lunedì 21 dicembre 2009

BUON NATALE CON DON PIETRO GABRIELLI E IL SUO “PICCOLO TESORO”

Alcuni anni or sono, sistemando una serie di documenti nella Casa del Giovane a Pitigliano, mi sono imbattuto in un semplice quaderno usato nelle scuole elementari diversi anni fa.

Nell’aprirlo ho visto che conteneva un “piccolo tesoro”: una raccolta di 34 poesie del sacerdote Don PIETRO GABRIELLI, da inserirsi – si legge nel frontespizio – nel Libro di Lettura dei bambini delle Scuole Elementari. Era forse un progetto che aveva in mente lo stesso Don Pietro oppure qualcuno glielo aveva esplicitamente chiesto.
Fatto sta che mi ripromisi di salvare il piccolo scrigno digitando tutto il contenuto e conservando la bellezza del quaderno originale.

Don Pietro nasce il 15 marzo 1917 a Castell’Azzara (e una poesia la dedica la suo paese nativo), studia presso il Pontificio Seminario Regionale ‘S. Maria della Quercia’ a Viterbo e viene ordinato sacerdote il 2 aprile 1938.
Svolge il servizio pastorale presso la Parrocchia di San Rocco in Pitigliano come parroco per circa 40 anni.
Nel 1980 lascia l’incarico per malattia e muore il 10 novembre 1981.

Organista eccellente e Sacerdote apparentemente ‘sbrigativo’ (per noi bambini erano note le sue confessioni superveloci e le messe sprint), in realtà era ‘molto attento alle persone’ per lo più non frequentanti, con le quali spesso si intratteneva al bar per la serale partitella a carte.
Evidentemente, il fanciullino rimasto in lui vi teneva “fissa la sua antica serena maraviglia” e faceva sentire “tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello” e Don Pietro amava “parlare con lui e udirne il chiacchiericcio” (G. Pascoli, Il Fanciullino): almeno questo sembra emergere nella raccolta che può essere visitata nel ‘link’ allegato.

I titoli delle poesie offrono con chiarezza il quadro concettuale complessivo. Riprendono la vita reale del tempo ritmata dalle stagioni, dai suoi frutti e dai fiori, dalle feste e dal calendario liturgico: Ginestra, Vendemmia, Autunno, 2 Novembre, Natale, L’Olivo, Neve, Inverno, Carnevale, Primavera, Le Campane di Domenica, Venerdì Santo, Pasqua, Viole, Il Grano, Contrada, Estate, Nuvole, Il Mare, Bimbo, Giornata delle Ceneri, Maggio, Mandorlo fiorito, Il Tempo, Uccelli nel cielo estivo, La Mietitura, I Grilli, Ultima Cena, Panorama meraviglioso, Rondini, Corpus Domini, Castell’Azzara, Lucciole, Trattorato.

Conservare il quaderno e pubblicare il contenuto è per me un impulso dell’anima per la riconoscenza che debbo ad uno dei sacerdoti che ho avuto l’onore di frequentare durante l’infanzia e perché le poesie sono molto belle e degne di essere fatte conoscere.
Prossimi, oramai, alle feste natalizie, auguro a tutti frequentatori del blog e ed agli occasionali…un autentico Natale cristiano e la possibilità di trascorrere un periodo di festività sereno.
Lo faccio prendendo a prestito la poesia di Don Pietro proprio dedicata al Natale.

NATALE
Nel cuore / di una notte / gelida, invernale / suona la campana.
I rintocchi / rimbalzano / giù, / nei profondi / anfratti / che circondano / l’abitato.
Il suono / è un richiamo: / i fedeli / si rovesciano / nella chiesa madre, / per assistere / al mistero / del Natale cristiano.
Ogni anno / una culla / riempie / di gioia, / di festa / i cuori semplici / che si aprono / alla fede.
La luce / che brillò / nel cielo / d’oriente / molti secoli fa, / ripete il miracolo / di un rinnovato / incontro / tra l’uomo / e /Dio.

Buon Natale

Stefano Gentili

http://docs.google.com/View?id=df488bnb_30d8b6dxgt

giovedì 17 dicembre 2009

GLI SPAZI PUBBLICI IN DEMOCRAZIA, IL CROCIFISSO E I SIMBOLI RELIGIOSI

Riprendo l’infuocato argomento sulla presenza dei simboli religiosi - e, quindi, del crocifisso - nei luoghi pubblici di una democrazia, ad una certa distanza dalle più arroventate polemiche. Quando posso, faccio così.


E subito chiarisco che, secondo me, la cosa …dipende…da che dipende. Da che punto guardi il mondo tutto dipende….

Può apparire buffo che canticchi il ritornello di una canzone di Jarabe De Palo.

Ma a seconda della prospettiva dalla quale guardi l’argomento la risposta può anche diversificarsi. Magari, anche no. Ma è più probabile di si.

Allora, da quale prospettiva prenderlo.

A livello di fede? A livello di forma o di sostanza? A livello di tradizione storico-culturale? A livello di identità etnica? A livello di opportunità socio-politica? A livello di società democratica e pluralista?

Senza perdermi in troppi preamboli dico che la prospettiva utile da dibattere sia quella valida per tutti, quindi quella della società democratica e pluralista nella quale viviamo.


E, andando subito al sodo, mi appare evidente che nei luoghi pubblici di una società democratica - cioè in quegli spazi dello stato e degli altri enti o organismi pubblici dove, per esercitare diritti e doveri, le persone (o certe categorie di persone) debbono in talune circostanze obbligatoriamente recarsi (aule scolastiche, tribunali, uffici amministrativi, assemblee elettive, ecc.) – sarebbe bene che non vi fossero simboli religiosi, quindi che non vi fosse neppure il crocifisso cattolico.


Or vero, vi sarebbe un’altra possibilità.

Affinché il luogo pubblico sia luogo di tutti e non della maggioranza, quindi senza privilegi, né discriminazioni per nessuno (neppure di uno solo, poiché la democrazia liberale si giudica da come tutela le minoranze), vi sono due opzioni: o si rinuncia a qualsiasi simbolo o si ammettono tutti i simboli.

E’ dinanzi agli occhi che la presenza di una pluralità di simboli rischierebbe di sfiorare il ridicolo. Pensiamo ad una parete con affissi: un crocifisso (cattolico), una croce (protestante), una croce a tre braccia (ortodossa), una stella di Davide, una mezzaluna islamica, la ruota della legge buddhista, il tao taoista e del confucianesimo, il torii shiontoista, un triangolo massonico, un cartello dell’unione atei con scritto “Dio non c’è”. No comment.


La conclusione - la ripeto: sarebbe bene che nei luoghi pubblici non vi fossero simboli religiosi - mi appare così ragionevole da essere veramente elementare.


Non sono, però, così sprovveduto da non comprendere il coacervo di emozioni che la “questione crocifisso” evoca sia in chi lo ama che in chi non lo sopporta, in chi lo vuole difendere e in chi solo utilizzare, in chi lo tollera e in chi neppure lo nota.

E comprendo anche obiezioni di tipo identitario, di storia, di cultura.

Ma a queste obiezioni si può facilmente obiettare e rispondere che la non presenza del crocifisso cattolico negli spazi pubblici non attenta minimamente all’identità, alla storia e alla cultura del nostro Paese.

Che vede, peraltro, la presenza di crocifissi e di altra simbologia religiosa cattolica in vie e piazze delle nostre città, paesi, borgate, nelle nostre chiese, nelle opere d’arte, sulle cime dei monti, sui fondali dei mari.


Non penso sia il caso che mi dilunghi troppo in questo post.

Ma se si innesta un dibattito, magari serrato, sono disposto proseguire e, nel dialogare, a continuare a dire la mia su crocifisso e identità, crocifisso e fede, crocifisso e storia europea, crocifisso e storia italiana, crocifisso simbolo universale, ad analizzare le spassose e gravi parole del ricorso del governo italiano contro la nota richiesta della la Sig.ra Soile Lautsi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

Oppure a riprendere le profonde parole di Natalia Ginzburg e Miguel De Unamuno e confrontarle con le tante parole superficiali e odiose pronunciate i giorni successivi alla sentenza della Corte europea.


Anche perché, parlando di forma e di sostanza, per come la s’intende nel linguaggio comune, mi domando cosa avrebbe fatto l’ebreo Gesù inchiodato e affisso alle pareti delle scuole in virtù di regi decreti del 1924 e del 1928 quando, con le infami leggi razziali del 1938, dalle scuole furono scacciati gli ebrei e lui lo lasciarono lì?

Certamente se ne sarebbe andato.


Stefano Gentili

mercoledì 16 dicembre 2009

DOSSETTI: QUANTO RESTA DELLA NOTTE?

Ricordo come fosse ora la mia partecipazione, in veste di Presidente della provincia di Grosseto, al rito funebre per Don Giuseppe Dossetti, che si svolse il 18.12.1996 in San Petronio a Bologna. Partecipai alle esequie perché ritenni importante testimoniare anche istituzionalmente la profonda gratitudine per uno degli ultimi grandi padri della Repubblica italiana e della Carta costituzionale.
Ieri è stato l’anniversario della sua morte avvenuta il 15.12 1996 e nel caos di questi giorni è bene richiamare questa eminente figura che, tra il 1994 e il ‘95, quando Berlusconi annunciò all’Italia cosa aveva in mente dopo aver demolito la vecchia Repubblica, abbandonò l’esilio spirituale nelle montagne della Giordania.
Tornò a Bologna e raggranellò un gruppo di costituzionalisti con un discorso che sarà poi, drammaticamente confermato.

«Parlò di una ‘mitologia sostitutiva’ con la quale il liberismo della destra aveva aperto il conflitto costituzionale.
Mitologia sostituiva’ che tendeva a sostituire la sovranità popolare ‘col mito antidemocratico, anzi idolatrato, di un potere da conservare ad ogni costo e contro ogni ragione e interesse del paese’ mediante la sollecitazione di forme plebiscitarie per ‘ridurre il consenso del popolo sovrano all’applauso del popolo sovrano’.
Dossetti ricordava il senso della sovranità del popolo custodito dalla Costituzione, che si sarebbe voluto cambiare stravolgendo ‘la volontà popolare che ha, come normale espressione, la sua rappresentanza nelle assemblee del Parlamento, e normale garanzia le istituzioni che vegliano sulla Carta Magna: presidente della Repubblica e Corte costituzionale’.

Dossetti era così preoccupato da girare l’Italia a 81 anni per lanciare l’allarme.
Ogni sera la sua voce denunciava che ‘alla Costituzione ancora formalmente e sostanzialmente vigente si sono volute opporre ipotetiche norme di una mitica Costituzione ancora non scritta, del tutto immaginarie, sulla semplice base di deduzioni ricavate solamente dalla legge elettorale maggioritaria, deduzioni del tutto infondate e senza nessun precedente in qualunque ordinamento costituzionale’» (Maurizio Chierici)
Parole profetiche quelle di Dossetti rilette appena 13 anni dopo. Attualissime, vivissime.

