Grazie alla competenza dell’assessore Giampiero Sammuri rivoluzionammo anche quel mondo, abituato ai suoi riti e ai suoi re. Nonostante le fucilate del controrivoluzionario Barbetti
La caccia per me era un
problema, lo confesso, nonostante da bambino abbia avuto a casa mio zio
Claudio, un cacciatore a 40 carati, che rientrava spesso con tasche piene di
selvaggina e trascorso molti pomeriggi nel bar di mio zio Nazareno frequentato
da cacciatori, specie fiorentini, che sparavano anche alle mosche.
In campagna elettorale avevo
scritto una lettera ai cacciatori (è importante, mi fu detto) e con loro avevo
preso l’impegno di seguire direttamente la spinosa questione. Ma la cosa mi
preoccupava assai. Provvidenzialmente, una delle due candidature proposte dal
Pds per gli assessorati era Giampiero Sammuri, laureato in scienze biologiche e
dirigente delle risorse ambientali e faunistiche della provincia di Siena.
Tirai un respiro di sollievo e lo incaricai di occuparsene. Quando scrissi ai
cacciatori “me ne occuperò io”
intendevo soprattutto dire che saremmo
usciti dai rapporti privilegiati del passato, avremmo coinvolto la base e
provocato cambiamenti. Erano le stesse intenzioni di Giampiero.
Le associazioni dei
cacciatori di allora, Federcaccia, Liberacaccia, Italcaccia, Arci-caccia, con
Roberto Barbetti, Paolo Isidori, Romano Fanciulli, Euro Rocchi erano molto
attive. Specie Barbetti era un vero e proprio peperino. Credo che nel passato
fosse stato abituato dall’amministrazione provinciale a rapporti privilegiati,
quanto alle scelte di politica venatoria. Questi vertici rappresentavano una
vera e propria casta e taluno di loro millantava capacità di orientare voti da
una parte o dall’altra. Molte erano chiacchiere, ma un certo appeal lo avevano.
Noi invece intendevamo trattare tutti allo stesso modo: rapporti privilegiati
con nessuno, rispetto per tutti. Desideravamo condividere le decisioni, ma
partendo dal rispetto delle regole. Le scelte poi le avremmo compiute nella
sede deputata, il consiglio provinciale. Scegliemmo anche di coinvolgere la
base dei cacciatori, allora stimabili in circa 11.000 persone, sia per sentire
il loro parere sulle nostre proposte di cambiamento, sia – detto tra noi – per
scavalcare la casta venatoria.
Della
nostra politica venatoria se ne occupava Sammuri, ma io intervenni a dare il
placet o il non placet nei momenti decisivi e in quelli delicati, nei quali la
polemica si fece rovente. Presi parte a diversi incontri
territoriali nei quali imparai a conoscere i cacciatori. Oltre ad essere il
Presidente e, quindi, a dovermi assumere in primis le responsabilità delle
scelte di fondo, non trascuravo minimamente il valore di questa attività e mi
feci sempre più convinto di quanta importanza avesse per le persone che la
praticavano. Ho visto cacciatori piangere e – come detto in un precedente post
– ho ricevuto anche un avviso di garanzia per le boiate del responsabile di
un’azienda venatoria.
• Ma cosa voleva dire che la
Provincia si occupava di caccia? Molto di più di quanto si potesse pensare. Significava occuparsi della gestione
faunistica del territorio, dell’attività di vigilanza, del miglioramento degli
habitat e del ripopolamento della fauna selvatica. Tutto apparentemente
semplice, ma in realtà complesso e delicato. Nei quattro anni elaborammo
programmi per centinaia di milioni. Tanto per fare un esempio, perché ho ancora
i dati, negli anni 1996 e 1997 presentammo progetti per 2 miliardi e 300
milioni di lire.
Per quello che riguardava la
gestione faunistica decidemmo – come detto – di promuovere il cambiamento,
adeguandoci intelligentemente alle leggi nazionali (157 del 1992 e 3 del 1994)
e alla delibera della regione Toscana 292 del 1994.
