martedì 11 gennaio 2022

POST 69 – IL DISTRETTO RURALE, LA TERZA RIVOLUZIONE DELLA MAREMMA DOPO LA BONIFICA E LA RIFORMA AGRARIA

Fu ideato e realizzato grazie all’assessore Alessandro Pacciani. Partendo dalla debolezza storica dell’area maremmana trovammo la forza propulsiva di un nuovo sviluppo. La regione Toscana riconobbe il distretto ma lo sterilizzò, peccato. Eppure sarebbe ancora di straordinaria attualità

Normalmente nei miei post parto in medias res e non ab ovo. In questo caso faccio un’eccezione e inizio con un preambolo. Il preambolo ha un nome: Alessandro Pacciani, allora professore ordinario di economia politica agraria alla Facoltà di Economia di Firenze e direttore dell’osservatorio dell’economia agraria della Toscana. Come detto nel post n. 46, lo tirai fuori dal cappello come un prestigiatore; la sorpresa fu molta, alcuni manifestarono fastidio perché non consultai nessuno e non era della provincia, ma il suo curriculum lo rendeva inattaccabile. Fu un’illuminazione. Con lui fu possibile da subito far fronte ad alcune situazioni di crisi piuttosto acute, penso al settore lattiero-caseario (ma non solo) e soprattutto ci rendemmo conto che la provincia di Grosseto pur presentandosi, nel panorama toscano, coma l’area agricola forte, doveva iniziare a intraprendere strade innovative che le potessero consentire di avere un ruolo di primo piano anche nell’immediato futuro.

① Avevamo bisogno di QUALCOSA DI FORTE, perché, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, il territorio provinciale – come ho già segnalato del post n. 52 – era caratterizzato da indicatori e situazioni negative: un tasso di disoccupazione molto più alto della media regionale, un fortissimo impoverimento delle risorse umane nelle aree interne e montane, un turismo monotematico e stagionale, la irreversibile crisi delle attività minerarie e la difficoltà di riconversione produttiva anche in ragione del deficit infrastrutturale e delle comunicazioni. Inoltre un’agricoltura che incontrava difficoltà a diversificarsi, con un tessuto della cooperazione di servizio che rischiava il collasso per effetto anche di una politica agricola europea che frenava la crescita dell’imprenditorialità. Sempre in quegli anni si stavano raccogliendo i cocci del Progetto Amiata mai decollato e si registrava la mancata realizzazione dell’invaso Farma-Merse. Tra l’altro, il territorio provinciale non aveva saputo, per arretratezza culturale, o potuto, per emarginazione fisica, cavalcare i precedenti anni dell’industrializzazione diffusa propria del modello toscano, generando un’immagine negativa di se stesso (Alessandro Pacciani e Daniela Toccaceli, 2010).

Cosa fare per non assistere passivamente al declino?

Le due principali azioni che intraprendemmo furono la realizzazione del Patto Territoriale per lo Sviluppo della Maremma Grossetana e la progettazione della MAREMMA DISTRETTO RURALE. Del primo parlerò più avanti, il secondo scontava una difficoltà di partenza: quel termine rurale proprio non andava giù a molti. Lo spazio rurale era divenuto una categoria residuale e lo stesso concetto rurale veniva spesso definito in negativo, correlato a non urbano, quindi isolato, disperso, arretrato, tradizionale, povero. Era molto peggio di un’obbligazione subordinata di oggi. Ma grazie alla guida di Pacciani ci incamminammo in quel sentiero e, tra l’altro, nella riorganizzazione dell’ente Provincia di quegli anni cambiai il nome del settore Agricoltura in Sviluppo rurale. Piccolissima cosa, ma significativa della nostra volontà, anche se i conservatori continuarono a chiamarlo ufficio e settore agricoltura. Cambiare le strutture è più facile che cambiare le teste.

Ad esser sinceri, le prime intuizioni ci avevano preceduto e sono rintracciabili nel contributo della Federazione Lavoratori Agro Industria della CGIL del 1993 e nel Progetto per il Sistema di Qualità Maremma predisposto nell’ambito dell’Iniziativa Comunitaria Leader II dal settore agricoltura della stessa Provincia.