E nel caos calmo (?) degli ultimi mesi, mi viene da riprendere la citazione del profeta Isaia (cap.21, 11-12) che proprio Dossetti utilizzò commemorando Giuseppe Lazzati il 18 maggio 1994:
«Mi gridano da Seir Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?
La sentinella risponde: viene il mattino, e poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!»
Quanto durerà ancora questa notte delle coscienze, dell’etica, della legalità, delle false parole, dell’arbitrio, dell’indifferenza.
Quanto durerà, sentinella?
Quanto ancora dobbiamo resistere?
La memoria ancora viva di Giuseppe Dossetti rappresenta un’àncora nel cammino resistenziale.

Stefano Gentili

venerdì 4 dicembre 2009

IL PARADOSSO TRA GASPARE (SPATUZZA) E PIETRO (DI BETSAIDA)

Questa mattina ho seguito la diretta Sky della deposizione del pentito di mafia Gaspare Spatuzza al processo Dell'Utri.

Lo rammento non per entrare nel merito delle questioni sollevate, sia pure nella loro apparente enormità.


Ne parlo perché Gaspare «u tignusu» (senza capelli), l’ex imbianchino di Brancaccio, l’assassino di don Pino Puglisi e del piccolo Giuseppe Di Matteo e di molti altri innocenti per conto della mafia è da qualche tempo entrato nell’occhio del ciclone vestendo i panni dell’ortodossia del pentimento: il desiderio di pagare le colpe attraverso un percorso di redenzione.

Spatuzza studia teologia, dal 2005 ha instaurato consolidati rapporti di confidenza con vari cappellani delle carceri, dice di non aver mai rimosso lo sguardo dolce di don Pino Puglisi che sorrideva ai suoi assassini, ha chiesto al vescovo de L’Aquila la possibilità di avvicinarsi al sacramento cattolico della riconciliazione.

Per l’appunto questa sera durante la recita del Vespro il salterio mi pone dinanzi una breve lettura dell’apostolo Pietro di Betsaida, pescatore a Cafarnao.

“Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempire la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi.” (2 Pt 3, 8b-9)

Anche Spatuzza e quelli che si sono macchiati di sangue innocente come lui?

Sembra un paradosso, cioè una conclusione che appare inaccettabile perché sfida un'opinione comune. Ma il Dio cristiano è appunto paradossale.

Rimango trasecolato e lo dico.


Stefano Gentili

martedì 1 dicembre 2009

INIZIO DICEMBRE 2009 CON “IL MONDO DI SOFIA”

Prendo spunto dal recente rapporto annuale sui consumi mediatici dell'Istituto di studi sociali del Censis – il quale ci dice che volano i social network (hanno contagiato 19 milioni di italiani): Facebook, è noto al 61,6%, seguono Youtube (60,9%), Messenger (50,5%), Skype (37,6%) e Myspace (31,8%); sono stabili i cellulari, la diffusione di Internet segna un po' il passo, la lettura di libri e giornali regredisce di qualche punto percentuale – per…..consigliare la lettura di un libro.

Lo faccio anche perché secondo un sondaggio di non moltissimo tempo fa promosso dalla Mondadori tra gli italiani che non leggono è emerso che la maggior parte di costoro pensa che leggere un libro sia un’inutile perdita di tempo.


Il libro che propongo è stagionatello: edito in Italia nel 1994 dalla Longanesi (oggi alla XVII edizione), l’autore è JOSTEIN GAARDER, nato a Oslo nel 1952, il titolo è IL MONDO DI SOFIA. Romanzo sulla storia della FILOSOFIA.


Calma, calma…non arricciare subito il naso vedendo… filosofia.

Intanto perché tra le sofferenze del mondo c’è anche “la mancanza di pensiero”, poi….perché - almeno per me - inoltrarmi in questo testo è stata una piacevolissima ed esaltante avventura. L’ho vissuta nel gennaio 2007, costretto dentro una stanza.


Il Mondo di Sofia è un meraviglioso viaggio di intelletto e immaginazione che fa dare un'occhiata alla vita mediante gli occhi di un'adolescente. La protagonista del libro è Sofia Amundsen, una ragazza norvegese quindicenne che conduce una vita normale con la propria madre. Quando Sofia riceve due messaggi anonimi, è sconcertata: "Chi sei tu?" "E da che mondo provieni?"
La ragazza riceve poi dei pacchi di fogli di un corso di filosofia. E qui comincia la misteriosa avventura di Sofia.

Attraverso un misterioso modo di comunicare, Sofia diventa la studente di un filosofo anonimo, che continua a insegnarle la storia della filosofia.


Infatti, noi possiamo formulare la nostra visione della vita imparando dalle convinzioni di altre persone.
Impariamo che l’unica cosa di cui abbiamo bisogno per essere dei buoni filosofi è la capacità di farsi delle domande. Essere un filosofo è simile a guardare il mondo attraverso gli occhi di un bambino, non permettendo che il mondo si trasformi in un'abitudine.
Nonostante questo, non tutti diverranno dei filosofi. Molte persone sono così prese dalla loro vita che smettono di porsi delle domande. Il desiderio del filosofo per Sofia è che lei abbia una mente sempre pronta a chiedersi il perché delle cose. La filosofia stessa è creativa e viene presentata molto semplicemente. Sofia viene messa davanti a varie questioni filosofiche e metodi di ragionamento, per potersene creare uno proprio (abstract di Roberta V. ripreso da ‘Shvoong’).

Oltre a considerare i pensieri di Socrate, Platone, Aristotele, e i filosofi che li hanno preceduti, Alberto porta Sofia attraverso l’Ellenismo, al Cristianesimo, fino alla sua interazione con il pensiero Greco e al Medioevo. Parla inoltre del Rinascimento, del Barocco, dell’Illuminismo e del Romanticismo, e dei filosofi che hanno preso parte a questi periodi, come Cartesio, Spinosa, Locke, Hume, Berkley, Kant, Hegel, Kierkegaard, Marx, Darwin e Freud.
Naturalmente non mi metto a raccontare i momenti più magici e fantastici della storia. L’autore del libro è riuscito a inserire una vera e propria guida per principianti alla filosofia in una storia coinvolgente.


Ritengo sia un libro da non perdere.

Se fossi insegnate di filosofia, lo adotterei a scuola o, comunque, lo regalerei ai ragazzi.

A me è sembrato molto stimolante.

Ad inizio dicembre auguro a tutti i frequetantori del blog….. buona lettura.

Stefano Gentili

sabato 21 novembre 2009

SPERANZOSO BAGNASCO. LA GRAZIA NELLA DISGRAZIA

Parto da me e arrivo al cardinale.
Parto da me perché le vicende della mia vita nell’ultimo periodo (almeno dal 2003) mi hanno portato vicinissimo alla morte e anche ora, come suol dirsi, sono ‘a forte rischio’.
Pensavo tempo fa e rifletto ancora che la mia condizione di ‘borderline’ sia stata e sia una opportunità perché mi ha fatto transitare dal ‘carpe die’ al ‘memento mori’.

Non intendo dilungarmi sulla locuzione tratta dalle Odi del poeta latino Orazio (Odi 1, 11, 8): ‘carpe diem’ letteralmente significa ‘cogli il giorno’ normalmente viene tradotta in ‘cogli l’attimo’, anche se la traduzione più appropriata sarebbe ‘vivi il presente’.
La filosofia oraziana del carpe diem in realtà si fonda sulla razionale considerazione che all'uomo non è dato di conoscere il futuro, né tantomeno di determinarlo, ma la chiave di lettura che in genere se ne offre è quella di un gretto opportunismo o di un gaudente edonismo.

Anche il ‘memento mori’ (letteralmente: ricordati che devi morire) è una nota locuzione in lingua latina.
Da una particolare usanza tipica dell'antica Roma - per i generali vittoriosi che tra gli onori del rientro rischiavano di insuperbirsi e quindi veniva loro ricordata la locuzione - ai Trappisti - che adottarono la frase come motto, mentre si scavavano un po’ al giorno la fossa destinata ad accoglierli, con lo scopo di tenere sempre presente l'idea della morte e quindi il senso della vita, destinata a finire - il memento è caduto un po’ in disuso.
Mi scuso per la non richiesta ‘lezioncina’, ma oggi usare termini desueti rischia di non essere minimamente compreso dai più.

Per onestà intellettuale debbo dire che non sono mai stato preda del carpe diem nel senso più negativo e chiuso, ma probabilmente il senso della morte si era un po’ ‘estinto’ (anche questo non è del tutto vero). Sto un po’ forzando, ma neppure troppo.
Allora ho pensato che ciò che è accaduto alla mia vita fisica, alla mia salute, con la malattia, il trapianto e l’attuale dopo, non sia stato una “disgrazia” ma una “grazia”.
Potrei anche spiegare i dettagli ma non è il caso.

Ecco che allora.....ancora una volta la prolusione del cardinale Bagnasco ad Assisi è entrata nel vivo di una questione fondamentale nella vita umana, anzi nella questione antropologica centrale, meglio ancora nella mia e nella tua questione: la morte.
E l’apparente gioco di parole, ‘la grazia nella disgrazia’, lo prendo proprio da lui.
Bagnasco è entrato nel tema prendendo spunto dalla precedente riflessione sui sacerdoti e sottolineando la circostanza della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie.
Per non rovinare la bella riflessione non cito nessuna parte, ma allego l’intero breve paragrafo come link.

La preoccupazione del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana appare quella di aiutare le persone a pensare in maniera meno evasiva all’appuntamento con il grande evento.
E, in chiave cristiana, pensare che morte - giudizio, inferno, paradiso (rettamente intesi, aggiungo io) – sono tappe di una vita che va oltre la morte e sfocia nella vita eterna.

Tutto grazie a Cristo, alla sua morte e risurrezione.
E’ la ‘novella’ più ‘buona’ che abbia mai udito.
Ascoltarla annunciare di nuovo fa bene.
Stefano Gentili

http://docs.google.com/View?id=df488bnb_29fmf3mrft

venerdì 20 novembre 2009

ECCELLENTE BAGNASCO. SACERDOTI, UOMINI DELLO SPIRITO E DEL CUORE

Il cardinale Angelo Bagnasco sempre nella Prolusione di Assisi del 9 novembre, prende spunto dall’Anno Sacerdotale in corso per evidenziare “l’identità più profonda” del sacerdote di oggi.
La matrice è Gesù Buon Pastore e un’esemplarità è rappresentata dal Santo Curato d’Ars, ma non v’è dubbio che “ogni epoca ha in qualche modo il diritto di caricare la figura del prete di attese specifiche”.

E allora?
Allora, per dirla come la vedo, Bagnasco è riuscito a dare voce a ciò che spesso le persone pensano, magari senza dirlo o dicendolo a bassa voce oppure in qualche raro caso a manifestarlo con franchezza.
Quando dico 'le persone' intendo ‘noi’ gli appartenenti per scelta alla comunità cristiana, i frequentanti, gli sporadici, quelli ancora meno assidui e anche i non praticanti. Non tutti (e che ne so, io!) ma un bel campione sicuramente si. Quando si riesce ad entrare nella questione la cosa salta fuori.
Ma, insomma, cosa ha detto il cardinale.
Ha detto…ha detto.

