Accompagnato dall’assessore Renato De Carlo, dimissionai il consiglio d’amministrazione, feci modificare l’assetto societario e nominai presidente Pier Luigi Marini. Insieme a lui consegnammo a fine legislatura una società risanata
La Rama nella mia vita l’ho
incrociata due volte. Da studente universitario tutti i lunedì scolastici
prendevo un suo pullman alle 5,45 a Pitigliano per giungere alle 10,10 a
Firenze e il giovedì-venerdì pomeriggio alle 14,05 per essere a Pitigliano alle
18,15. Talvolta lungo il viaggio leggevo ma prevalentemente il suo incedere mi
procurava sonno. L’ho incrociata di nuovo, da presidente della provincia e
questa volta il sonno me l’ha fatto perdere.
Infatti, nel post n. 45,
ricordando la Provincia che trovai, ho parlato anche di Rolling Stones: pietre rotolanti che ci stavano venendo addosso.
Una di queste era la RAMA.
L’azienda
era in crisi.
In primo luogo per le
continue consistenti perdite e per questo nel 1994 la Provincia aveva previsto
un piano di risanamento triennale (1994-1997). All’interno il clima era
veramente pessimo, specie tra sindacati e vertici ma anche tra dipendenti. Il
parco macchine era molto invecchiato e questo avrebbe richiesto ingenti
investimenti, ma investire i debiti sarebbe stato un bel problema. Inoltre,
l’azienda si sarebbe dovuta equipaggiare per la libera competizione prevista
dalle nuove disposizioni sui trasporti.
Nel contempo, c’eravamo
assunti l’obiettivo di aggiornate il Piano
di Bacino della Mobilità, perché il precedente risaliva al 1987. A fine ’96
presentammo i criteri guida del nuovo Piano e l’obiettivo di fondo da
raggiungere: ottimizzare le condizioni di mobilità. In che modo? Attraverso
l’integrazione. “Integrare il trasporto
su gomma con quello ferroviario, con vettori di aziende diverse e, questa è la
novità, con i servizi scolastici gestiti dai comuni” (Renato De Carlo, La
Nazione del 17.11.1996). Ma andiamo per ordine.
①
La RAMA ci stava a cuore, ovviamente. Nata nel 1913 come Società
Anonima per Azioni per collegare le zone più isolate e lontane della provincia,
nel 1973 fu acquisita dagli enti locali e confluirono in essa le tante piccole
aziende che operavano nel territorio. Da quel momento rappresentava
l’intelaiatura del trasporto pubblico della provincia e nel 1995 dava lavoro a
250 dipendenti. Un bel marchingegno che, nel passato, era stato usato anche in
chiave clientelare ed elettorale e rappresentava una posizione di prestigio nel
quadro delle poltrone provinciali. Tra l’altro prevedeva per gli amministratori
anche un buon appannaggio: nel 1996 era di 90 milioni lordi al Presidente e 25
ai consiglieri. Oltre a quelli previsti per i componenti del collegio
sindacale, presieduto da Francesco Carri. Trovammo in sella del consiglio di
amministrazione Venio Fiorentini (presidente), Monica Chimenti e Pirzio
Tinacci. Stavano portando avanti il piano di risanamento con dedizione e il
presidente, nei colloqui che avemmo, mi segnalò anche che nei 20 mesi della sua
azione erano stati ridotti i debiti di alcuni miliardi senza licenziare
nessuno. Ottimo.
② allora perché fui
costretto a licenziarli? Ero matto? Facevo gli interessi di qualcuno?