① L’ABACUS SULLE TRACCE
DELLE ABITUDINI DEI CACCIATORI. Lo facemmo intanto andando a saggiare le
opinioni della base dei cacciatori, visto che le litanie dei vertici le
conoscevamo anche troppo bene. Commissionammo un’indagine alla società Abacus
sui comportamenti di caccia e sulle opinioni relative ad alcune proposte di
modifica delle modalità di caccia dei cacciatori grossetani. Furono
intervistati 1.000 cacciatori, selezionati tra un elenco di 14.000. Avevamo
bisogno di giungere ad una programmazione dell’attività venatoria che tendesse
ad una diversa distribuzione dei cacciatori sul territorio, in modo da limitare
il nomadismo e riequilibrare la pressione venatoria tra i vari territori.
Ricevemmo risposte confortanti.
② IL TERRITORIO SUDDIVISO IN
TRE ATC. La nostra prima mossa riguardò gli ATC. Dopo una seria concertazione
con le associazioni venatorie suddividemmo il territorio in 3 Ambiti
Territoriali di Caccia (ATC) che finanziammo regolarmente tutti gli anni. Per
ciascuno di questi nominammo un comitato di gestione formato dai rappresentanti
delle associazioni dei cacciatori, degli agricoltori, delle associazioni
ambientaliste e della Provincia. Fu un’operazione sensata ed equilibrata e
nonostante ciò scatenò le contrarietà di qualche associazione venatoria e le
ire di alcuni cacciatori che giunsero addirittura – come ho già detto – a
minacciare me e la mia famiglia. Roba da matti.
③ LE NUOVE REGOLE PER LA
CREAZIONE E LA GESTIONE DEGLI ISTITUTI FAUNISTICI. La seconda mossa riguardava
la definizione di nuove regole per la creazione e la gestione degli istituti
faunistici sia pubblici che privati. Le nuove regole erano necessarie nel
rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione perché, sino ad allora, nelle
materie che riguardavano le Zone di Ripopolamento e Cattura della fauna
selvatica (Zrc), le Aziende Faunistico Venatorie (Afv) e le Aziende
Agrituristico (o turistico) Venatorie (Atv) della provincia di Grosseto, molto
era stato lasciato alla discrezionalità degli amministratori. Cioè, poche
assolvevano alle indicazioni previste dalla delibera regionale 292 del 1994 e
noi non potevamo, né volevamo, far finta di niente, anche perché la situazione
era veramente confusa se non vicina allo sfascio. I precedenti amministratori a
circa un anno dalle elezioni, non avevano avuto il fegato di toccare la caccia.
La questione era, però, delicata anche perché andavamo a toccare interessi
economici di tutto rilievo. Circolavano dati (approssimativi) sull’attività
delle aziende private: dicevano che in esse trovavano accoglienza circa 25.000
presenze di cacciatori, con un fatturato presumibile di oltre 3 miliardi annui
e decine di posti di lavoro. Senza considerare l’indotto: ristorazione,
permanenza nelle aziende agrituristiche e acquisto dei prodotti della terra.
La
non facile operazione di cambiamento la preparammo in modo certosino e culminò
nel seminario del 5 novembre 1996 al Granduca, con la presenza dei
dirigenti regionali delle organizzazioni venatorie (Massimo Cucchi, Massimo
Logi, Leo Francini, Graziano Meoni), di quelle agricole (Maria Pia Mancini,
Massimo Pacetti, Francesco Pastorino), di quelle ambientaliste (Fulvio
Fraticelli, Armando Garibaldi, Susanna D’Antoni). Per l’università erano
presenti i professori Massimo Tocchini, Sandro Lovari, Luigi Boitani. Invitammo
quel livello di persone anche perché limitandoci ai responsabili locali il
dibattito sarebbe stato asfittico e poco costruttivo. Tutti, anche i
responsabili del mondo venatorio, espressero un giudizio positivo sia sul
merito delle nostre proposte che sul metodo, sollecitando solo di apportare
alcune modifiche per rendere i Regolamenti più efficaci nell’applicazione e
gestione.