“Nella società contemporanea, il sacerdote è chiamato ad essere, più di sempre, uomo dello spirito, ossia l’uomo che si affida anzitutto non alla ricerca di forme pastorali meglio adeguate, o a qualche raffinata scienza accademica, o ad un’organizzazione efficiente del tempo, ma ad uno scavo, ad un approfondimento inesausto, ad un’adesione interiore e amata all’essenziale della propria missione: se dovesse mancare, anche le metodiche più raffinate resterebbero inefficaci. Il sacerdote deve trovare la sorgente della santità nell’oggetto del suo sacerdozio, nella carità pastorale di cui la sua missione è come impregnata. Allora non cercherà evasioni, né cercherà compensazioni, ma sarà pago della missione che incombe sulla sua anima, e la farà fiorire nella sua personalità. E in questo processo di identificazione tra l’evento interiore e i modi esteriori, egli diventa l’uomo dello spirito, che vince sulle costrizioni della materia. «La grande sventura di noi parroci – diceva Giovanni Maria Vianney – è che l’anima si intorpidisce». Ogni vero prete non si tira indietro rispetto alla missione, e questo – a ben guardare – è tipico della figura sacerdotale che nei secoli ha preso forma nel nostro Paese. Sia che stiano nel tempio, sia che visitino le famiglie – specialmente nella benedizione annuale - sia che animino le attività pastorali, i nostri sono sacerdoti che si sentono mandati a tutti, destinati a tutti, anche ai non frequentanti, anche a coloro che sono tiepidi o freddi rispetto all’appartenenza religiosa, e per questo loro slancio devono sapere di essere da noi Vescovi ringraziati, sostenuti, ammirati. Nel testo indirizzato ad ogni sacerdote all’inizio di questo anno speciale, Benedetto XVI ricorda come il Santo Curato d’Ars, che pure si poteva intendere in un certo qual senso trasferito di abitazione nella sua chiesa, era però capace di «abitare attivamente tutto il territorio della sua parrocchia» (Lettera per l’Anno sacerdotale, 16 giugno 2009). Direi che qui c’è un tratto caratteristico del modello – se l’espressione può passare – del sacerdozio pastorale, del prete cioè che considera propria una missione coestesa a tutto il territorio a lui affidato. Non è l’uomo consacrato che semplicemente custodisce la sacralità del tempio, e colà attende che il popolo arrivi secondo rigidi orari, pur se proprio lì esercita un ruolo unico e indispensabile; egli è l’uomo conquistato da Dio per accompagnare e magari sorprendere gli abitanti del suo territorio là dove vivono, per andarli a trovare, a cercare, a scovare. In questo è, ad un titolo speciale, immagine di quel Padre che non si dà pace finché non fa sentire ciascuno dei suoi figli amati e desiderati, amati e rincorsi, amati e infine ritrovati. Essere prete è la vocazione di chi sta accanto alla propria gente come testimone di misericordia. Senza la percezione della divina misericordia, infatti, gli uomini di oggi non sopportano la verità. Per questo Cristo vuole la Chiesa maestra e madre! In un mondo dell’efficienza e privo di misericordia, ciascuno tende ad auto-giustificarsi e magari ad accusare gli altri. Fino a quando non scopre di essere già raccolto nel palmo della mano di Dio, e tenuto stretto al suo cuore divino. Già, il sacerdote è l’uomo del cuore, ne conosce gli abissi, e così diventa lo specialista di Dio. Sa cioè coltivare «quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo. […] Proprio per questo noi sacerdoti non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce. E solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo”» (Benedetto XVI, Omelia per l’apertura dell’Anno Sacerdotale, 19 giugno 2009).”

La mia vita è stata ed è costellata dalla presenza di figure sacerdotali bellissime che hanno corrisposto anche alla visione esplicitata dal cardinale. Hanno lasciato segni indelebili nella mia persona, nella formazione, nella spiritualità, nella concretezza della vita. Alcuni sono morti, altri sono vivi e vegeti.
Per tutti provo un senso di riconoscenza difficilmente esprimibile.
Come tutti gli uomini, come me, anche loro non sono stati e non sono esenti da limiti, difetti, incongruenze. E meno male! Anzi il tutto li rende più belli, perché più veri.

La riflessione di Bagnasco mi sembra, però, toccare una questione che vale la pena mettere ancora una volta sotto la lente d’ingrandimento, perché è un po’ figlia del tempo che stiamo vivendo, troppo spostato sul fronte dell’efficienza e povero di indicatori di speranza.

Sia chiaro, efficienza, organizzazione, affinamento delle capacità tecnico-pedagogiche e altro ancora, sono tutte cose buone e giuste e da coltivare in ogni campo. Quando ancora potevo insegnare ho visto sulla mia e sull’altrui pelle (quella dei ragazzi) i nefasti esiti di insegnanti che ‘sapevano’, erano pure ‘brave persone’ ma ‘non sapevano insegnare’ spesso solo per ostinazione a non volere apprendere nuove strategie, metodi, ecc., ecc.
Questo vale anche nella comunità cristiana per tutti quelli che hanno compiti educativi e per i parroci con la loro responsabilità di presiedere, talvolta dirigere (nella condivisione…) le attività pastorali.

Ma se è vero che – ormai da tempo – viviamo in tempo votato all’efficienza e svuotato di speranza, allora – probabilmente – la presenza di sacerdoti “dello spirito e del cuore”, magari anche un tantino meno efficienti e più “portatori di speranza” rappresenterebbe balsamo allo stato puro.
O no? Che dite?
Eccellente, Bagnasco, eccellente.
Stefano Gentili

mercoledì 18 novembre 2009

OTTIMO BAGNASCO: I SETTE CROCIFISSI, IL PERDONO, L’AMORE

Confesso… anch’io avevo rimosso il fatto: sette fratelli cristiani, nelle scorse settimane, sono stati “orribilmente uccisi” in Sudan, parodiando macabramente la crocifissione.
E’ l’incipit del Cardinale Angelo Bagnasco nella Prolusione di Assisi del 9 novembre 2009.
“Giovani dai quindici ai venti anni, strappati alle loro famiglie mentre pregavano in chiesa”.
Anche oggi è tempo di martiri cristiani, come lo è stato ieri, l’altro ieri, su, su sino all’epoca apostolica.
“Per quanto ai popoli della libertà talora sprecata possa sembrare incredibile, e quasi impossibile - annota Bagnasco - il sacrificio della vita è ogni anno richiesto a un numero elevato di operai del Vangelo”.

L’evento di per sé choccante, purtroppo non sorprende.
Andrea Ricciardi nella pubblicazione Il secolo del martirio. I cristiani del Novecento, Ed. Mondadori 2000, introduceva: “Sono entrato nel grande archivio della Commissione Nuovi martiri, dove sono raccolte lettere, segnalazioni, memorie che, in questi ultimi anni, sono arrivate da ogni parte del mondo a Roma. Ho cominciato a sfogliarle. Sono lettere ufficiali di conferenze episcopali. Ma anche memorie di congregazioni religiose. Leggevo e mi sono appassionato. C’erano storie di migliaia di uomini e donne contemporanei: cristiani uccisi in quanto tali. Mi scorrevano sotto gli occhi le pagine della persecuzione religiosa in Russia dal 1917, le storie delle vittime del nazismo, quelle di tanti missionari, le vicende di cristiani uccisi in ogni parte del mondo. Qualcuna è nota, come quella di mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso nel 1980 mentre celebrava l’Eucarestia. La maggior parte è sconosciuta. Mi sembrava di non conoscere bene questo aspetto della vita della Chiesa del Novecento. Non potevo dire di ignorare la storia di tante persecuzioni e dolori, ma mi sono reso conto di quanto fosse estesa e profonda. (…) Non è solo la storia di qualche di qualche cristiano coraggioso, ma quella di un martirio di massa. I cristiani uccisi lungo il nostro secolo sono centinaia di migliaia”.
Nella costola di sovra copertina si dice: “Dal genocidio degli armeni del 1915 fino ai massacri di Timor Est del 1999, passando per il comunismo bolscevico, il nazismo, i regimi dittatoriali dell’America latina, le tragedie dell’Africa, l’oppressione dell’Islam integralista, le vittime della mafia. Si disegna un fenomeno di massa difficile da quantificare: almeno tre milioni, ma sicuramente di più, di cristiani assassinati”.
Cristianamente tutti costoro sono “pietre vive, scolpite dalla Spirito, con la croce e il martirio, per la città dei santi” (da un Inno del Breviario). Ma sono tanti…..

Il Cardinale parla dell’episodio del Sudan evidentemente impressionato, ma la ricetta che propone non è bellicosa; anzi, rifacendosi al Sinodo per l’Africa da poco conclusosi a Roma riprende alcuni degli insegnamenti venuti da quell’assise.
E ribadisce che “per ragioni storiche come per i drammi politici recenti, l’Africa ha bisogno di ritrovarsi attorno al focolare del perdono e del rinnovamento, come condizione indispensabile di ogni dinamismo aperto al futuro”.
In questo quadro cita l’intervento di una testimone donna presente al Sinodo (donne che definisce spina dorsale del continente) per precisare che c’è bisogno di una riconciliazione che “non consista tanto nel rimettere insieme persone o gruppi, quanto nel rimettere tutti in contatto con l’amore e lasciare che avvenga la guarigione interiore”.
Già l’Amore, l’annuncio del Vangelo.
Ottimo!... cardinale. Ottimo. Vanno lette le Prolusioni e pure meditate.
Stefano Gentili

lunedì 16 novembre 2009

SPLENDIDO BAGNASCO. "AFRICA": PAROLE FORTI, ASCOLTO DEBOLE. DENUNCIA DELLE STRUTTURE DI PECCATO

"Parole forti sono state pronunciate" durante il Sinodo per l’Africa riunitosi in Vaticano dal 4 al 25 ottobre 2009, ma "hanno avuto un ascolto debole, anche per il rilancio troppo flebile che i media internazionali hanno riservato a questo appuntamento", lamenta nella Prolusione di Assisi del 9 novembre il Cardinale Angelo Bagnasco.

Eppure, "per i cittadini e i Paesi del Nord del mondo, il recente Sinodo sull’Africa doveva essere l’occasione propizia per una disinteressata disamina delle proprie responsabilità. Così ci saremmo potuti scuotere dall’apatia con cui generalmente si guarda a quel grande Continente che a troppi fa comodo mantenere in una indegna subalternità. Chi non sente oggi il desiderio di uscire finalmente dai luoghi comuni infarciti di stucchevole pietismo? Parole forti infatti sono state pronunciate sui ‘tossici rifiuti spirituali’ che le regioni ricche della terra scaricano sulle povere, sui conflitti armati dovuti, più che al tribalismo, all’ingordigia delle multinazionali protese ad uno sfruttamento in esclusiva delle risorse strategiche, e su certo colonialismo ‘finito sul piano politico’ ma ‘mai del tutto terminato’ sul piano culturale ed economico".
Parole chiare….

