DELL’ITTIOFAUNA. Ovviamente non c’era solo la caccia nei nostri interessi, ma anche la pesca, praticata da un discreto numero di persone nella provincia. Le esigenze di tutela dell’ittiofauna ci spinsero ad imporre i divieti di pesca in alcuni canali (collettore Molla) e fossi i cui corsi d’acqua si prestavano ottimamente, sia per condizioni ambientali che idrobiologiche, alla produzione di alcune specie ittiche come la Trota fario. Insieme al comune di Santa Fiora elaborammo e finanziammo, utilizzando fondi messi a disposizione dalla regione Toscana, un progetto volto alla reintroduzione della Trota macrostigma nella Peschiera e nell’alto bacino del Fiora, prevedendo anche un incubatoio per la sua riproduzione in cattività. Quella trota agiva da regolatore delle popolazioni di invertebrati nell’ecosistema acquatico ed era da sempre una delle prede più ambite dai pescatori sportivi.

Finanziammo importanti progetti. Ne cito alcuni: il progetto Ponte Tura nel comune di Grosseto; il Progetto Life per la progettazione ed esecuzione di interventi di ampliamento e gestione della parte salmastra della laguna di Orbetello; il progetto di studio sullo stato delle acque, la loro qualità, la presenza della fauna acquatica nei quattro principali fiumi della nostra provincia: Ombrone, Albegna, Farma, Merse. Oltre alla tutela, decidemmo anche di incrementare il patrimonio ittico delle acque interne che dal 1992 al 1994 era stato minacciato da lunghi periodi di siccità. Per questo acquistammo ingenti quantitativi di alcune specie ittiche (lucci, lucci adulti, trote piccole, trote adulte, barbi, eccetera) che immettemmo in acque pubbliche libere da pesca. 

La nostra Giunta deliberò la costituzione della nuova Consulta Provinciale della Pesca in acque pubbliche interne, con il compito di controllare e coordinare le azioni per la tutela della fauna ittica e la regolamentazione della pesca dilettantistica. Istituimmo anche un campo di gara permanente lungo il corso del fiume Albegna.

 

Sicuramente dimentico molte altre cose fatte durante la nostra legislatura (1995-1999), ma quelle dette mi sembrano più che sufficienti almeno per sostenere che ci impegnammo molto anche su questo fronte.