• Le Zone di Ripopolamento e Cattura erano strutture pubbliche
finalizzate alla riproduzione di alcune specie selvatiche (lepre, starna,
pernice rossa e fagiano) che venivano poi catturate e reimmesse nel territorio
a disposizione dei cacciatori. Noi intendevamo favorire la costituzione di
queste zone, puntando alla loro massima qualificazione, anche attraverso
interventi di ripristino ambientale. Secondo le nuove regole ogni Zrc (ne esistevano
42) avrebbe dovuto avere una superficie minima di 600 ettari (500 in collina) e
per la nuova istituzione e il rinnovo di quelle esistenti si prevedevano una
serie di caratteristiche ambientali vincolanti. Non potevano inoltre essere
istituite in zone che la Regione definiva vocate al cinghiale. Tra le
attenzioni del nostro regolamento c’era l’opera di salvaguardia delle
produzioni agricole anche attraverso il controllo della fauna selvatica in
eccesso.
• Le Aziende Faunistico Venatorie erano 27 e avevano le stesse finalità
della Zrc, ma erano strutture private, gestite dal concessionario, nelle quali
era consentita anche la caccia. Qui oltre alle specie producibili previste per
le Zrc, trovavano spazio anche la lepre, il capriolo e il muflone, là dove
esisteva. Le Afv avrebbero dovuto avere una superficie minima di 400 ettari
(1000 se era prevista la produzione di ungulati) e, per ottenere la
concessione, gli interessati avrebbero dovuto presentare un piano di gestione
ambientale dettagliato, con tanto di cartografia tematica, descrizione delle
caratteristiche territoriali, scelta delle specie di indirizzo, valutazione
della presenza delle specie riproducibili. Ed anche un progetto di recupero e
valorizzazione ambientale. Per i concessionari delle Afv, come per le Zrc,
erano previsti particolari incentivi relativi ad interventi per fini
naturalistici. I finanziamenti sarebbero stati concessi ai proprietari o ai
conduttori dei fondi all’interno dei quali fosse stata accertata la presenza di
mammiferi o uccelli appartenenti a specie protette o inserite negli appositi
elenchi europei.
• Le 11 Aziende Turistico o Agrituristico Venatorie erano strutture private
con una superficie che poteva andare dai 200 ai 500 ettari, consentite dalla
legge con finalità di recupero e di valorizzazione di imprese agricole situate
in aree svantaggiate o dichiarate marginali ai sensi degli interventi
comunitari. Qui la caccia entrava a far parte dell’attività agrituristica, con
un vantaggio economico immediato per i concessionari. Nessuna finalità
naturalistica dunque, ma solo la possibilità di aumentare la redditività di
alcune aziende agricole. Infatti chiedemmo, per la concessione delle licenze,
un ritorno in termini occupazionali (l’occupazione, il nostro costante assillo).
Intendevamo valorizzare le
produzioni di fauna selvatica di qualità che si riproducesse in libertà e non
negli allevamenti. E i problemi principali delle Zrc e delle Afv erano
l’ubicazione, che spesso interessava territori non idonei, e l’eccessiva burocratizzazione
della loro gestione che noi volevamo snellire. Insomma, eravamo intenzionati ad
esaltare l’immagine di una provincia dal
territorio sano, anche attraverso la regolamentazione delle attività faunistico
venatorie. Se quindi le strutture faunistico venatorie ci qualificavano,
allora – come diceva Sammuri – occorreva che le regole fossero chiare.