Il cardinale ha ricordato come la "mancanza di cibo" continui ad essere il flagello principale dell’Africa e quindi il raggiungimento della "sicurezza alimentare resta l’obiettivo primario, specialmente in tempi di crisi economica".
Il messaggio forte e chiaro era rivolto a tutti, ma anche riferito al tema della Giornata mondiale dell’Alimentazione che cade oggi, 16 novembre, giorno in cui si apre un Vertice mondiale dei capi di Stato e di governo.

Vertice nel quale sarà letto un Messaggio del Papa, inviato al direttore generale della Fao Jacques Diouf, in cui avverte - dice proprio avverte! Bagnasco - che l’accesso al cibo, prima di essere un ‘bisogno elementare’, è ‘diritto fondamentale delle persone e dei popoli’.
Infatti, senza retorica, moralismi, predicozzi vari, sempre Benedetto XVI - nell’enciclica Caritas in veritate - aveva ricordato che il dramma della povertà può essere superato solo "eliminando le cause strutturali che lo provocano (l’accesso al cibo) e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale".
Cause strutturali….

E sempre nel messaggio, invita a cambiare stili di vita, mettere da parte privilegi e profitti, promuovere lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri, per sconfiggere il flagello della fame, che colpisce oltre un miliardo di persone nel mondo. "Si tratta – sottolinea Benedetto XVI - di una concreta manifestazione del diritto alla vita, che, pur solennemente proclamato, resta troppo spesso lontano da una piena attuazione".

Infatti, chiosa Bagnasco, "dal punto di vista scientifico ormai è assodato che il fenomeno della fame non dipende tanto dalla scarsità materiale delle risorse quanto da fattori sociali e istituzionali, ai quali occorre volersi applicare senza ulteriori esitazioni. Nell’arco di alcuni decenni bisognerà saper procurare il 70 per cento di cibo in più se si vuole non far trovare la credenza vuota quando la popolazione mondiale sfiorerà – a metà del secolo – i nove miliardi di persone".
E riprendendo un’omelia del Papa ricorda che " ‘la via solidaristica allo sviluppo dei popoli’ è di per sé non una complicazione ma ‘un progetto di soluzione della crisi globale in atto’, dunque un traguardo perseguibile dalla volontà politica dei cittadini e dei governi. E la stessa ‘globalizzazione è una realtà umana e come tale è modificabile secondo l’una o l’altra impostazione culturale’ ".
Impostazione culturale. Uhm!...

La Chiesa non parla e basta, anche se parlare è la prima fondamentale cosa che è necessario fare. Anzi, è proprio il silenzio la cosa sconcia!
La comunità cristiana, dice Bagnasco, per tutto questo non si tira indietro, e citando di nuovo il Papa ribadisce che "la Chiesa si impegna anche ad operare, con ogni mezzo disponibile, perché a nessun africano manchi il pane quotidiano" (Omelia per la Conclusione della II Assemblea speciale per l’Africa, 25 ottobre 2009).

Dunque, non è eticamente autorizzato alcun atteggiamento fatalista.
La Chiesa continua nel suo impegno, anzi lo ribadisce col rinforzo.

Me gusta, me gusta. Me gusta soñar.
Stefano Gentili

sabato 14 novembre 2009

LA BELLISSIMA PROLUSIONE DEL CARDINALE BAGNASCO E..."NOI"

Bellissima e di ampio respiro la prolusione del Cardinale Angelo Bagnasco durante l’ultima Assemblea dei Vescovi ad Assisi (9 novembre).
Stringatissimo e asfittico il resoconto di tutta la stampa italiana, a parte Avvenire che ha pubblicato l’intero documento.

Della prolusione basti ricordare il titolo, Chiesa al servizio dell'umanità e i titoletti dei paragrafi (non sul testo, ma indicati da Avvenire):
I sette crocifissi, la via di Cristo
Africa: parole forti, ascolto debole
Missionarietà: anglicani e impegno per l’unita’ dei cristiani
Sacerdoti, uomini dello spirito e del cuore
Non mimetizzare la morte, spiegare la risurrezione
Questione mediatica, sfide culturali
L’Europa, i suoi valori, certe surreali imposture
I principi non negoziabili condizione del confronto
Urgente svelenire il clima politico-mediatico

Per fare una semplice comparazione: la prolusione scritta è stata di 7.559 parole, l’ultimo paragrafo (dove si parla non solo di clima politico e mediatico, ma anche delle tragedie dell’Abruzzo e di Messina, del Sud e del lavoro, dei molti soggetti che hanno doveri politico-amministrativi, economico-finanziari, sociali, culturali, informativi) di 748 parole, quelle in genere riportate dalla stampa e riferite al clima politico attuale di solito titolate “In Italia c'è un pericoloso clima d'odio”, 155 parole.

Mentre scrivo questo post, mi viene da sorridere, tanto che non riesco a commentare…...Ma la mia intenzione non è quella di fare la solita critica ai mezzi di informazione, bla, bla, bla, (tanto è evidente!). Non ho più tempo per le solite cose.

No, no. Penso a "noi", alle comunità cristiane, ai preti, alle suore, ai monaci e alle monache ai cristiani-laici: l’hanno letta? La leggeranno?
Mah!
Stefano Gentili

mercoledì 11 novembre 2009

"SUPER TOTTI" "SUPER SIMO" ... "SUPER DI CHE?" IO DICO DI "NO"

In certi casi il nostro parlare deve essere si, si o no, no, il resto è del maligno.
In una recente trasmissione di “Quelli che il calcio” condotta da Simona Ventura è stata data una lezione pubblica disdicevole passata con una straordinaria leggerezza dell’essere.
La lezione riguardava gli attualissimi trans prendendo spunto dalla vicenda Marrazzo.
Siccome ho trovato una breve riflessione di Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera del 10 novembre, nella quale mi riconosco in modo totale, non aggiungo altro, la copio e incollo e la ritrasmetto.

Il titolo è: “Quando la tv non fa il suo mestiere”. Ecco il testo in corsivo.
“Ognuno è libero di fare quel­lo che vuole”. Così Francesco Totti a “Quelli che il calcio”, parlando della vicenda Marrazzo. Simona Ventu­ra gli dà ripetutamente ragione, poi fuo­ri programma spiega: “Sono tantissimi quelli che vanno coi trans, e lo sappia­mo tutti. Non è giusto che un personag­gio pubblico non possa farsi gli affari suoi come tutti gli altri”. Se questa è la pedagogia televisiva italia­na, buonanotte.A Super Totti si potrebbe obiettare che uno NON è li­bero di fare quello che vuo­le, se è costretto a nascon­derlo agli elettori, se si ridu­ce a frequentare spacciatori, se si rende ricattabile. A Su­per Simo potremmo invece ricordare che sono moltissimi — forse addirittura più numerosi — gli italiani che NON vanno coi trans, e forse han­no fatto alcune cose buone per questo povero Paese, dove la Tv pubblica di­venta veicolo di queste trovate.Nessuno vuole usare la televisione per fare della morale (per carità!), ma cerchiamo almeno di non renderla im­morale, perché molti ragazzi la guarda­no, e rischiano di alzarsi dal divano con le idee confuse. Le grandi democrazie — vi sembrerà strano — sono tali an­che perché esiste un consenso su alcu­ne cose. Per esempio, sul fatto che il ti­tolare di una carica pubblica non deb­ba circondarsi di prostitute, frequenta­re malavitosi e pagare trans. E, se lo bec­cano, non possa trovare difensori in un programma sportivo (sportivo!) del po­meriggio.È ipocrisia? Allora viva l’ipocrisia. Sono considera­zioni banali? Vero, ma è in­credibile come non le faccia più nessuno. Il metaboli­smo civile italiano, ormai, brucia il veleno e lo trasfor­ma in una risata. Poi non la­mentiamoci, però, se non abbiamo un bel colorito na­zionale.
Siamo convinti che Piero Marrazzo, passata la buriana, ci darebbe ragione. Sarebbe bello lo facessero anche Super Totti e Super Simo. Ma lo riteniamo im­probabile. Le celebrità italiane non si scusano; accusano, semmai, e c’è sem­pre qualche frastornato che gli dà ragio­ne.
Bravo Beppe, anch’io dico "no", così non va bene.
Stefano Gentili

lunedì 9 novembre 2009

COSTRUZIONE E CADUTA DEL "MURO DI BERLINO"

Nel ventennale della caduta del Muro di Berlino anch’io vorrei dire qualcosa.
Ma, confesso, che preferisco ascoltare e gustare perchè le parole vere stentano e molti altri sanno rappresentare l’evento in maniera più pertinente.
Cogliere i cambiamenti che vi sono stati dal 1989 al 2009 è facile ed è esprimibile in modo semplice: è mutato il mondo, l’Europa, l’Italia.
Nel nostro paese è cambiata…la società.
Ieri è stato detto che è mutato “il suo rapporto con le istituzioni, il suo rapporto con se stessa, la percezione che gli individui hanno della propria felicità”.
E ciò richiede meditazione perché “coinvolge i modi di pensare, i comportamenti, il rapporto dei padri con i figli, l’assetto delle famiglie, la politica, la democrazia”.

Già i figli, il prossimo futuro.
Penso a mio figlio Giovanni nato nel 1988, un anno e sette mesi prima della caduta del Muro e ripenso a me nel 1961 (anno della costruzione) all’età di 4 anni e provo a ripensare al clima di quegli anni che ho compreso solo dopo e… a come eravamo e…come siamo.

Ma penso a mio figlio Giovanni anche perché durante il primo anno di frequenza (2007-8) all’Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Studi Internazionali, nel corso di Storia contemporanea, ha elaborato un piccolo lavoro dal titolo: “LA COSTRUZIONE DEL MURO DI BERLINO (1961) IN TRE GIORNALI DELL’EPOCA: IL CORRIERE DELLA SERA – L’UNITÀ – L’AVANTI!”
Credo sia interessante dargli uno sguardo, pur nella consistenza dello sforzo di un giovanissimo studente e, avuto il suo OK!, lo allego per chi magari volesse vedere come fondamentali giornali dell’epoca vedevano e veicolavano la cosa.