Chi ricorda il clima di quel
periodo dovrebbe dirmi quanti giorni i quotidiani non erano occupati dalla
questione Rama. Rarissimi. Era una polemica dietro l’altra: il presidente
contro i sindacati o, come lui diceva, contro “il peso politico-sindacale di alcuni soggetti”. I sindacati
(Filt-Fit-Faisa), neppure sempre uniti tra di loro, che scrivevano comunicati
ai giornali e chiedevano continuamente incontri con noi. Ma la goccia che fece
traboccare il vaso fu la sopraggiunta spaccatura tra il presidente e gli altri
due consiglieri che, sempre a dire di Fiorentini, avevano avuto “una resa incondizionata” alle
organizzazioni sindacali e “che non ha
tenuto in alcuna considerazione il bene dell’azienda” (La Nazione,
19.10.1996). “Non c’è stata alcuna resa
incondizionata” – ribatteva Monica Chimenti – “l’intesa è stata siglata perché le trattative erano state portate
avanti collegialmente dal consiglio d’amministrazione ed eravamo tutti
d’accordo” (Il Tirreno, 24.10.1996). Io qui la faccio breve, ma la cosa era
veramente bollente e assillante, condita, tra l’altro, da lettera anonime su
questo e su quello che a Grosseto non mancano mai.
Francamente per me sarebbe
stato più semplice giungere alla conclusione naturale del mandato dei tre, ad
aprile 1997, ma la situazione si era fatta insostenibile e non per il motivo
che dichiarò Fiorentini a La Nazione il giorno delle sue dimissioni: “Da qualche tempo, con messaggi e notizie
variopinte, la politica bussa alla porta: è giunto il momento di aprire, di
farsi da una parte e di lasciare entrare”. Non so a chi si riferisse, non
certo a me e De Carlo che, proprio per non aver mai preso ordini da nessuno,
nel 1999 fummo licenziati.
Fatto sta che nel mese di
ottobre del 1996 l’aria si era fatta irrespirabile: convocai Fiorentini, che si
era dichiarato pronto a lasciare e lo pregai di soprassedere qualche giorno,
chiesi un incontro a Monica Chimenti e le comunicai la nostra intenzione di
procedere al cambio del Consiglio di amministrazione, appena convocata
l’assemblea dei soci. Dovevo convocare il consiglio provinciale e discutere la
situazione in quella sede, cosa che facemmo.
Ma
il tempo era scaduto e con un comunicato mettemmo la parola fine a
quell’esperienza, se non formalmente almeno politicamente. Nel senso che il
socio di maggioranza, la Provincia, espresse con chiarezza la propria volontà.
La Nazione del 18.10.1996 volle titolare “Gentili
licenzia il vertice della Rama” il mio comunicato che diceva quanto segue: “Da più di un anno, insieme alla giunta e al
consiglio sto seguendo l’attività della Rama. L’intento era quello di
proseguire sulla strada del risanamento con il recupero di corrette relazioni
aziendali. Purtroppo la situazione si è venuta deteriorando all’interno dello
stesso vertice dell’azienda al punto da impedirne il corretto funzionamento”.
Era proprio così, almeno dal mio punto di vista.
Il 28 ottobre ci fu il
Consiglio provinciale dedicato alla Rama. Erano tutti presenti e i posti del
pubblico erano occupati da tante persone, sindacalisti compresi. Bianca
Zaccherotti il giorno successivo su Il Tirreno esordiva con le mie parole: “Gli inviti al buonsenso non sono bastati”.
Poi riportava la parte centrale del mio intervento e la conclusione: “Signori si scende per impossibilità di
funzionamento dell’organo guida” senza che questo suonasse “come atto di sfiducia nei confronti delle
singole persone, quanto di quello che dovevano in solido rappresentare:
l’organo guida dell’azienda”.
Rifacendosi alla polemica
lettera di Fiorentini il consigliere di minoranza, Alessandro Antichi, mise il
dito sul riferimento alla politica che voleva di nuovo entrare nella Rama, come
se i tre consiglieri nominati da Ciani nel 1994, fossero scesi da Marte. Io e
il capogruppo Rossi definimmo quell’accusa inaccettabile, invitando Fiorentini
a dire quali politici avevano bussato alla sua porta. Ciani, sempre rifacendosi
al j’accuse di Fiorentini chiese se fossero vere le voci di privatizzazione
della Rama, se vi erano ritardi per attivare i benefici della legge 104 e
perché non era stato ancora fatto il bando per la vendita dell’area di via Oberdan.
