Sciagure nazionali e sofferenze di altri popoli ci trovarono al pezzo. Dalla Versilia e la Garfagnana al terremoto umbro-marchigiano, passando per il popolo Saharawi, la Bolivia e Mostar in Bosnia-Erzegovina
Purtroppo il quotidiano
rischiava di schiacciare la nostra azione solo e soltanto entro i nostri
ristretti confini. Ma oltre noi c’era il mondo. Il mondo ci riguardava e ci
interessava, come cittadini e come istituzioni. Ma il mondo non era in pace
perché non si muoveva sulla linea dell’autentico sviluppo e in larga parte non
si sviluppava perché non era in pace. Lo statuto del nostro Ente – oltre alle
tipiche attività – dichiarava che “la
Provincia promuove e sostiene ogni iniziativa ed azione che tenda ad un
concreto conseguimento dei valori fondamentali della pace, della solidarietà,
della democrazia e della libertà, sui quali sui basa il rispetto della persona
umana”. (art. 1 comma 1). C’erano anche le alluvioni e i terremoti che di
tanto in tanto devastavano la nostra Penisola. Non eravamo certo la Farnesina,
la Protezione Civile o la Croce Rossa. Potevamo però portare il nostro piccolo
mattone alla costruzione di una umanità meno dolente e più solidale. E provammo
a farlo. Tra queste iniziative ricordo l’aiuto alle popolazioni della Versilia
e della Garfagnana, il nostro intervento dopo il terremoto nell’Umbria e nelle
Marche, il patto di amicizia e gemellaggio con il popolo Saharawi, il sostegno
alla missione della diocesi di Grosseto in Bolivia, la partecipazione alla
cooperazione con l’area di Mostar in Bosnia.
• Seguendo
l’iniziativa promossa dall’Unione delle province Tosca-ne partecipammo a due progetti per la ricostruzione di alcune
zone della Versilia e della Garfagnana alluvionate nel giugno 1996.
Mettemmo 100 milioni che furono utilizzati a Fornovolasco, una frazione di
Vergemoli in Garfagnana e nell’abitato di Cardoso, nel comune di Sant’Anna di
Stazzema (in entrambi i casi servirono per la ricostruzione di ponti).
• Nel settembre 1997 un forte sisma interessò l’Umbria e le
Marche. Raccogliemmo quel grido di dolore nel modo più semplice e concreto
possibile: attraverso una serie di interventi secondo le necessità e le
richieste avanzate dai responsabili dell’emergenza e delle istituzioni di quelle
zone. Poche ore dopo il sisma eravamo sul posto con i nostri uomini per
realizzare l’urbanizzazione di un’area. Stanziammo fondi per l’emergenza e in
particolare ci preoccupammo di far ripartire la didattica in alcuni paesi dove
erano state danneggiate le scuole. I nostri tecnici si occuparono di fare
sopralluoghi nelle case del comune di Foligno, poi l’intera squadra si
trattenne per due mesi a fare interventi a Nocera Umbra, Isola, Collecroce,
Colfiorito. Li voglio citare, perché ne vado ancora fiero: gli ingegneri
Massimo Luschi e Carlo Bocci; i geometri Mauro Bindi, Danilo Corridori, Massimo
Bartalucci, Tiziano Romualdi, Carlo Massetti, Enrico Pasquini, Lorella Santori;
gli operatori Romolo Bacci, Renzo Landeschi, Aldo Raffi, Danilo Rossi, Roberto
Cosimi.
Non solo. Avviammo anche una
campagna di sensibilizzazione e di sottoscrizione con lo slogan, Non solo Giotto, che accompagnò per tre
mesi la vita dei grossetani e si propagò in tutte le località della provincia:
manifesti, lettere ad associazioni e cittadini, inserzioni su quotidiani e
periodici, spot televisivi e radiofonici. C’eravamo assunti la responsabilità
morale e istituzionale di fare una raccolta fondi sull’intero territorio
provinciale. Iniziativa che volli con tutte le mie forze, anche se a taluno non
sembrava propria di un Ente. Non ricordo quanto alla fine si riuscì a
raccogliere (30 milioni circa?), ma più di tutti contava il messaggio: “ci metto del mio per aiutare persone in
difficoltà”.
Ai soldi raccolti
aggiungemmo 100 milioni di lire e dopo accordi con la Provincia di Perugia e il
comune di Nocera Umbra li destinammo alla realizzazione di una scuola
prefabbricata (17 moduli per ospitare 10 aule per gli alunni, 2 aule per i
laboratori, 2 per la segreteria e la presidenza, 2 box per i servizi igienici)
dove temporaneamente spostare l’Istituto professionale di Stato per l’Industria
e l’Artigianato di Nocera Umbra. 160 studenti che, dopo tre mesi – unici delle
superiori in quel comune – poterono usufruire di una scuola e iniziare di nuovo
le lezioni.