I muri…
I muri non servirebbero mai, ma la storia talvolta li richiede.
I muri più duri da abbattere sono quelli eretti dentro di noi.
Evviva la caduta del muro di Berlino, abbasso tutti i muri ancora eretti, e quelli che altri uomini in futuro costruiranno.
Segue il link con il testo di Giovanni.

http://docs.google.com/Doc?docid=0AelYtIZZ0cU5ZGY0ODhibmJfMjdmN25zN2pmZA&hl=en


Stefano Gentili

martedì 27 ottobre 2009

LA POLISPORTIVA SAN ROCCO DI PITIGLIANO “ANTICIPA” JOSÉ MOURINHO

Mi ha colpito qualche giorno fa la piccola strigliata di José Mourinho a Mario Balotelli.
“Sarà comunque in campo. Non penso che sia un fenomeno perché ha fatto una partita eccezionale a Genova, ma una settimana di lavoro pessima. Stavolta non ho opzioni e giocherà, ma deve lavorare ancora molto. Perché alterna grandi prestazioni a settimane così? Ho parlato con Pea, allenatore della Primavera, e lui che lavora con i ragazzi da tempo mi ha detto che è un problema di generazione, delle persone che girano intorno ai giocatori e che questi fanno le vittime. Un ragazzo di 19-20 che ha genitori equilibrati che non pensa ai soldi, il fratello e la sorella che lo seguono senza disturbare, un ragazzo che è felice di guidare una macchina piccola: questa è l’eccezione, il miracolo. È un problema che riguarda anche Santon? Lui è stato obiettivo e molto sincero. Ho capito quello che mi ha spiegato. È un cosa tipica dei giocatori italiani”.

Il portoghese ha attratto la mia attenzione perche ha messo i piedi sul piatto di una verità nota, ma che si lascia sempre sotto il tappeto: l’incapacità educativa di molte persone che operano con i ragazzi specie nell’ambito sportivo e l’inconsistenza personale di non pochi ragazzi, causata spesso dall’inconsistenza culturale delle famiglie.

Subito come un controcampo mi è venuta in mente una realtà locale che opera nella direzione opposta e sulla quale da tempo volevo intervenire, la Polisportiva San Rocco di Pitigliano e… l’assist dell’allenatore interista è stato troppo invitante.

Non è mia intenzione trattare della Polisportiva nel senso delle sue attività e dell’esplosione di interesse e di adesioni che ha avuto: per questo c’è il sito www.polisportivasanrocco.org facilmente consultabile.
No, a me interessa la risposta offerta a José Mourinho.
E quella della San Rocco mi sembra adeguata e partita prima: evidentemente avevano analizzato la gara nello stesso modo.

Nata 2 anni fa – si dice nella home del sito - con “lo scopo di permettere a giovani e adulti che lo desiderino e ne facciano richiesta la pratica di sport, compresi quelli che, solitamente, non trovano spazio nel nostro territorio” la Polisportiva San Rocco ebbe subito a dichiarare l’architrave della sua costruzione: “la cura dell'aspetto educativo dei ragazzi è l'obiettivo principale e lo scopo prioritario è quello di costruire un luogo di aggregazione dove tutti, famiglie comprese, possono essere protagonisti e dare un piccolo contributo alla sicurezza dei nostri figli”.

Posso confermare che non è stata una risposta solo teorica (la cura dell’aspetto educativo dei ragazzi), ma i responsabili dell’associazione e tutti gli operatori hanno cercato e tuttora cercano di applicarla quotidianamente. con le inevitabili fatiche, i successi e gli insuccessi propri di tutte le attività umane.

E sento l’esigenza di ringraziarli per questo.
Dovrei fare un lungo elenco per ricordare tutti e non posso, ma non posso neppure non citare nessuno. Me la cavo furbescamente citando le persone indicate nel sito alla voce ‘contatti’: Augusto Ronca, Emilio Zacchei, Luigi Bisconti, Luciano Raso.

Tutto qui… e “vi pare poco”?
Stefano Gentili

domenica 25 ottobre 2009

IL BEATO CARLO GNOCCHI CI RICORDA CHE "DONARE GLI ORGANI" E' BELLO E FA BENE

Poi, tante volte, dici le cose…
Circa dieci giorni fa è giunto a casa mia un opuscolino edito dalla Fondazione Don Carlo Gnocchi descrittivo di brevi e significativi momenti della vita del sacerdote Don Carlo. Tra le cose che non conoscevo c’era anche che può essere considerato come un profeta del dono d’organi. Si legge a pag. 12 “Minato da un male incurabile muore a Milano il 28 febbraio del 1956 e l’ultimo suo gesto è la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti, quando in Italia il trapianto d’organi non era ancora regolato dalla legge”.

Pochi giorni prima sistemando il materiale cartaceo del passato ho ritrovato la mia tessera dell’AIDO (Associazione Italiana Donatori d’Organi) – la n. 1491 del 17 gennaio 1986 – nella quale dichiaravo "di accettare di essere donatore di organi ed essere regolarmente iscritto presso la sezione di Grosseto via Ginori, 13".
Ricordo di aver aderito all’associazione grazie all’opera di sensibilizzazione fatta presso l’I.T.G.C. di Zuccarelli di Pitigliano dall’allora responsabile di zona, Franco Giulietti.

Mi è tornato alla mente che ho conservato lungamente nel mio portafogli la tesserina ricevuta nel maggio del 2000 (spedita a casa, mi pare, a seguito della cosiddetta legge del "silenzio assenso", quella che disponeva in materia di prelievi e di trapianti di organi e tessuti) recante il mio nome, cognome, data di nascita, codice fiscale, dichiarazione di volontà, data e firma e quindi il mio assenso alla donazione.

Ricordo con sincerità che mentre compivo la scelta del 1986 e la riconfermavo nel 2000, non mi passava per l’anticamera del cervello che una opportunità del genere sarebbe potuta capitare anche a me.
Mi appariva bello e doveroso pormi sulla linea del dono anche fisico, al tempo opportuno.

La malattia che stava per prendermi non si era ancora manifestata.
Poi, inatteso, ci fu il decollo del male fisico, il non lungo percorso e l’inizio della picchiata. Vicino allo schianto, circa alle 4 di mattina dei primi giorni di gennaio 2007, una telefonata dalle Scotte di Siena ci avvisava che probabilmente era a disposizione un organo donato.
Ricordo ancora quelle sensazioni: il sobbalzo dei figli, i pensieri e i dialoghi con Rossella durante il trasporto col 118, l’arrivo a Siena prima delle 7, il chirurgo di valore e umanità, le care dottoresse che mi avevano seguito fin lì in contatto telefonico, le procedure, il via….
Poi rammento quelle di…qualche giorno dopo, in rianimazione, con immediatamente accanto professionali volti nuovi e quando possibile, poco oltre, gli amati volti di sempre.
E così la mia vita ha continuato ad essere tenuta in vita…dalla vita donata da un’altra persona.
Già, la vita...“quando credi sia finita /un'occasione nuova avrai, /ma chi l'avrebbe detto mai” (come canta Morandi in Grazie a tutti).

Mi fermo su quanto mi riguarda, ma potrei dilungarmi molto. Non l’ho mai fatto finora.
Aggiungo solo la gratitudine che provo per la persona donatrice e la sua famiglia, che non conosco ma….è come se lo fosse. E di tutte le famiglie che hanno reso possibile doni come quello che io ho ricevuto verso altre persone. Come anche l’affetto per le famiglie che non hanno potuto vedere continuare a vivere i loro cari per mancanza di organi disponibili.

Ho dovuto parlarne, con una certa fatica, perché ho sperimentato sulla mia pelle la grandezza di questo “dono” che porterò con me fino a quando, finalmente, potrò restituirlo ad altri.

Sono partito da Don Carlo Gnocchi che oggi - 25 ottobre 2009, giorno della sua nascita (avvenuta nel 1902) - viene solennemente proclamato Beato e poi ho parlato di me.
Nessun parallelismo, naturalmente.

Soltanto l’occasione per ricordare con don Carlo che donare fa bene e rendersi disponibili alla donazione degli organi fa meglio. Parola di uno che se ne intende.
Quindi, forza gente: rendiamoci disponibili al dono.

Stefano Gentili

mercoledì 21 ottobre 2009

IL "CUORE DILATATO" DI DON LIDO

Tra pochi giorni il sacerdote don Lido Lodolini – attuale parroco di Manciano – rientrerà dalla nuova visita in un’area di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso. Recenti inondazioni hanno moltiplicato le endemiche problematiche locali ma, in verità, la sua andata era programmata da tempo.

Perché mi soffermo su questa conosciuta attività di don Lido?
Vi sosto per ricordare il cuore grande di questa persona che, sin da giovane, ha accettato di porsi alla sequela di Gesù Cristo (quindi anche a servizio di ‘tutti i cristi’) lungo la via sacerdotale.
Nell’affresco del dono della vita ha preso colore nel tempo l’attenzione concreta per le persone in difficoltà, specie della terra africana.
Così, accanto ad incroci con altre micro-situazioni del mondo, è nato il sodalizio con Ouagà.

Durante lo scorso luglio ho trascorso con lui alcuni giorni di riposo: passeggiate (lui lunghe, io brevi), letture, preghiere. In certi momenti della giornata io mi occupavo del pranzo o della cena e lui si dedicava a rimettere in ordine l’archivio di tutta l’attività burkinese.
La riservatezza sul materiale che riguarda persone, donazioni, intenti, mi ha consentito solo di conoscere la mole complessiva del lavoro svolto.
Ma tanto basta: 16 anni di attività (dal 1994 al 2009), visite annuali (gennaio-febbraio) e in qualche caso in altri mesi, molte migliaia di euro di valore complessivo transitato tra adozioni, progetti, materiale ed altro, realizzazioni materiali relative a pozzi, strutture sanitarie, scuole, abitazioni, luoghi di micro-lavoro, e altro che non ricordo, realizzazioni immateriali di piccoli corsi di avviamento al lavoro.
L’attività è stata contagiosa perché nel tempo ha coinvolto un numero crescente di persone delle nostre zone sia in veste di adottanti (tantissimi) che di volontari (alcune decine di persone, più vicine a cento che a cinquanta).

Ma ovviamente c’è di più. Don Lido e la sua Band non hanno solo dato, hanno anche ricevuto: hanno portato amore e valige piene di aiuti concreti e hanno ricevuto valige vuote, ma piene di volti riconoscenti.

Qualche giorno fa stavo cercando, se possibile, lo “stupefacente” (non quello pericoloso) nell’ordinario e mi è balzata alla mente la “straordinaria-stupefacente” esperienza che don Lido ha avviato nella quotidianità di una vita donata.

Allora mi sono detto: è bene ricordarlo!
E se pure don Lido, come certamente farà una volta letto il post, mi chiamerà per dirmi “…rincitrullito”, penso che sia l’ora di farla finita di continuare con quella rigidità glaciale che spesso ingabbia noi adulti e ci impedisce di dire anche le cose belle che pensiamo gli uni degli altri.

Grazie don Lido, sacerdote dal “cuore dilatato”.