Non avevamo ancora
definitivamente approvato le nuove norme, che già iniziarono a fischiare
pallottole. Tra le associazioni venatorie avemmo il plauso dell’Arci-Caccia e
la contrarietà delle altre associazioni. “Sulla
caccia è guerra aperta” titolava Il Tirreno del 31 dicembre 1996 e
continuava con il presidente Rocchi che diceva “Siamo sulla buona strada” e i responsabili grossetani di
Federcaccia, Liberacaccia e Italcaccia che invece parlavano di “Novità contestabili”. Addirittura,
secondo la triplice, con i nostri Regolamenti saremmo andati oltre la legge
nazionale e la delibera regionale. Opinioni tutte opinabili, ma che a ben
vedere, risentivano in parte della collocazione politica dei responsabili delle
associazioni e del fatto che qualcuno non era più considerato il principe del
foro. Ci attaccò pure il cosiddetto consigliere verde Guido Ceccolini, che di
lì a poco sarebbe uscito dalla nostra maggioranza (anche per divergenze sulla
Diaccia Botrona e praticamente su tutto), secondo il quale con la nostra
riforma avremmo danneggiato l’ambiente e addirittura avrebbero dovuto chiudere
un sacco di Aziende Faunistico Venatorie. Il tempo ha poi dimostrato l’inconsistenza
di quella contestazione, anche se molte di queste dovettero adeguarsi, come era
giusto e doveroso, alle nuove regole, ciò a dire alla legge nazionale e
regionale.
④ LA CACCIA DI SELEZIONE.
Mentre nelle passate stagioni venatorie il contenimento delle varie specie di
fauna selvatica avveniva con l’aiuto di cacciatori indicati dai proprietari o
dai conduttori dei terreni, noi decidemmo
di formare direttamente i cacciatori.
Realizzammo corsi per la preparazione dei cacciatori
alle azioni di contenimento della fauna in eccesso (cinghiale, volpe, storno,
nutria, passeri, corvidi) e per gli interventi di caccia di selezione al
capriolo e al daino. Coinvolsero un migliaio di cacciatori abilitati a svolgere
un servizio necessario a mantenere un buon equilibrio di fauna selvatica nel
nostro territorio, sotto il controllo delle guardie provinciali (1270
cacciatori fecero domanda e gli abilitati furono 900 per la caccia di
contenimento e 99 per la caccia di selezione).
Per agevolare i cacciatori abilitati, eliminammo i tempi burocratici
attivando un nuovo sistema di teleprenotazione degli interventi di
abbattimento. Si passò dai 15-30 giorni del passato ad un preavviso di 48 ore.
Anche su questo ricevemmo le
critiche dell’amico verde Ceccolini che parlava un po’ confusamente di caccia
in estate, di strage dei nidi, di interventi di contenimento con le gabbie
Larsen, del rischio di colpire gufi e rapaci diurni. Gli rispose Sammuri con un
intervento pepato ne La Nazione del 23 giugno 1997, ricordando che: “quella estiva non era caccia ma
contenimento della fauna selvatica in eccesso”, i cui piani “richiedono il parere dell’Istituto
Nazionale della Fauna selvatica di Bologna alle cui indicazioni la Provincia di
Grosseto si è uniformata”. Inoltre che “gli
interventi proposti sono altamente selettivi e l’intervento ai nidi è solo
residuale”. Quanto alla cattura con le gabbie Larsen, essa “non offre risultati soddisfacenti”.
Riguardo al rischio di colpire involontariamente altre specie, “esiste nel disciplinare autorizzato la
prescrizione di accertarsi visivamente della specie presente nel nido”.
Ricordò infine che i piani di contenimento riguardavano solo le Zone di
Ripopolamento e Cattura che coprivano il 7% del territorio provinciale.
⑤ LE AREE VOCATE E I CORSI
DI ABILITAZIONE ALLA CACCIA AL CINGHIALE. Iniziammo anche a rivedere le aree
vocate alla caccia al cinghiale, per riportarle entro i parametri indicati
negli indirizzi regionali di programmazione faunistico venatoria. Predisponemmo
il programma didattico dei corsi di formazione e specializzazione per
l’abilitazione alla caccia al cinghiale in battuta. Provvedemmo, nel primo
periodo, anche all’assegnazione dei territori di caccia al cinghiale alle
squadre che ne avevano fatto domanda, chiedendo alla regione Toscana una deroga
per l’iscrizione di squadre composte da un numero di cacciatori inferiore a 40
prevista dal Regolamento, per poter ridurre tale limite a 25 cacciatori. Il
numero totale dei cacciatori di cinghiale era di 8.000, un esercito.