De Carlo rispose puntualmente ai quesiti posti e concluse dicendo che “la Rama pur essendo giunta al termine del
piano di risanamento, non risulta ancora risanata: l’obiettivo era quello di
chiudere il bilancio con un attivo dei 600 milioni ed invece potrebbe chiudersi
con un passivo di 400” (Il Tirreno, 29.10.1996). Un miliardo di differenza.
③ Licenziare persone che,
per vari motivi, non si ritengono più idonee alla guida di una società era una
cosa fattibile, ma tutt’altro che semplice: si poteva infatti anche sostenere
che la revoca fosse stata fatta senza giusta causa, visto che un fatto grave
non c’era stato. La cosa più difficile era, però, assumere nuove persone idonee
a guidare quell’azienda. Con un problema aggiuntivo: gli appetiti dei partiti,
che sulla Rama si erano sempre sbizzarriti. I sindacati in un certo senso ci
aiutarono, chiedendo un Consiglio di Amministrazione che avesse “capacità e competenza per affrontare i nodi
strutturali di un’azienda che ha estremamente bisogno di riqualificarsi, anche
attraverso la ricerca di professionalità da utilizzare per un migliore e
rinnovato assetto dirigenziale; e sappia intrattenere corrette relazioni
industriali in un quadro di regole certe, nel rispetto del Ccnl, dei protocolli
e degli accordi sottoscritti”. Chiudevano dicendo che “soluzioni diverse che volessero ripercorre vecchie logiche di
appartenenza non interessano e non servono ai lavoratori, né sarebbero
rispondenti a un progetto di rilancio e di sviluppo della Rama” (La
Nazione, 28.10.1996). D’accordissimo. Era proprio quello che pensavo. Ma come
fare?
Dopo accurata riflessione,
insieme all’assessore Renato De Carlo decidemmo
di proporre la modifica dell’assetto organizzativo del consiglio di
amministrazione. Scegliemmo, rifacendoci al codice civile, la strada
praticata in tutte le aziende che si rispettino: quella di prevedere la figura
di un Amministratore delegato che, per le sue competenze manageriali, fosse in
grado di fare le cose che andavano fatte. Doveva essere posto a capo del management
aziendale ed essere in grado di valutare l’adeguatezza dell’assetto
organizzativo, amministrativo e contabile della società; esaminare gli
eventuali piani strategici, industriali e finanziari; valutare il generale
andamento della gestione. Il nuovo assetto avrebbe potuto rispondere proprio
alle due cose che i sindacati (e non solo loro) ci chiedevano: competenza e
capacità di relazione tra le diverse parti dell’azienda. Caratteristiche
difficilmente riassumibili in un’unica persona. Quindi un ruolo doveva svolgere
il presidente, altro sarebbe dovuto essere quello dell’amministratore delegato.
I rimanenti tre membri di un consiglio, ampliato a 5, avrebbero dovuto avere
anch’essi i necessari titoli per ben consigliare la Rama.
Le due figure chiave, dunque,
erano quella dell’amministratore delegato
e del presidente. Ce le gestimmo direttamente io e Renato senza sentire
nessuno. De Carlo, per i suoi trascorsi di Coordinatore sindacale nazionale dei
Dirigenti Industriali dell’IRI e vicepresidente del Sindacato Ligure dei
Dirigenti Industriali, attinse in quel serbatoio. Fece alcune telefonate e poi
incontrò le persone indicate. Alla fine tirammo fuori dal cilindro Udino Giannini, laurea in ingegneria,
master in Italia e all’estero, ampia esperienza in aziende come la Montedison,
l’Ansaldo e l’Ilva International. Quindi persona con un curriculum di tutto
rispetto e fuori dai giochi della politica-politicante grossetana. E per il presidente
come fare? Come detto ci voleva una persona in grado di stemperare il clima,
creare le corrette relazioni interne ed esterne. Ci pensai qualche giorno,
incontrai alcune persone che – a mio parere – avrebbero potuto svolgere quel
ruolo, poi confrontando le varie opzioni con Renato, i sì e i no degli
interlocutori incontrati, decisi di proporlo al professor Pier Luigi Marini, nostro consigliere provinciale. Aveva avuto
esperienza amministrativa come sindaco di Arcidosso e presidente dalla Comunità
montana amiatina, sapeva relazionarsi con le persone in quanto professore, era
una persona decisa e capace. Oltretutto apparteneva al Pds e poteva quindi non
lasciarmi scoperto su quel fronte.