Stefano Gentili

venerdì 9 ottobre 2009

LE CATASTROFI, NOI E LE GENERAZIONI FUTURE

Enzo Boschi non sarà né santo né santone, ma le sue qualità sono evidenti.
In una breve riflessione fatta sul Magazine del Corriere della Sera (8 ottobre 2009, pag. 27) riferendosi alle violenze dei terremoti e alla devastazione delle città si pone le due classiche domande: si poteva prevenire? Si poteva prevedere?
Come ha fatto altre volte, risponde NO alla prima domanda e SI alla seconda.
“Prevedere un terremoto può forse salvare vite umane – sempre che si riesca a organizzare evacuazioni ordinate – ma non salva le case in cui l’uomo vive, i suoi viadotti, le sue centrali elettriche”.
Al contrario “prevenire gli effetti di un terremoto atteso costruendo in modo adeguato salva sia l’uomo, sia i suoi beni, sia la civiltà”.
“Cosa impedisce – si domanda - all’uomo del XXI secolo di capire questa differenza? Una delle ragioni è certamente il costo della prevenzione, associata a un certo fatalismo che è tipico di molte culture tra cui la nostra”.
Ricordava infatti Kofi Annan, Segretario Generale dell’Onu, nel 1999: “I costi della prevenzione si pagano oggi, i benefici si vedranno in un futuro anche distante; e saranno scarsamente tangibili, perché rappresentati dalle catastrofi che saranno evitate”.

E’ un autentico balzo esistenziale-culturale-politico quello che c’è da compiere, anzi, di più, ci vuole una conversione.
Perché gli ostacoli sono molti.

Ne segnalo tre.
Il primo è esistenziale e rischia di sfociare nella rozzezza: è l’idea che tutto quello che esiste e la sua durata coincida con l’arco della nostra esistenza. E quindi, dopo, chi se ne frega.

Il secondo è culturale e si chiama non curanza, repulsione per le regole, primato del 'faccio quel cavolo che mi pare', come costruire edifici sulle anse dei fiumi, sulle pendici dei vulcani o in aree statisticamente a rischio, trasformare fiumare in discariche o strade.

Il terzo è l’antipolitica: sia ‘l’antipolitica- politica’ che ‘l’antipolitica-antipolitica’.
La prima è quella di chi esercita la nobile arte della polis incurante di quello che fa per il piccolo spazio che amministra e non pensa alle ricadute presenti e future delle sue azioni; pensa a sé, al suo potere, alla sua permanenza.
La seconda è quella di chi la rifiuta perché ritiene che proprio non serva.
Cosa da comprendere diversamente è l’antipolitica da schifo.

Avere lo sguardo lungo, prendersi cura, volere e sapere programmare sono tre antidoti contro le tre derive. Ma tutto si riassume in uno dei termini più belli del nostro lessico: responsabilità.

Si, si, lo so che ritorno al solito fascista me ne frego e al solito milaniano mi prendo a cuore, ma se non si cambia rotta…poi, quando accadrà di nuovo, vattelo pure a prendere... con la Natura, con l’Eterno, col Fato.

Stefano Gentili

giovedì 8 ottobre 2009

IL LODO ANGELINO

Pensare che con Angelino Alfano facevamo parte di quel gruppo di persone che dietro iniziativa di Lapo Pistelli animavano una rivista di approfondimento del Centro Toscano di Documentazione Politica di Firenze: Centocittà.
Vedi un po’ la vita…
Ma non è di questo che voglio parlare.
Desidero solo mettere un post sulla pronuncia della Corte Costituzionale di ieri pomeriggio.
Mi avvalgo di un equilibrato articolo di Giovanni Bianconi pubblicato questa mattina sul Corriere della Sera dal titolo: Il no dei 5 giudici nominati dal Quirinale.
A me è piaciuto per la sua tranquilla chiarezza e quindi mi permetto di veicolarlo.

“È arrivata la decisione che s’intravedeva già prima della discussione e della camera di consiglio. Nelle ultime settimane i giudici costituzionali avevano studiato e cominciato ad affrontare tra loro il nodo del Lodo Alfano, sciogliendolo (a maggioranza) con l’idea di rispedire al mittente una legge illegittima.
L’altro ieri hanno ascoltato gli avvocati, tutti schierati a difesa della norma bloc­ca-processi per le più alte cariche dello Stato, ma senza cambiare idea. Anzi. Qualche accen­no nelle arringhe ha convinto almeno un pa­io di indecisi a dire che proprio no, un Lodo così fatto e così scritto non andava bene.
Qualcuno nella minoranza di chi voleva salvare la norma, almeno nella parte che so­spendeva il processo milanese a carico di Sil­vio Berlusconi per la presunta corruzione del­l’avvocato Mills, ha provato a proporre le co­siddette «soluzioni intermedie»: sancire l’in­costituzionalità ma sanandola con una sen­tenza che lasciasse intatta la parte che più in­teressava il governo e la maggioranza che lo sostiene. Non ce l’ha fatta, e nemmeno ha in­sistito più di tanto. Ha capito in fretta, dopo la decisa introduzione del relatore Gallo, che le sue argomentazioni erano troppo deboli ri­spetto al «macigno» già individuato dalla maggioranza dei giudici: una legge illegitti­ma due volte, nella forma e nella sostanza. Perché doveva essere costituzionale e non or­dinaria; e perché il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge è uno di quei capisaldi che per essere intaccato ha bisogno di tali giustificazioni, filtri e controfiltri (co­m’era ad esempio la vecchia immunità parla­mentare abrogata nel ’93) che forse il Lodo Alfano non sarebbe andato bene nemmeno nella veste di una riforma della Costituzione. Ovviamente bisognerà attendere le moti­vazioni della sentenza, ma ieri sera era que­sta la più accreditata interpretazione della de­cisione della Corte.

Le voci che filtrano dalla riservatezza che avvolge il palazzo della Con­sulta parlano di una votazione finita 9 a 6 in favore della bocciatura, ma qualcuno ipotiz­za un scarto addirittura maggiore, 10 a 5 o anche di più. Circolano liste di nomi coi voti espressi, verosimili ma senza certezze. Nel­l’elenco di chi avrebbe voluto mantenere in vita la legge ci sono i tre giudici votati dal Parlamento e indicati dal centrodestra (Fri­go, Mazzella e Napolitano) più due o tre elet­ti dalle alte magistrature. Tutti gli altri si so­no detti contrari (compresi i cinque nomina­ti dal capo dello Stato e il presidente della Corte Amirante, che nel 2004 aveva steso le motivazioni della bocciatura del Lodo Schifa­ni), al termine di una camera di consiglio dai toni rimasti sempre pacati e tutto sommato sereni. Anche da parte di chi vedeva profilar­si la sconfitta e ha tentato di scongiurarla confidando sui desideri istituzionali di una soluzione meno traumatica.

Nemmeno l’argomento che ancora ieri se­ra veniva sbandierato dai parlamentari del centrodestra (la sentenza sul Lodo Schifani non aveva detto che serviva una legge costi­tuzionale) ha fatto breccia tra i giudici. Che in grande maggioranza, 11 su 15, non faceva­no parte del collegio del 2004. Però sanno leg­gere le motivazioni dei giuristi; è vero che nel precedente verdetto è scritto che il vec­chio Lodo era illegittimo «in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione», senza men­zionare il 138 che regola le riforme della Car­ta, ma subito dopo c’era un’aggiunta: «Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità co­stituzionale ». Il che può significare che una volta individuate le due violazioni citate pote­vano essercene anche altre, ma si decise di non entrare nel merito. Perché considerate «assorbite», appunto, dalla prima bocciatu­ra.

Questa dunque la sintesi della discussione di palazzo della Consulta, per come s’è svolta sul piano tecnico e giuridico. Però tutti i giu­dici erano consapevoli che la loro decisione avrebbe avuto anche significati ed effetti poli­tici, e quindi può esserci una lettura anche «politica» della sentenza. C’è chi pensa, ad esempio, che con questo verdetto la maggio­ranza degli inquilini della Consulta ha voluto rivendicare la propria autonomia rispetto a qualunque pressione o tentativo di influenza­re le proprie decisioni; dai più felpati ai più espliciti, come la drammatizzazione dell’atte­sa nei palazzi della politica, gonfiata dalle di­chiarazioni sempre più allarmate accavallate­si fino a pochi minuti prima della sentenza.
La Corte ha fatto vedere di essere imperme­abile a tutto ciò, e ha fatto sapere che se si vogliono riformare la Costituzione e i suoi principi fondamentali bisogna farlo con chia­rezza e con le procedure previste, non attra­verso qualche scorciatoia. È come se le argo­mentazioni usate nell’udienza pubblica dai difensori di Berlusconi su una Costituzione materiale ormai diversa da quella scritta — quando l’avvocato Pecorella ha evocato un capo del governo eletto direttamente dal po­polo; o quando l’avvocato Ghedini ha soste­nuto che la legge è uguale per tutti ma la sua applicazione no — avessero svelato un tenta­tivo di cambiare le regole (o darle per cambia­te) senza rispettare le procedure. Disegnan­do una situazione di fatto diversa da quella scritta nelle leggi, e prima ancora nella Costi­tuzione.
Così non è e non può essere, hanno stabilito i giudici della Consulta.
Certamente alcune immunità o protezioni dai processi penali si possono prevedere e stabilire, ma as­sumendosi la responsabilità di farlo con gli strumenti adeguati. Che non a caso prevedo­no l’ipotesi del referendum confermativo. Passando da quella porta la riforma è pratica­bile, altrimenti no. Anche quando le esigenze della politica fossero diverse”.

A me sembra tutto molto chiaro.
Stefano Gentili

martedì 15 settembre 2009

VIVA L'ITALIA CHE RESISTE

Viva l'Italia, l'Italia liberata,
l'Italia del valzer, l'Italia del caffè.
L'Italia derubata e colpita al cuore,
viva l'Italia, l'Italia che non muore.

Viva l'Italia, presa a tradimento,
l'Italia assassinata dai giornali e dal cemento,
l'Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,
viva l'Italia, l'Italia che non ha paura.

Viva l'Italia, l'Italia che è in mezzo al mare,
l'Italia dimenticata e l'Italia da dimenticare,
l'Italia metà giardino e metà galera,
viva l'Italia, l'Italia tutta intera.

Viva l'Italia, l'Italia che lavora,
l'Italia che si dispera, l'Italia che si innamora,
l'Italia metà dovere e metà fortuna,
viva l'Italia, l'Italia sulla luna.

Viva l'Italia, l'Italia del 12 dicembre,
l'Italia con le bandiere, l'Italia nuda come sempre,
l'Italia con gli occhi aperti nella notte triste,
viva l'Italia, l'Italia che resiste.
(da Viva l’Italia di Francesco De Gregori - 1979)

Stefano Gentili

venerdì 26 giugno 2009

PROVINCIALI 1995 E 2009: UN CONFRONTO TRA VINCITORI E VINTI

Sono trascorsi 15 anni dalla prima elezione diretta del Presidente della Provincia di Grosseto (come in tutta Italia) e di acqua sotto i ponti ne è passata.
Mettere a confronto i risultati dei 2 ballottaggi (quello del 1995 e quello recente del 2009) può essere utile per analizzare l’accaduto.
A me sembra che vi siano indicazioni interessanti. E voi cosa dite?
Buona lettura della tabella allegata.
Stefano Gentili
http://spreadsheets.google.com/pub?key=r4LV1R2i-2LQPVl6wgppFpg&gid=0



martedì 9 giugno 2009

I PRESIDENTI DELLA PROVINCIA DI GROSSETO E L’ASTICELLA DEL CONSENSO

Di presidenti, la provincia di Grosseto, ne ha conosciuti parecchi.
Ma quelli eletti direttamente dal popolo partono da dopo l’approvazione della legge n. 81 del 1993.
Il primo ad essere stato eletto col nuovo meccanismo sono stato io e l’ultimo…lo conosceremo tra due settimane.
Ecco i dati, giusto per fare un po’ di storia.