Pochi giorni prima del
Natale 1997, insieme all’assessore Renato De Carlo, ai nostri uomini che
avevano operato ed alle autorità locali, partecipai al taglio del nastro
dell’inaugurazione della nuova scuola. Fu un’emozione unica. Come ricordava
Giancarlo Capecchi, in un articolo su La Nazione del 23.12.1997, ricevetti dal
sindaco di Nocera la loro massima onorificenza, il Giglio d’oro, e gli studenti ci dedicarono “uno spettacolo, fatto di canti e letture sulla tragica vicenda
vissuta”. Capecchi ricorda anche le poche parole che dissi nel saluto: “Sono lieto di poter essere felice con chi
ha tanto sofferto e continuerà a soffrire. Voglio trasmettervi la stessa
speranza che alla nostra gente fu trasmessa il 4 novembre del 1966 quando
Grosseto fu travolta e stravolta da un’incredibile alluvione. La nostra
presenza, il nostro lavoro sono anche la testimonianza che l’Italia c’è, che
non siamo tribù, ma una nazione, una Patria: tutte sensazioni che voglio
segnalare perché ci devono fare sentire il gusto di essere italiani”.
Rispose il Presidente della Provincia di Perugia: “Siamo certi che i nostri ragazzi capiranno il valore aggiunto che c’è
in queste strutture, che è fatto di solidarietà, organizzata ed efficiente e di
volontà”. Su sollecitazione della Provincia di Macerata erogammo un altro
finanziamento di 80 milioni di lire al comune di Serravalle del Chienti per
realizzare una struttura prefabbricata di circa 140 mq, costituita da 4 box con
ingressi indipendenti, da utilizzare come negozi: struttura completa di
infissi, impianto elettrico e riscaldamento.
• Un pezzetto di
Maremma, dal 1995, aveva scelto l’emisfero sud per vivere e lavorare. Un gruppo
di volontari composto da un sacerdote della diocesi di Grosseto (padre Claudio
Piccinini) e due laici (la famiglia Ferrara) viveva a stretto contatto con i
poveri e gli emarginati di Santa Cruz de
la Sierra nella Missione San Lorenzo (patrono di entrambe le città),
collaborando a diversi progetti. Riuscimmo a trovare motivazioni e risorse per
contribuire al sostegno di alcune di queste attività, la più importante delle
quali fu la costruzione del Giardino
d’Infanzia San Lorenzo nell’area amministrata da padre Claudio.
• Dall’estate 1996 e
da un incontro con una delegazione di 30 bambini del popolo Saharawi e i loro accompagnatori (ospiti a Follonica
dell’Associazione di Solidarietà con la Repubblica Democratica Araba del
Saharawi) nacque un’occasione di solidarietà con un popolo – circa 160 mila
persone – che dalla metà degli anni ’70 viveva in esilio nei campi profughi del
deserto algerino, ultima vittima del sistema coloniale. Nel marzo 1997
stipulammo un patto di amicizia con
questo popolo, rappresentato nell’occasione dalla provincia-tendopoli di Smara.
Il patto impegnava noi e loro ad intraprendere iniziative di cooperazione,
favorendo scambi sociali, culturali ed economici finalizzati al raggiungimento
della pace.
• Nella seduta
congiunta dei Consigli Comunale e Provinciale del 19.07.95 ci impegnammo a
promuovere e a partecipare ad iniziative
per ogni forma di solidarietà ed aiuti umanitari in favore della popolazione
della ex Jugoslavia. In tal senso la Provincia intervenne in un progetto
per la vita di un popolo, per la pace e per la cultura. Mostar era una città
divisa. Fino alla tarda primavera del 1994, musulmani e croati si erano
combattuti porta a porta. La frattura rappresentata fisicamente dalla
distruzione del ponte Stari Most (il
Ponte Vecchio costruito con 465 blocchi di pietra bianca sin dal 1557) era il
segno tangibile di una separazione culturale profonda. La via della pace e
dell’unità, della solidarietà tra popoli di etnie diverse, ulteriormente divisi
dalla guerra, dai ricordi di violenza, poteva essere percorsa attraverso un
processo di recupero di una cultura della convivenza che partisse dai giovani.
A Mostar est erano poche le strutture scolastiche operanti, quasi tutte di
livello inferiore. La ricostruzione della società civile stava nel recupero,
nello scambio e nella crescita culturale dei giovani. Una giovane insegnante,
Jelka Kebo, si era battuta per l’apertura di un grande Centro Giovanile
polivalente a Mostar Est ospitato in una struttura ultimata grazie ad un
finanziamento dell’Unione Europea.