② Fu però nella legislatura 1995-99 che prese forza l’idea della Maremma Distretto Rurale d’Europa ed ebbe una prima importante condivisione nella I Conferenza Provinciale del 1996, che, non a caso, ebbe come slogan La Terra Promessa. La definitiva consacrazione ci fu con la II Conferenza Provinciale del 1998 dove furono presentate e discusse le linee programmatiche ed operative del Distretto Rurale e individuati gli assi di intervento su cui far confluire tutti gli strumenti finanziari. E candidammo formalmente la Provincia di Grosseto a Distretto Rurale. Dal 13 al 16 maggio 1999 a Grosseto, nella Conferenza europea organizzata da ECOVAST (European Council for the Village and Small Town) dal titolo Tendenze globali e risposte locali, tenemmo a battesimo il Distretto della Maremma nel contesto europeo. Si registrò un generale riconoscimento dell’originalità dell’impostazione progettuale, legata al tentativo di disegnare una strategia unitaria intorno al mondo rurale. La candidatura del Distretto rurale riuscì ad avere il riconoscimento della Giunta regionale toscana, in via sperimentale, nel giugno 2002. La cosa fece scuola a tal punto che altre zone toscane seguirono la nostra idea e condusse la stessa Regione Toscana a disciplinare la costituzione dei distretti rurali con Legge 21/2004. L’approvazione definitiva infine avvenne nell’ottobre 2006.

③ QUALE ERA L’INTUIZIONE ALLA BASE DEL DISTRETTO RURALE?

Era quella che non bastasse più parlare semplicemente di agricoltura, ma che fosse necessario ragionare e programmare in termini di Sviluppo Rurale Integrato. L’obiettivo politico che avevamo in mente, detto in soldoni, era quello di mantenere i presìdi umani sul territorio e far tornare attraente vivere in un territorio rurale. Obiettivo che non era più raggiungibile alla vecchia maniera, ma richiedeva un approccio nuovo che individuammo, appunto, nello sviluppo rurale integrato. Esso era, infatti, uno sviluppo di tipo territoriale (piuttosto che settoriale) che si manifestava attraverso una pluralità di settori e ambiti d’intervento: le infrastrutture, i servizi, l’ambiente, il turismo, il patrimonio culturale, artistico e paesaggistico, la creazione di nuove professionalità, l’artigianato, la trasformazione dei prodotti della natura, gli aspetti sociali.

Pacciani lo esplicitò con chiarezza nella I Conferenza Provinciale del 1996. Dichiarò che quel disegno si poneva “l’obiettivo di valorizzare le tipologie aziendali capaci di integrare le tradizionali attività di produzione con altre collegate all’industria alimentare, ai servizi e all’artigianato locale, attente agli aspetti ambientali e disponibili a far proprie le tecniche agronomiche più rispettose dell’ambiente e del paesaggio, in grado di raccordare il territorio con le attività turistiche, la caccia e la pesca, le attività sportive e ricreative, orientate alla produzione di prodotti e servizi di qualità tipici”.

Quindi, in realtà, gli obiettivi erano molteplici.

• Dal punto di vista del SETTORE AGRICOLO in senso stretto, l’obiettivo era quello di migliorare il reddito e il tenore di vita delle imprese professionali, razionalizzando e innovando l’organizzazione economica e integrando la produzione con le attività a monte (fornitori di beni e servizi) e a valle (trasformazione e distribuzione dei prodotti) in una logica di filiera produttiva. Come pure quello di favorire l’innovazione di processo e di prodotto con particolare riguardo alle tecnologie e alle produzioni eco-compatibili e di salvaguardare e qualificare l’occupazione attraverso il ricambio generazionale e l’accentuazione dell’imprenditorialità.

 

• Sul versante dello SVILUPPO RURALE in generale, gli obiettivi erano vari. Dalla produzione di qualità ambientale e territoriale quale nuova misura del livello di benessere alla promozione di attività economiche distribuite sul territorio, quali i turismi alternativi e integrativi a quello balneare: termale, culturale, religioso e montano (strade del vino e della gastronomia, sentieristica attrezzata per turismo equestre, trekking, cicloturismo, pesca sportiva, caccia, ecc.). Ma anche la valorizzazione del territorio e dell’ambiente come risorse economiche plurifunzionali strategiche e coerenti con un bisogno di ricomposizione unitaria del paesaggio, delle sedimentazioni storiche (centri storici e insediamenti agricoli), dei parchi, delle riserve naturali, delle attività agricole, turistiche, artigianali, commerciali e anche industriali. Infine, il riequilibrio territoriale attraverso il coordinamento delle iniziative degli Enti Locali e la sollecitazione della solidarietà tra aree deboli e aree forti della provincia.