Nel 1995 fui eletto al secondo turno con 76.746 voti (58,1%) .
L’avversario era Giovanni Tamburro che ottenne 55.327 voti (41,9%).

Nel 1999 Lio Scheggi fu eletto al primo turno con 70.196 voti (52,6%).
L’avversario era Alessandro Carlotti che conquistò 53.826 voti (40,3%).

Nel 2004 sempre Lio Scheggi fu eletto al primo turno con 77.577 voti (57,91%).
L’avversario era Laura Cutini che raggiunse 46.640 voti (36,31%).

Nel 2009, come noto, al primo turno Leonardo Marras ha ottenuto 61.075 voti (47,71%) e il suo avversario Alessandro Antichi ne ha guadagnati 53.381 (41,71%).

Il mio augurio è che il prossimo presidente possa posare l’asticella sopra il fatidico 58%.
Non me ne voglia Alessandro, ma io tifo per Leonardo.
Stefano Gentili

giovedì 4 giugno 2009

L’INCIVILTA’ ISTITUZIONALE (3)

Continua P. Sorge: “Anche a livello istituzionale, la partecipazione democratica è soppiantata gradualmente da una sorta di presidenzialismo di fatto: chi ha il potere comanda (non ‘governa’); diviene allergico a ogni sorta di controllo e agli stessi contrappesi essenziali del sistema democratico (si tratti della magistratura o del Presidente della Repubblica); preferisce il ricorso a decreti legge e al voto di fiducia, esautorando di fatto il Parlamento e riducendolo al ruolo di notaio delle decisioni prese dal Governo; vede i dibattiti e le necessarie mediazioni della democrazia politica come un intralcio.
La classe politica è cooptata dall'alto: si toglie ai cittadini la libertà di ‘eleggere’ i propri rappresentanti e viene loro lasciata solo la possibilità di ‘ratificare’ con il proprio voto liste confezionate dal vertice.
E così si avanza verso l'inciviltà istituzionale, in rotta di collisione con lo spirito (e a volte con la lettera) della nostra Costituzione”
.

Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
(Franco Battiato, da Come un cammello in una grondaia, 1991)
Stefano Gentili

mercoledì 3 giugno 2009

L’INCIVILTA’ POLITICA (2)

Accanto all’inciviltà sociale, P. Sorge, mette un’altra forma di inciviltà.
Dice il gesuita: “Il falso presupposto che la legittimazione popolare (la maggioranza elettorale) sia criterio di legalità mina alla radice la nostra civiltà politica e giuridica e fa degenerare la democrazia in ‘autoritarismo’.
Infatti, il giudizio di legalità non spetta al popolo, ma alla magistratura.
Non si può usare il potere legislativo per sottrarsi alla giustizia o per ridurre l'autonomia della funzione giudiziaria. Quando questo accade, l'effetto è devastante: si diffonde la sfiducia nello Stato e nelle sue istituzioni; s'incrina nei cittadini il senso civico e della legalità; si favorisce la corruzione pubblica e privata; s'insinua nell'opinione pubblica la convinzione che, dopotutto, il 'fai da te' premia.
Così si va verso l'inciviltà politica".

Elementary, my dear Watson!
Stefano Gentili

martedì 2 giugno 2009

L’INCIVILTA’ SOCIALE (1)

Nell’editoriale di Aggiornamenti Sociali dell’aprile 2009, Padre Bartolomeo Sorge invitava e “risalire la china dell’inciviltà”, partendo, nelle sue considerazioni, da una riflessione di Giovanni Paolo II.
“Una domanda interpella profondamente la nostra responsabilità: quale civiltà si imporrà nel futuro del pianeta? Dipende infatti da noi se sarà la civiltà dell'amore, come amava chiamarla Paolo VI, oppure la civiltà - che più giustamente si dovrebbe chiamare ‘inciviltà’ - dell'individualismo, dell'utilitarismo, degli interessi contrapposti, dei nazionalismi esasperati, degli egoismi eretti a sistema”. Perciò - concludeva il Papa - “la Chiesa sente il bisogno di invitare quanti hanno veramente a cuore le sorti dell'uomo e della civiltà a mettere insieme le proprie risorse e il proprio impegno, per la costruzione della civiltà dell'amore” (Angelus, 13 febbraio 1994).
Quel monito, dice P. Sorge, oggi si rivela profetico.
Il mondo sta scivolando pericolosamente verso l'inciviltà dell'individualismo e dell'egoismo eretti a sistema.
Il progressivo deterioramento civile della situazione è sotto gli occhi di tutti.

“I fatti parlano da soli e sono inequivocabili. I problemi che affliggono il Paese non sono nati oggi; ce li trasciniamo da decenni. Nuova, però, è la ‘filosofia’ con cui si affrontano, che produce effetti deleteri. È un fatto che siamo tutti condizionati dalla paura e dal bisogno di sicurezza; ma è ideologico addossarne la responsabilità solo all'uno o all'altro problema emergente. Nessuno nega che l'immigrazione ‘clandestina’ porti con sé problematiche gravi, ma trasformarla - come si fa - nella causa di tutti i mali della società italiana significa affrontare il problema in modo ideologico e fuorviante.
Introdurre il reato di ingresso e di soggiorno illegale, imporre tasse per ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, consentire ai medici di denunciare i pazienti stranieri senza documenti, ventilare l'ipotesi di classi separate nelle scuole, rifiutare agli stranieri i servizi sociali e i sussidi di disoccupazione garantiti agli italiani, sono tutte scelte che aggravano la situazione.
Perché stupirsi poi se, in un clima inospitale e discriminatorio, si moltiplicano - da una parte e dall'altra - casi di violenza brutale, di intolleranza, di razzismo e di xenofobia? Se le città diventano sempre più invivibili e insicure? Come non accorgersi che inviare i soldati a pattugliare le strade e istituire ronde di ‘volontari per la sicurezza’ (che ricordano troppo da vicino una omonima ‘milizia’ di malfamata memoria) serve soltanto a esautorare le forze dell'ordine e ad avallare l'idea che è più efficace che i cittadini si facciano giustizia da sé? Così si scivola verso l'inciviltà sociale".
Condivido e rilancio.
Stefano Gentili

sabato 23 maggio 2009

UN PERIODO SUI BANCHI E UN ALTRO NEI CAMPI

Poche ore fa era con noi a Pitigliano Alessandra Sensini in una tappa del suo tour elettorale per le elezioni europee.
Insieme alla candidata del PD e alle persone presenti in piazza abbiamo fatto un drink, parlato, invitato a votare lei alle europee e Marras-Bianchini (candidata di collegio) per le provinciali.
Insieme ad altri amici ho fatto volantinaggio.
Sulla via di casa ho continuato a consegnare bigliettini, depliant, fac-simili. Ad un certo punto una persona, forse un po’ scherzando o forse con maliziosa ironia, mi ha detto: “Ma come sei ridotto! Da Presidente della Provincia a passacarte. Ne hai fatta di strada!”.
Gli amici che mi accompagnavano ci sono rimasti male e me lo hanno fatto notare.
Io, dopo un attimo di lieve spaesamento, ho sentito crescere dentro di me una pace e una gioia intensissime.
Non è forse questa la giusta via? Un po’ abati, un po’ monaci, un periodo sui banchi, un altro nei campi?
Non è forse vero che siamo tutti un po’ malati e un po’ dottori, un po’ ignoranti e un po’ insegnanti?
A noi, poi, che abbiamo ricevuto l’immeritato dono della fede, non è forse chiesto di sentirci servi inutili?
Stefano Gentili

martedì 5 maggio 2009

LO SPECCHIO E LA LENTE TRA BERLUSCONI E IL PAESE

L’editoriale di oggi sul quotidiano Avvenire, dal titolo "Politica e discrimine etico" è interessante per una serie di considerazioni. Io mi soffermo solo sulla sua ultima parte.
Tracciando l'identikit di quelle che dovrebbero essere le caratteristiche di un capo di governo, dice: “La stoffa umana di un leader, il suo stile e i valori di cui riempie concretamente la sua vita non sono indifferenti: non possono esserlo. Per questo noi continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all'anima del Paese”.
Concordo quasi al 100 per 100.
Il quasi dipende dalla seconda parte del secondo periodo: un presidente che sappia essere specchio, il meno deforme, all'anima del Paese.

Con quelle considerazioni si dà per scontata l’anima nobile del Paese, del quale Berlusconi sarebbe un’immagine deformata.
E se non fosse così, se fosse sfocata la lente di Avvenire e invece l’anima del Paese fosse proprio quella rappresentata da questo Berlusconi?
Se l’anima del Paese si fosse berlusconizzata a tal punto – per dirlo con Veronica Lario – che cose come queste e altro “ciarpame politico” non facciano scandalo, che quasi nessuno si stupisca, che “per una strana alchimia il paese tutto conceda e tutto giustifichi al suo imperatore”?
Io temo che sia sfocata la lente e che lì risiedano anche le ragioni del successo di Berlusconi.
Stefano Gentili

martedì 28 aprile 2009

IL CORRIDOIO TIRRENICO, NOI, LA REGIONE, ATTILA-ALTERO E TUTTI GLI ALTRI

DIRÒ SUBITO COME LA PENSO.
Il corridoio tirrenico è una necessità.
E’ utile al sistema-paese per sanare il famoso buco di 200 chilometri nel percorso autostradale che dalla Manica arriva sino allo Stretto di Messina, serve a collegare all’Europa le città e i porti della Toscana inserendoli in un sistema a rete, ovviamente insieme alla Due Mari.
Risolve, specie in certi tratti, il grave problema della sicurezza. Il tratto Civitavecchia-Grosseto è purtroppo una delle strade più pericolose d'Italia con quasi il doppio degli incidenti sulla media nazionale nei tratti a due corsie senza spartitraffico, dove si arriva al triste record di 0,90 incidenti per chilometro.
Penso che porterà dei benefici, occupazione di cantiere, facilitazioni per le imprese; insomma, ci farà crescere, anche se non siamo nel Nord-Est dove la realizzazione del Passante di Mestre dovrebbe evitare, secondo i calcoli degli industriali di Treviso (per ritardate consegne delle merci, consumo supplementare di carburante, ore di lavoro perdute da chi era al volante, e via dicendo), danni per 350-400 milioni di euro l’anno.
Ci toglierà pure: porterà un di più di traffico e quindi anche di inquinamento (si parla di passare dai 17.000 veicoli di oggi ai 27.000 del 2030).
Corridoio tirrenico, per la verità, significherebbe infrastruttura plurimodale fatta di “mare, ferro e strada” con la funzione anche di collegare i porti commerciali e turistici toscani.
Ma ora mi soffermo sulla “strada”.