⑥ I DIVIETI DI CACCIA. Nel
1997 sottoponemmo a verifica gli istituti dei divieti di caccia (28 in
quell’anno). Analizzammo caso per caso gli istituti (per loro natura
temporanei) e, ove possibile, li trasformammo in altri istituti duraturi (Oasi,
Area protetta, Zrc). Dove non fu possibile, liberalizzammo l’attività
venatoria.
⑦ LA LIQUIDAZIONE DEI DANNI
ALLE PRODUZIONI AGRICOLE. La giustificata lamentela degli agricoltori giungeva
spesso alle nostre orecchie e noi, tutti gli anni, provvedemmo ad accertare i
danni arrecati dalla selvaggina ed a liquidare il dovuto, in percentuale del
90% rispetto all’accertato.
⑧ IL CENTRO DI RIPRODUZIONE
DELLA SELVAGGINA E DI ALLEVAMENTO DELLE LEPRI. Attivammo progetti pilota per la
produzione e il ripopolamento della selvaggina offrendo certezza gestionale e
sviluppo al Centro per la riproduzione della selvaggina di Scarlino e aiuti al
nostro Centro di allevamento delle lepri a Civitella Paganico. Con il primo
progetto ci proponevamo di ricostruire una popolazione vitale di pernice rossa
nel nostro territorio. Con il secondo fu avviato uno studio relativo alle
tecniche di alimentazione e di allevamento della Lepre di Montalto.
⑨ I NIDI DI ALBANELLA
MINORE. Con il progetto di salvaguardia e censimento dei nidi di albanella
minore, puntammo a tutelare un rapace la cui permanenza nel nostro territorio
era considerata molto importante nel quadro dell’avifauna locale.
⑩ IL CENTRO RECUPERO ANIMALI SELVATICI DI SEMPRONIANO. In collaborazione con il WWF creammo a Semproniano un Centro di ricerca e di monitoraggio sulla fauna, il Centro Recupero Animali Selvatici della Maremma (Crasm). Nacque con il riutilizzo di voliere in pieno stato di abbandono, convertite in aree di accoglienza per la fauna soccorsa dai cittadini (compresi i mammiferi). Centro importante anche per l’azione di monitoraggio e di prevenzione sanitaria di malattie che si sviluppano in animali selvatici e possono diffondersi con facilità (in collaborazione con le Università di Perugia e Pisa). Ed anche perché divenne la sede di un importante progetto finalizzato alla reintroduzione del capovaccaio, una particolare specie di avvoltoio dal piumaggio bianco, rarissimo in Italia.
⑪ LA RIFORMA DEL CORPO DI
POLIZIA PROVINCIALE E L’ESPANSIONE DEL CORPO DI VIGILANZA VOLONTARIA. Il nostro
corpo di Polizia, pur essendo limitato nel numero, operava costantemente a
tutela del patrimonio faunistico. In particolare, nell’ambito di operazioni di
bracconaggio riuscì a concludere positivamente diverse azioni, anche in
collaborazione con le guardie venatorie volontarie. Io espressi a più riprese
la necessità di riorganizzare il nostro corpo e la struttura Sviluppo e tutela
del territorio della Provincia provvide ad una riforma che andava nella giusta
direzione, per la quale il consigliere di minoranza, Gino Maccioni, fece le sue
rimostranze e chiese spiegazioni, lasciando intendere, tra l’altro, che avevamo
provveduto ad alcuni trasferimenti punitivi nei confronti di due vigili perché
avevano partecipato insieme alla Procura ad indagini che avevano condotto alla
sospensione temporanea di concessioni ad alcune aziende faunistico venatorie.
Una stupidaggine naturalmente. In quella circostanza colsi l’occasione per
precisare che le 15 sospensioni delle concessioni dal ’95 a quel momento erano
state tutte emesse in seguito a segnalazioni fatte proprio dal nostro servizio
Conservazione della natura (La Nazione, 1.12.1997). Ricordo anche che quando si
indisse il concorso per l’assunzione di
nuove guardie questo ebbe un iter a dir poco travagliato: l’infortunio di
una candidata, la malattia di un commissario, ricorsi al Tar, un franco
tiratore che accusava gli uffici della Provincia di aver fornito elenchi
incompleti e diversi sui testi da studiare ed altro ancora (Il Tirreno,
6.05.1997). Sembrava di essere su Scherzi a parte.