• Insomma proponevamo uno SVILUPPO DI TIPO ALTERNATIVO, “fondato sul recupero e sul rafforzamento dei legami tra agricoltura, territorio e ambiente, basato su produzioni e servizi di qualità, sul rispetto del paesaggio e delle risorse produttive” e che faceva leva “sulla cultura e la tradizione locale” e, quindi, sull’immagine complessiva del territorio. Alternativo a cosa? “Al modello tendenziale, imperniato sulla produzione e il consumo di massa di prodotti standardizzati”, che comportava sul fronte industriale “l’affermazione delle imprese di grandi dimensioni” che adottavano processi industriali ad elevata intensità di capitale e sul fronte agricolo “l’estensione dei metodi di produzione meccanizzati ad alto impiego di input” di energia ausiliaria, fertilizzanti e pesticidi di sintesi, combustibili fossili, ecc. (sempre Alessandro Pacciani, alla citata Conferenza provinciale). Gli effetti negativi sull’agricoltura di elevati livelli di input erano palesi: una minore diversificazione dei prodotti, le eccedenze produttive, minore salvaguardia ambientale, minore fertilità del terreno, minore salubrità dei prodotti. Quindi svantaggi per l’uomo, per la società, per il bilancio aziendale, per l’agroindustria. La nostra proposta voleva anche contrastare quegli effetti nefasti.

In questo rinnovato contesto il TERRITORIO assumeva un ruolo sempre più strategico come àmbito della pianificazione dello spazio rurale nel quale attuare lo sviluppo rurale integrato. Ciò mediante il cambiamento del suo ruolo – in sintonia con l’impostazione europea di allora (dalla Carta Rurale Europea alla Conferenza di Cork sullo sviluppo rurale del 1996) – da sede fisica (contenitore di interventi edilizi, infrastrutturali, dello sviluppo) a fattore che consentisse la verifica della qualità dello sviluppo e del suo impatto sulla vita della gente.

 

④ UNA SCELTA DI POLITICA ECONOMICA PER IL CAMBIAMENTO. La nostra, insomma, non fu solo un’azione di pura economia agraria, ma di vera e propria politica economica. Dalla debolezza storica di origine dell’area maremmana volevamo trarre la forza propulsiva di un nuovo sviluppo, agganciato anche alle mutate esigenze di tipo consumistico. Trovare la forza nella debolezza. Sembrava quasi un paradosso evangelico, ma noi ci puntammo le nostre fiches. In questi termini non furono molti quelli che la compresero. C’era molta ignoranza e approssimazione e difficilmente si era disponibili a muoversi dall’acquisito: un bel pezzo di mondo agricolo, pure in crisi, ad iniziare dai vertici, non voleva cambiare. Figurarsi, ad esempio chi conosceva il decalogo di Cork e i tre appellativi che definivano concettualmente e tracciavano la metodologia operativa dello sviluppo rurale: endogeno, integrato, sostenibile. Noi, invece, li avevamo conosciuti, grazie a Pacciani, e facendovi leva volevamo cambiare quasi tutto, senza disperdere, anzi, valorizzando il patrimonio di conoscenze umane presente nei sistemi produttivi agricoli o agro-industriali del passato.

 