L’Arci aveva costruito
intorno alla volontà dell’insegnante e dei giovani che già si incontravano nel
centro, un progetto che non rendesse questo stabile una scatola vuota. Le
esigenze espresse dai giovani del Centro andavano dall’allestimento di una
stazione radio e di una redazione giornalistica di base, a quella di una sala
proiezione. Noi decidemmo di entrare nel progetto intervenendo in una prima
fase con 15 milioni di lire a condizione che divenissero subito operativi. Contribuimmo alla realizzazione di una sala
video. Si trattava di acquistare poltroncine, un videoproiettore, uno schermo
mobile e delle tende oscuranti. Un piccolo passo possibile e concreto. Non
l’ultimo passo del nostro Ente nella ex Jugoslavia. L’inizio di un percorso di
relazioni che portò, dal 25 al 29 settembre 1996, una delegazione della
Provincia di Grosseto a Mostar Est (composta da Gloria Faragli e Manuela
Bracciali) – insieme ad Alessandro Lotti per il comune di Grosseto e Roberto
Mori per l’Arci – per verificare direttamente ciò che serviva, ma anche e
soprattutto per aprire relazioni, scambi utili, nel loro piccolo, al difficile
processo di democratizzazione del paese. Aderimmo anche al progetto di
solidarietà Atlante delle Comunità Locali
della Bosnia Erzegovina per la cooperazione decentrata per lo sviluppo umano in
un contesto post-conflitto.
• Durante il
consiglio provinciale congiunto con quello del comune di Grosseto del 19 luglio
1995, che – mi pare – si tenne all’aperto, pronunciai il seguente discorso. “Non ho mai vissuto la guerra direttamente,
fortunatamente, come molti di coloro che sono qui. Vi vorrei chiedere, dunque,
di smuovere la fantasia e di capire cosa significa essere cacciati, in una sera
d’estate del 1995, dalle proprie case bruciate con gli uomini portati a
destinazione sconosciuta e trovarsi in migliaia su un prato, sotto delle
leggere tende bianche e blu. I fatti accadono a poche centinaia di chilometri
di distanza, oltre il mare esplodono granate, cresce il filo spinato dei lager,
fuggono e muoiono bambine, uomini e donne, città, paesi, case di campagna
vengono trafitte, bruciate. Una reazione su tutte è quella di cancellare, di
portare queste vicende di guerra a far parte della realtà virtuale che, ogni
giorno in parte viviamo. Allora, solo così, Srebrenica e Sarajevo possono
tornare lontane in uno spazio ed in un tempo illusorio, raccontato da un
televisore, senza interferire con la normalità del quotidiano. Dieci anni fa
sono andato a visitare, in silenzio e lacrime, il campo di concentramento di
Dachau in Baviera. Mi si disse che all’arrivo degli Alleati le popolazioni dei
paesi limitrofi si erano dette ignare dell’Olocausto che a pochi chilometri si
consumava. Ne rimasi sconcertato. Noi oggi, che non possiamo far finta di non
sapere, rischiamo l’assuefazione al male, la fuga nell’immaginario,
l’annullamento dell’orrore con l’abitudine. Con un moto di sana reazione questa
sera siamo invece in piazza per esprimere il tormento delle nostre coscienze,
riacquistare la dignità dell’indignazione, dichiarare pubblicamente la
normalità di provare orrore per ciò che accade in Bosnia (ma anche in
Afghanistan, nel Kashmir, in parte della Cina e in altre zone del mondo dove
non vi sono tante telecamere in azione).
Il silenzio e l’impotenza dei singoli ha
fatto da sfondo al nazismo ed ha accompagnato l’instaurazione dei regimi
dittatoriali. Il silenzio della maggioranza, il chiudere gli occhi per non
vedere la realtà circostante ha alimentato la forza di una minoranza
agguerrita, motivata ideologicamente. Ma attenzione: sarebbe errato ritenere
soltanto una parte violenta e le altre solo vittime. Purtroppo quella bosniaca
è una situazione orribile dove oggi spadroneggiano i signori della guerra. E
purtroppo quella balcanica – nonostante le attuali atrocità serbe – ha più i
tratti di una guerra civile (se mai una guerra in tal modo si possa chiamare),
che quelli di una guerra di pura aggressione e ciò rende tutto più complicato:
anche un eventuale intervento militare. Anzi parlare in tale contesto di
soluzione militare è assurdo. Come ha detto qualche autorevole commentatore, se
davvero volessimo imporre scelte con la forza, dovremmo rassegnarci ad occupare
la Bosnia per decine di anni e affrontare un altissimo prezzo in vite umane. Ma
ciò che sta accadendo in Bosnia esige l’impegno di ciascuno di noi. Chi può
parlare parli, chi può gridare gridi, chi può pregare preghi, chi può operare
operi. E uniamoci per spingere i singoli governi, l’ONU, la NATO a mettere in
campo tutte le loro forze per fermare questa strage di innocenti, per
permettere alla gente di Sarajevo, delle enclave musulmane assediate, di poter
ricevere gli aiuti sufficienti per sopravvivere. Almeno questo: aiutarli a
sopravvivere. È l’unico intervento a cui riesco a pensare. Non posso immaginare
il sangue dei nostri figli bagnare i Balcani. Il muro che dobbiamo far crescere
è quello dei medicinali, degli alimenti, del controllo rigoroso degli
armamenti, il muro della pace”.
Piccole cose le nostre, ma
che ci permettono ancora oggi di dire che noi c’eravamo.
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