Nonostante i nostri sforzi
il corpo di polizia provinciale non poteva essere sufficiente a svolgere il
delicato compito di tutela. Per questo, dopo accurato lavoro, il 19 giugno 1998 siglammo una convenzione
con le associazioni venatorie, della pesca e dell’ambiente per un coordinamento
provinciale delle Guardie Volontarie. Fu un’autentica pietra miliare per il
controllo e la tutela del nostro territorio. Alcune di queste (le guardie
ecologiche volontarie) furono assegnate ai vari ATC ed ai bacini idrici della
provincia, con gli importanti compiti di fornire consulenze per la previsione
dei rischi ambientali, per la salvaguardia del territorio e della salute
pubblica, oltre ad informare sulla legislazione allora vigente in materia di tutela
della fauna, della natura, del paesaggio e dell’ambiente. Non solo quindi
repressione, ma soprattutto prevenzione in particolare rivolta a chi per
trascuratezza, incuria e non conoscenza poteva compiere o compiva atti contro
la natura. Era un “esercito di 254
guardie volontarie”, come titolava La Nazione del 20.06.1998.
⑫ BARBETTI SUONA LA TROMBA.
Ruggini sulla caccia rimasero con il presidente della Federcaccia, Roberto
Barbetti, che utilizzava ogni occasione per parlare male di me, Sammuri, della
Provincia. Il 30 agosto 1998, denunciò “l’ennesima
delusione sulla gestione del calendario venatorio nei tre anni di presidenza”.
Partì da alcune questioni merito, “la
chiusura al fagiano il 31 dicembre, l’apertura al colombo il 2 settembre, la
chiusura al 29 dicembre, la discordanza sull’apertura della caccia al capriolo
e al daino previste per il 1 agosto” per poi giungere al suo vero
obiettivo. Siccome a suo dire l’amministrazione da me presieduta non aveva
tenuto conto della volontà della maggioranza dei cacciatori (gli iscritti alla
sua organizzazione) mi accusava di “una
gestione verticistica della cosa pubblica”. “Prendiamo atto di ciò, augurandoci di discutere il prossimo calendario
venatorio, il nuovo piano faunistico compresa la riduzione a due Atc, con nuovi
amministratori, essendo vicino il rinnovo del consiglio provinciale”, nel
corso del quale “sicuramente ci
misureremo col consenso popolare, ritenendo di avere le carte in regola per
partecipare alla gestione della cosa pubblica attraverso l’assemblea elettiva”
(La Nazione, 3.08.1998).
Come è facile intuire, la
mia risposta non fu meno polemica (Il Tirreno, 9.08.1998), anche se volta in
primis a precisare le molte inesattezze contenute nell’intervista di Barbetti.
La prima “falsità” era che la Provincia
volesse ridimensionare la Federcaccia. Ma chi se ne fregava della ripartizione
dei cacciatori tra le varie associazioni. Il calendario venatorio, poi,
l’avevamo steso dopo aver consultato “una
ventina di soggetti tra associazioni ed enti”. Inoltre non c’era nessuna
apertura al colombaccio il 2 settembre, né la chiusura il 29 dicembre e
l’apertura ritardata della caccia di selezione al capriolo dipendeva
esclusivamente da un ritardo dell’efficacia della legge regionale. L’unica
differenza di opinione riguardava “la
chiusura della caccia al fagiano al 31 dicembre invece che al 31 gennaio” e
su questo punto ricordai che, nel dicembre 1997, il 67% dei cacciatori
grossetani e il 68% di quelli iscritti alla Federcaccia erano favorevoli alla
chiusura della caccia al fagiano il 31 dicembre (utilizzando la ricerca
Abacus).