Nell’introduzione alla I Conferenza Provinciale del 1996, dovendo semplicemente portare i saluti dell’amministrazione provinciale (la relazione strategica competeva all’assessore Pacciani) parlai proprio della battaglia per il cambiamento, ampliando lo sguardo all’Italia. “Al di là delle apparenze, è in atto una formidabile lotta tra l’Italia che non vuol cambiare e l’Italia del cambiamento. La prima, un po’ come gli antichi greci, è tutta protesa al passato, alla ricerca di una perduta età dell’oro; il suo simbolo è Ulisse che anela a ritornare nella sua terra: la sua patria è un prima, la sua vita un ritorno. La seconda, fedele all’ideale della terra promessa, è invece spinta ad assumere la prospettiva dell’esodo, dell’uscita; il suo simbolo è Mosè proteso verso una patria che è un poi, è un avanti. Anche noi oggi dobbiamo scegliere tra un prima e un poi, tra i nostalgici del ritorno e i fautori del balzo in avanti, tra i restauratori e i riformisti presenti in tutti gli schieramenti, nelle organizzazioni, nelle associazioni, nelle istituzioni. Il titolo che abbiamo scelto per questa importante Conferenza Provinciale dice chiaramente noi da che parte stiamo: nel nostro futuro non c’è un’Itaca da recuperare, c’è una Gerusalemme da conquistare”.

Mi rifeci a due tradizioni del passato, la greca e l’ebraica, per dire che bisognava organizzare il futuro. Con chi ci stava e trascinando, con forza e delicatezza, i conservatori. Pian piano la maggioranza degli operatori, delle associazioni, dei responsabili politici e amministrativi ne intuirono lo straordinario valore strategico e parteciparono all’ardua impresa. L’istituzione del tavolo verde, che proposi in conclusione della II Conferenza Provinciale dell’Agricoltura, favorì questo percorso condiviso.

Insomma, in quel progetto vi era rappresentata la svolta avvenuta in Maremma nella COSTRUZIONE DI UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO, a partire dalla consapevolezza della propria identità e attivando atti di programmazione e di governo in grado di dare concretezza a concetti di per sé astratti, quali sviluppo integrato, sviluppo sostenibile e compatibile, riequilibrio territoriale, sussidiarietà, concertazione, multifunzionalità dell’agricoltura, qualità dei prodotti, delle risorse e del territorio.

 

⑤ Il tutto realizzato con il METODO DI GOVERNO DELLA PROGRAMMAZIONE NEGOZIATA (già sperimentato con il Patto Territoriale) attivando la concertazione con le categorie economiche, sociali e gli enti locali. Cioè, per dirla da scienziato della politica, favorimmo il passaggio dal governo alla governance, individuando meccanismi organizzativo-istituzionali nuovi, che poggiassero sul maggior coinvolgimento e la partecipazione di tutti gli attori socio-economici e istituzionali del territorio.

• Metodo che lasciava ampi spazi di autonomia decisionale agli attori pubblici e privati del territorio, creando le condizioni di una reale PROGRAMMAZIONE DAL BASSO, tanto più invocata dall’Unione Europea, quanto più difficile da praticare a livello locale. E in questo caso mutammo il modello top-down (la vecchia programmazione dall’alto verso il basso) nel modello bottom-up (dal basso verso l’alto).

• Con chiari riflessi sul piano della CONCRETEZZA, mettendo in moto un meccanismo che poteva alimentare un flusso eccezionale di investimenti pubblici e privati e quindi nuove opportunità occupazionali (cosa avvenuta sempre con il Patto Territoriale per lo sviluppo della Maremma). L’individuazione condivisa dei 3 Assi strategici d’intervento (consolidamento delle filiere e delle infrastrutture pubbliche, rafforzamento della qualità, fare della Maremma un sistema), l’orientamento su di essi anche di tutti gli strumenti di programmazione e di spesa locale (Provincia e Comunità montane dell’Amiata Grossetana, delle Colline Metallifere, delle Colline del Fiora), la concentrazione e la convergenza su di essi di tutte le risorse provenienti da fonti diverse (europee, nazionali, regionali), l’attivazione di ulteriori risorse anche private, permise il raggiungimento di risultati straordinari.

Utilizzando i vari programmi comunitari (2078/92, 2080/92, 2079/92, 2081/93, 2052/88, 2328/91, 822/87, 866/90, 867/90, 1442/88, 1599/91, 2505 e 2684, 2261/84), le leggi regionali (63/81, 64/95, 23/98) e il premio di primo insediamento giovani, nei quattro anni della nostra legislatura erogammo contributi per 158 miliardi di lire, che misero in moto investimenti per 238 miliardi di lire. All’inizio venivano erogati in base alle richieste più disparate dei singoli imprenditori o delle associazioni, poi con la crescita del progetto del Distretto furono tutte orientate alle richieste conformi con gli assi strategici d’intervento. Nel contesto di questo sistema sarà possibile pochi anni dopo, sempre sotto la sapiente regia di Pacciani, costruire il Patto specialistico per l’Agricoltura, sul modello del Patto Territoriale già sperimentato e il Contratto di Programma per l’Agro-Alimentare.