In verità non ricordo bene
come andò la scelta degli altri tre componenti il consiglio d’amministrazione.
Dovessi scommettere direi che chiesi alle forze politiche di maggioranza di
segnalarmi persone di qualità vicine alla loro area. Quest’ultime sapevano che
non avrebbero mai potuto segnalarmi persone inadeguate a quel ruolo. Le avrei
rispedite al mittente. Comunque vennero fuori i nomi di Roberto Comandi,
dottore commercialista di Grosseto con esperienze come revisore dei conti,
Lucio Fortunati, ingegnere elettronico, poi – dopo la modifica dello statuto
per prevedere l’amministratore delegato e portare il consiglio di
amministrazione a 5 consiglieri – Andrea Pialli, tributarista di Grosseto.
Per quanto riguarda il
compenso del presidente proponemmo di ridurlo da 90 milioni lordi (come era
prima) a 50 milioni. E per i consiglieri indicammo di prevedere un gettone di
250.000 lire a seduta. Un bel gettone, ma tutt’altra cosa rispetto ai 25
milioni lordi a consigliere della precedente gestione. Purtroppo, ci furono subito due problemi.
Udino Giannini ci comunicò che non era più disponibile a venire a Grosseto per
fare l’AD della Rama. Un fulmine a ciel sereno. La cosa mise in fibrillazione
me e De Carlo. Dopo altre ricerche trovammo la disponibilità del dott. Guido Saracco, persona dai giusti titoli
ma che a nostro modo di vedere non aveva lo stesso sprint di Giannini. Eravamo
in ballo e dovevamo ballare. Inoltre, mi pare di ricordare, dopo la prima
seduta del consiglio di amministrazione si dimise l’ingegner Fortunati al quale
sembrava troppo ingombrante la figura di un AD che assommava su di sé la gran
parte delle responsabilità. Non ricordo quando, ma al suo posto indicammo
Daniele Moretti.
Così partì la nuova gestione della Rama
tesa al risanamento e al rilancio dell’azienda, per equipaggiarla ad essere
competitiva nel mondo nuovo del trasporto previsto per il 2000.
A quel punto il mio compito
era terminato. Scaricato un equipaggio che rischiava di affondare la nave, ne
avevo imbarcato uno nuovo che doveva dimostrare di sapere dirigere il naviglio.
Era una scommessa che si poteva vincere o perdere. Ma bisognava rischiare. La
cosa non fu semplice, le polemiche erano sempre dietro l’angolo, il clima
interno rimase per lungo tempo surriscaldato e soprattutto andavano sciolti
quei nodi che rischiavano continuamente di tirare giù l’azienda. Come
Presidente della Provincia avevo mille questioni sopra il tavolo e seguii la
vicenda da lontano.
④ Ma perché l’azienda aveva tutte quelle
perdite? E per quale motivo risultava ai più poco efficiente? I problemi
erano molteplici. Provo a citare quelli che mi ricordo. Un problema era legato
all’ingente mole di interessi passivi che l’azienda doveva pagare alle banche.