Il
motivo reale della nota di Barbetti era un altro: “Tutti i responsabili delle associazioni (agricole, ambientaliste e
venatorie) sono uguali, ma uno, il presidente della Federcaccia, è più uguale
degli altri, perché le sue posizioni sono ordini per le istituzioni e chi non
s’adegua è un nemico da combattere”. E così conclusi: “Utilizzare il ruolo che si riveste per condurre battaglie che nulla
hanno a che fare con quel ruolo, ma solo con ambizioni personali e di potere, è
una cosa veramente disdicevole e, questa sì, da combattere duramente”.
Amen. Come Piero Capponi, alle trombe di Barbetti-Carlo VIII opposi le nostre
campane.
Ma
non mi sfuggì che le campane stavano iniziando a suonare anche per me, e a
morto. Infatti, la sproporzione della reazione del presidente
della Federcaccia rispetto al banale punto di dissidio con noi, segnalava che era iniziata la guerra per la mia
successione. Barbetti tutto era fuorché uno sprovveduto (a me stava anche
simpatico ed era stato presente nella mia sede elettorale il giorno dello
spoglio) anzi, era molto addentrato nella politica grossetana, specie nelle
stanze sinistre. Quindi, o aveva carpito
gli umori come un cane da tartufi o aveva avuto l’input da qualcuno di puntare
la preda, come un cane da penna. E imbracciò il fucile. Poi si rese conto
di averla fatta grossa e il 20 agosto, dopo aver detto che nelle loro stanze
non si faceva politica, avanzò la proposta di costituire un tavolo di confronto
tra le associazioni e la Provincia per discutere insieme i passaggi più
importanti (Il Tirreno, 20.08.1998).
Ma il colpo era partito e si stava dirigendo verso di me per farmi fuori.
⑬ TUTELA, INCREMENTO E
CONTROLLO DELL’ITTIOFAUNA. Ovviamente non c’era solo la caccia nei nostri
interessi, ma anche la pesca, praticata
da un discreto numero di persone nella provincia. Le esigenze di tutela
dell’ittiofauna ci spinsero ad imporre i divieti di pesca in alcuni canali
(collettore Molla) e fossi i cui corsi d’acqua si prestavano ottimamente, sia
per condizioni ambientali che idrobiologiche, alla produzione di alcune specie
ittiche come la Trota fario. Insieme al comune di Santa Fiora elaborammo e
finanziammo, utilizzando fondi messi a disposizione dalla regione Toscana, un
progetto volto alla reintroduzione della Trota macrostigma nella Peschiera e
nell’alto bacino del Fiora, prevedendo anche un incubatoio per la sua
riproduzione in cattività. Quella trota agiva da regolatore delle popolazioni
di invertebrati nell’ecosistema acquatico ed era da sempre una delle prede più
ambite dai pescatori sportivi.
Finanziammo importanti
progetti. Ne cito alcuni: il progetto
Ponte Tura nel comune di Grosseto; il Progetto
Life per la progettazione ed esecuzione di interventi di ampliamento e
gestione della parte salmastra della laguna di Orbetello; il progetto di studio sullo stato delle acque,
la loro qualità, la presenza della fauna acquatica nei quattro principali fiumi
della nostra provincia: Ombrone, Albegna, Farma, Merse. Oltre alla tutela,
decidemmo anche di incrementare il
patrimonio ittico delle acque interne che dal 1992 al 1994 era stato
minacciato da lunghi periodi di siccità. Per questo acquistammo ingenti
quantitativi di alcune specie ittiche (lucci, lucci adulti, trote piccole,
trote adulte, barbi, eccetera) che immettemmo in acque pubbliche libere da pesca.
La nostra Giunta deliberò la
costituzione della nuova Consulta
Provinciale della Pesca in acque pubbliche interne, con il compito di
controllare e coordinare le azioni per la tutela della fauna ittica e la
regolamentazione della pesca dilettantistica. Istituimmo anche un campo di gara permanente lungo il corso
del fiume Albegna.
Sicuramente dimentico molte altre cose fatte durante la
nostra legislatura (1995-1999), ma quelle dette mi sembrano più che sufficienti
almeno per sostenere che ci impegnammo molto anche su questo fronte.
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