⑥ LA TERZA RIVOLUZIONE DELLA MAREMMA. Il progetto, nonostante qualche limite, rappresentò – come osserverà Pacciani nel 2003 – “l’avvio di un processo che ha caratterizzato la società e l’economia grossetana negli ultimi sette/otto anni, ponendosi alla base di quella che può essere considerata oggi la terza rivoluzione della Maremma dopo la Bonifica e la Riforma agraria.

Con la Bonifica, nelle sue varie interpretazioni temporali – idraulica, sanitaria, integrale – il territorio è recuperato alla produzione e agli insediamenti senza modificare il regime fondiario dal punto di vista tecnico-giuridico.

Con la Riforma agraria la trasformazione ha investito la distribuzione della proprietà fondiaria puntando all’incremento e alla qualificazione dell’occupazione, attraverso la creazione di un tessuto diffuso di imprese coltivatrici supportate da interessanti esperienze di cooperazione.

Con il Distretto Rurale si favorisce l’affermarsi dell’imprenditorialità agricola, della multifunzionalità dell’agricoltura e la valorizzazione del territorio e di tutte le attività che in qualche modo rientrano nel contesto della ruralità”.

L’esperienza maremmana è lì a dimostrare come la scommessa sul Distretto Rurale non solo abbia prodotto effetti positivi sui comportamenti delle imprese e della pubblica amministrazione, ma per molti aspetti sia stata anticipatrice rispetto ai cambiamenti delle politiche, determinando un forte stimolo verso la riconversione produttiva delle attività del mondo rurale, in particolare di quella agricola, e richiamando forti flussi di nuovi investimenti, quindi di nuova occupazione e nuove fonti di reddito.

Gli indicatori più significativi per rappresentare gli effetti della trasformazione in atto – ricordava sempre nel 2003 Pacciani – “oltre al valore del capitale fondiario, più che quintuplicato negli ultimi sette/otto anni, anche nelle aree marginali della provincia, sono altresì ravvisabili nella crescita eccezionale degli investimenti delle imprese e delle amministrazioni locali, accompagnati da un apprezzabile ricambio generazionale dell’imprenditoria agricola in particolare quella femminile e da una evidente vitalità sociale e culturale delle aree rurali”.

Non solo. L’accoglimento del progetto in sede regionale avrebbe potuto e dovuto trasformare la nostra ruralità in laboratorio privilegiato dove l’Unione Europea poteva concentrare la sperimentazione di tecniche e processi produttivi, progetti pilota sulla tutela e la valorizzazione delle produzioni, dei patrimoni genetici vegetali e animali, come pure la formazione sulle tematiche dello sviluppo rurale ed integrato.

Che dire, in conclusione.

Noi eravamo ambiziosi, qualcuno diceva troppo, perché ci ponevamo l’obiettivo di orientare il generale percorso di sviluppo della Maremma verso il modello di sviluppo rurale di qualità dotandosi, come detto, dei necessari meccanismi di concertazione e di governance locale e fungendo da catalizzatore ed organizzatore delle risorse umane e finanziarie necessarie alla sua attuazione. L’interpretazione che invece ne dette la Regione Toscana fu più restrittiva sostanziandosi nella predisposizione di un numero limitato di azioni che il distretto poteva attivare e senza prevedere finanziamenti specifici o contributi. Inoltre lo strumento del Distretto rurale non fu inserito all’interno degli strumenti della programmazione territoriale regionale, né considerato quale strumento da utilizzare per la realizzazione delle misure del Piano di Sviluppo Rurale (Giovanni Belletti e Andrea Marescotti, 2010).

Ancora oggi, a distanza di molti anni da quando fu concepito, il Distretto Rurale si trova in quel dilemma. Far prevalere la nostra interpretazione forte delle sue funzioni (strumento di programmazione, coordinamento degli interventi, proposizione di progetti e via dicendo) o quella debole della Regione (azione di animazione locale e di marketing territoriale) è frutto della volontà e compito della politica.




























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