Aveva infatti bisogno costante di finanziamenti, in quanto il contributo
regionale sul trasporto copriva il 65% del costo ed i ricavi dalle persone
trasportate erano largamente al di sotto del restante 35. Inoltre, il personale
della Rama costava molto. Circa 70 milioni all’anno a dipendente, 5-10 milioni
in più rispetto alle altre aziende. Ovviamente c’era un motivo: lavorava dai 22
ai 37 giorni più degli altri all’anno e aveva turni col nastro di oltre 10 ore
al giorno contro la media di 6-8,5 degli altri. Sempre riguardo al personale
erano presenti inefficienze produttive, ripetitività di funzioni, esuberi.
L’assetto dirigenziale era di scarsa qualità. Il sistema di approvvigionamento
di tutto quello che serviva all’azienda era poco razionale, con evidenti
sprechi. Cioè, ciascun centro di spesa faceva quello che voleva. La scarsa
informatizzazione presente all’interno, specie in alcuni comparti, creava
difficoltà e lentezza nella gestione. Vi era poi la questione del cosiddetto
portoghesismo, cioè molti utenti dei pullman non pagavano il biglietto. E
addirittura scoprirono che qualche dipendente ci faceva la cresta (con i titoli
di viaggio a ricalco).
L’azienda inoltre svolgeva
tratte per i comuni non a concessione, senza che i comuni stessi pagassero la
differenza del costo. La ragione era di tipo sociale, ma già allora (senza i
vari bla-bla-car di oggi) gli utenti si contavano sulle punte delle dita. La
rete trasportistica della Rama era vecchia e non rispondeva più alle nuove
esigenze di mobilità della popolazione. Per cui, in alcuni casi, c’erano corse
dove non servivano più e non c’erano dove sarebbero servite. La Rama aveva
abbandonato il trasporto turistico che, invece, poteva essere fonte di discreti
guadagni. Possedeva dei beni che, se venduti, potevano garantire ingenti
entrate. La fantomatica area di via Oberdan a Grosseto sembrava rappresentare
la madre di tutte le battaglie e tante volte fu attenzionata dai quotidiani
locali. Come se non bastasse – e sicuramente dimentico altre cose – il parco
macchine della Rama era molto vecchio e bisognava necessariamente procedere ad
un suo ammodernamento.
Il
consiglio si mise al lavoro e lo svolse con dedizione, soprattutto il
Presidente Marini. Era al pezzo dalle 8 alle 20, tutti i
giorni lavorativi. Deluse un po’ le aspettative l’amministratore delegato. I
consiglieri fecero il loro. Ripensandoci col senno di poi, forse la scelta di
dotare l’azienda di un Ad cozzò un po’ con il fatto che l’organico delle
aziende di trasporto prevedeva la figura del Direttore Generale. Tant’è vero
che nel triennio vi furono momenti di frizione, anche perché lo stakanovista
presidente Marini, quando riteneva che altri non svolgessero appieno le loro
funzioni, tendeva ad entrare in ballo direttamente.
⑤
I nuovi insediati, comunque, intervennero su tutte le questioni irrisolte dette
prima e nel giro di tre anni portarono a casa lusinghieri risultati.
Ridussero drasticamente il fardello degli interessi passivi portandolo ad un
livello ragionevole per una società di trasporto e avviarono a soluzione la
questione dell’area ex-Rama di via Oberdan, nonostante le aste di vendita
fossero andate più volte deserte. Definirono una nuova politica del personale
anche se non riuscirono a ridurne i costi, si dotarono di nuove professionalità
per le posizioni di direttore d’esercizio e direttore amministrativo,
introdussero la bigliettazione a bordo eliminando il portoghesismo,
modificarono il sistema di approvvigionamento e razionalizzarono la gestione
della spesa. Ristrutturarono la rete dei servizi sul territorio provinciale.
Adeguarono anche il costo dei biglietti alle tariffe minime regionali, aumentandole
di circa l’8%. Alla fine del triennio riuscirono a coinvolgere nella compagine
societaria molti comuni della provincia, tra l’altro favorendo il dimagrimento
della nostra presenza nel capitale sociale, pari – se non ricordo male – a
circa il 70%. Con molti di questi riuscirono a fare i contratti di servizio e,
quindi, a renderli partecipi della spesa, a fronte di servizi ritenuti idonei
dagli stessi. Rientrarono nel campo del trasporto turistico, diversificando
l’offerta. Tra l’altro, avviarono l’acquisto di nuovi pullman (mi sembra 10 più
un pollicino) in sostituzione dei vecchi carrozzoni.
Per pura curiosità ricordo
che a febbraio del 1998 si dimise il consigliere Moretti, mi si disse perché il
presidente Marini aveva dichiarato alla stampa la “rivoluzione del servizio pubblico” (come ebbe a titolare Il
Tirreno del 3.01.1998), senza averla del tutto discussa e deliberata in
consiglio. La cosa mi creò un altro problema e dopo breve riflessione andai a
pescare per la sostituzione il pitiglianese Dino Seccarecci. Scelsi lui perché
in quel periodo stavano discutendo la
riorganizzazione delle strutture dell’azienda, comprese quelle periferiche e mi
interessava che fossero tutelati i legittimi interessi delle periferie.
All’inizio del 1998, per
dare respiro finanziario all’azienda consentendole di programmare tutta una
seri di interventi tesi a recuperarne l’efficienza e l’efficacia e a riportarne
i conti in attivo, fu avanzata dal consiglio di amministrazione la richiesta di
aumento del capitale sociale. Alcuni comuni allora facenti parte della
compagine sociale nicchiarono, chiedendo giustamente garanzie per il futuro.
Noi, a metà 1998, acquistammo 12 milioni di azioni dell’azienda per un valore
di 1.774.000.000 di lire.
I
primi di maggio del 1999 partecipammo all’assemblea della Rama e, per la prima
volta dopo tanti anni, approvammo il bilancio consuntivo 1998 (per un totale di
32 miliardi) con un utile di esercizio di alcuni milioni di lire (La
Nazione, 3.4.1999 e 6.5.1999). I problemi, sia chiaro, c’erano ancora, ma
l’azienda aveva riacquistato il mercato che solo qualche anno prima sembrava
del tutto compromesso. Si era conclusa l’operazione di ricapitalizzazione che
aveva portato il capitale sociale a 3 miliardi e 255 milioni, tutti o quasi i
comuni della provincia (non sono sicuro dell’Isola del Giglio, Seggiano,
Capalbio, Orbetello) erano entrati a far parte della società. La tensione per
il rinnovo del contratto integrativo aziendale si era dissolta perché l’ipotesi
di accordo era stata siglata.
⑥ L’ottantaseienne azienda e
il suo core business (131 bus di proprietà che percorrevano circa 6 milioni e
mezzo di chilometri, l’80% dei quali all’interno dei circuiti urbani,
trasportando alcuni milioni di viaggiatori, spesso sempre gli stessi, che
acquistavano biglietti per 7 miliardi di lire) e il suo personale (che tra
quello a terra e quello viaggiante raggiungeva le 254 unità) potevano guardare al futuro con maggiore
tranquillità ed anche gli utenti potevano considerarla con rinnovata fiducia.
Soprattutto in vista del fatto che dal 1 gennaio del 2000 si sarebbe dovuta
confrontare con la concorrenza per tutta la rete provinciale. E con maggiore
tranquillità poteva guardarla anche la Provincia, che l’anno dopo avrebbe
dovuto vendere le sue azioni.
Io e De Carlo, che stavamo per essere licenziati,
potevamo dire: “missione compiuta”.
Il presidente Marini, che aveva lavorato con dedizione e capacità, l’anno
successivo, pur presentando un utile ancora maggiore (che mi sembra i soci
decisero di non lasciare in azienda), sarà licenziato dai nuovi inquilini di
Palazzo Aldobrandeschi, in accordo con quelli di Piazza Duomo e con la
contrarietà degli altri comuni che ne volevano la riconferma.
I tempi erano cambiati, il quadro era mutato e Grosseto
mal sopportava i non grossetani. È la politica, bellezza.
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