E facciamolo pure come Autostrada Tirrenica.
Il corridoio va fatto visto che il Ministero delle Infrastrutture, capitanato dal ministro-sindaco di Orbetello Altero Matteoli (insignito dal WWF qualche anno fa del Premio Super-Attila), ha abbandonato il progetto Lunardi e rispolverato il tracciato costiero voluto dalla Regione Toscana: non un’arteria collinare che altererebbe il paesaggio con 11 gallerie e 33 viadotti da Orbetello a Montalto, devasterebbe i vigneti, inquinerebbe le falde acquifere e avrebbe costi di realizzazione molto più elevati, ma un percorso costiero.
A livello teorico, confesso, che non mi è mai dispiaciuta l’ipotesi di messa in sicurezza dell’Aurelia (il cosiddetto adeguamento con tipologia autostradale), ma se le carte non sono truccate e ha ragione l’Assessore regionale Riccardo Conti - il quale, in un intervista a Il Tirreno dell’8 gennaio 2009, ha sostenuto che la messa in sicurezza dell’Aurelia avrebbe richiesto la chiusura di 500 incroci, la predisposizione di una viabilità alternativa fatta di complanari, svincoli e sovrappassi e avrebbe finito per intasare l’Aurelia costringendo a raddoppiarla, visto che l’ipotizzato allargamento della strada comunale dell’Origlio e della provinciale Pedemontana nel comune di Capalbio, parallele all’Aurelia, avrebbe avuto un impatto drammatico -si faccia pure l’Autostrada costiera.

Notoriamente, il “come fare” questa benedetta strada è sempre stato oggetto di accese disfide e ha dato vita a mille, legittimi, sentiti quanto inconcludenti, dibattiti.

Già, perché la cosa sembra avere qualcosa di mitologico e la sua origine si perde nella notte dei tempi.
Partita l’avventura, quando io avevo 12 anni, nel lontano 1969 con un decreto ministeriale che autorizzava la concessione alla SAT (Società Autostrada Tirrenica) da parte dell'Anas per la costruzione e l'esercizio dell'autostrada Livorno-Civitavecchia, già nel 1975 fu bloccata dalla legge La Malfa (Ugo) con il fermo messo a tutte le costruzioni di nuove autostrade. Costruzioni che tornarono poi in pista nel 1982 e furono confermate nel 1985, ma senza risultati concreti. Nel 1991 il progetto autostradale, con tracciato “interno”, presentato dalla concessionaria SAT (alla redazione del quale aveva collaborato il futuro Ministro Lunardi) fu oggetto di pronunciamento di Valutazione di Impatto Ambientale negativo da parte del Ministro dell’Ambiente di concerto con quello dei Beni Culturali e Ambientali (ricordo, infatti, che con Direttiva Comunitaria 85/337/CEE, recepita in Italia con Legge 349 dell’8 luglio 1986, era stata introdotta la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale).
Da noi, polemiche, dibattiti, prese di posizione, propaganda sul “come farla”: alcuni nel riempirsi la bocca ci si sono ingrassati.

DIRÒ QUINDI COSA FACEMMO "NOI" PROVINCIA DI GROSSETO
Continuando sulla linea degli ultimi rievocativi post (si sa, gli anziani sono nostalgici), cercherò di raccontare l’esperienza fatta in questo campo nella legislatura provinciale 1995-99, perché anch’essa mi sembra istruttiva.
Nel maggio 1995, eletto Presidente della Provincia di Grosseto, mi trovai in un vero e proprio bailamme.
I punti esclamativi di quel periodo, “Fare l’autostrada è un obbligo morale!”, “Non si deve fare!”, “Muovetevi o moriamo!”, “Non c’è volontà politica!”, ecc.!, ecc.!, andavano bene per il circolo bocciofili, per i dibattiti congressuali, per le polemiche sulla stampa.
Ma la realtà in cui si trovava chi doveva tentare di fare qualcosa di concreto era il caos assoluto, ed era davvero difficile trovare il pertugio utile.

Sul fronte dei soggetti che potevano dire e fare cose operative, la confusione era massima.
Non si riusciva a comprendere chi avesse veramente il bandolo in mano. C’era l’ANAS (da poco Ente nazionale per le strade) con il Presidente Giuseppe D’Angiolino, la SALT (Società Autostrade Ligure Toscana) col presidente Francesco Baudone, la SAT (Società Autostrade Tirrenica) non ricordo con quale presidente, poi in seguito nacque la SPAT (Società per l’Autostrada Tirrenica) con presidente Carlo Alberto Dringoli, una società privata costituita dalle associazioni industriali di nove province della fascia tirrenica e dalla stessa Salt.
Sembrava un tavolo da gioco e nessuno sapeva se i giocatori avevano in mano il poker d'assi o una coppia di sette.

Se penso poi agli interlocutori politici, mi viene il mal di mare.
Tutte persone rispettabilissime e di livello, naturalmente…..ma troppe!
Nella legislatura maggio 1995 – giugno 1999 ho passato 3 Presidenti del Consiglio, Dini, Prodi e D’Alema e 4, dico 4, Ministri dei Lavori Pubblici, Paolo Baratta (fino al 17 maggio ’96), Antonio Di Pietro (dal 18 maggio al 21 novembre ’96), Paolo Costa (dal 22 novembre ’96 al 21 ottobre 1998), Enrico Micheli (dal 22 ottobre ’98 alla fine della nostra legislatura provinciale).
L’unico riferimento fermo, sia pure con lievissime oscillazioni, fu la Regione Toscana col Presidente Vannino Chiti e l’Assessore Tito Barbini.

La linea politica era molto sussultoria, anche se noi, specie negli atti formali, fummo lineari.
Negli atti programmatori che trovai in Provincia si auspicava l’ammodernamento dell’Aurelia. D’altro canto proprio tra il 95 e il 96 la Regione Toscana sembrò trovare un asse con la SAT e ambienti governativi: la formula magica fu “percorso unitario d’intenti” per “un’unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica”.
Noi tendevamo a leggere quella formulazione più spostata sul versante Superstrada, che su quello dell’Autostrada.
E i nostri atti formali si mossero in quella direzione. Il 25 settembre 1996, infatti, deliberammo in Consiglio Provinciale l’adeguamento dell’Aurelia da Grosseto al confine con il Lazio con l’indicazione puntuale degli svincoli da realizzare al posto delle immissioni a raso, dei tratti da portare a quattro corsie e persino delle indicazioni progettuali e morfologiche per il miglior inserimento nel paesaggio. Questa deliberazione non è stata mai revocata.
Fu proprio sulla base di quella delibera che, nel gennaio 1999, chiedemmo all’ANAS di redigere il progetto definitivo (finanziato da noi e dalla Regione Toscana) per l’adeguamento in sede del tratto a due corsie nel comune di Capalbio: anche questo progetto che io sappia non è mai stato ritirato.
Sia chiaro, però, che eravamo disposti ad accogliere anche la proposta dell’Autostrada costiera (prevalentemente sul tracciato Aurelia) di fronte ad una proposta vera, con soldi veri, con tempi certi e alle condizioni ambientalmente più compatibili.

L’apparente elisir del 1996
Sul fronte del dibattito, sembrò improvvisamente possibile intravedersi una via d’uscita anche a seguito di un autorevole incontro tenuto a Grosseto nel 1996 presso la Camera di Commercio voluto dal Comitato permanente per la realizzazione prioritaria dell'autostrada Livorno-Civitavecchia: presenti Carlo Alberto Dringoli (Presidente del Comitato organizzatore), il vice-presidente del Consiglio regionale Mauro Ginanneschi (per Vannino Chiti), Tito Barbini, assessore regionale ai trasporti, il sottosegretario ai trasporti Giuseppe Soriero, il sottosegretario ai lavori pubblici Antonio Bargone, il presidente della Salt Francesco Baudone, il direttore generale di Confindustria, Innocenzo Cipolletta.
Come detto, l’elisir fu rappresentato da due espressioni: “percorso unitario d’intenti” e “unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica”.
Consci che la problematica di fondo era di carattere finanziario, furono fatte anche delle cifre e ipotizzato un percorso.
Secondo calcoli che si dicevano attendibili, la realizzazione del tratto di percorrenza Grosseto-Civitavecchia sarebbe costato circa 1.300 miliardi (l'Anas ne disponeva forse di 1.000, che erano la metà del proprio fondo di dotazione). Quindi che cosa si poteva fare? Ipotizzando la trasformazione della superstrada Rosignano-Grosseto in autostrada a pagamento (costo previsto 300 miliardi di lire) con i ricavi del pedaggio (da cui si pensava di escludere il traffico locale) si sarebbe potuto finanziare il proseguimento del corridoio (una strada europea a norme comunitarie, si diceva) fino a Civitavecchia. A questa ipotesi, si disse, si poteva concretamente lavorare perché la Salt, con il suo presidente Francesco Baudone, aveva dichiarato la propria disponibilità. In sostanza, la Salt avrebbe pagato la spesa di trasformazione (300 miliardi) e incassato il pedaggio del tratto Rosignano-Grosseto. Soluzione che non avrebbe richiesto l'intervento delle casse dello Stato, già allora sempre più asfittiche.
La via di uscita fu più un abbaglio che una realtà. L’elisir ebbe vita breve.

La Provincia, per le sue scarse finanze e le pressoché nulle competenze sulle grandi opere, non poteva in realtà fare molto, però un peso lo poteva avere, soprattutto nella tessitura di una posizione discussa e condivisa.
Insieme all’Assessore Renato De Carlo (ex-dirigente di un importante azienda del Nord) persona di grande signorilità, competenza e abnegazione, contattammo praticamente tutti, incontrandoci o scontrandoci, avanzando proposte e accompagnando ogni piccolo barlume realizzativo. Naturalmente nell’ottica di realizzare un’opera il più possibile capace di unire concretezza a rispetto dell’ambiente.

Personalmente, su questo tema ho sempre avuto un approccio pragmatico.
Non avevo un’ideologia da difendere e comprendevo che i nemici da battere erano i dibattiti inconcludenti, i veti contrapposti, le ipotesi contrastanti. Lo consideravo come il gioco delle tre carte: altri ci davano le carte e puntualmente ne facevano sempre sparire una, naturalmente dirottando le sempre meno pingui risorse statali verso altre zone d’Italia.
Per questo nel 1995 ero favorevole all’adeguamento dell’Aurelia perché c’erano limitate risorse disponibili e l’intervento autostradale ne reclamava molte di più.
Poi dal 1996 venne fuori l’ipotesi dell’Autostrada secondo la modalità che ricordavo prima (unica infrastruttura con caratteristiche autostradali lungo tutta la direttrice tirrenica) che come detto per me voleva piuttosto dire Superstrada con caratteristiche autostradali.
E sposai questa ulteriore possibilità, in sintonia con la Regione Toscana, forse più spinta di noi.
Il problema vero erano sempre le risorse, la certezza della realizzazione e i tempi.

Con i Ministri una vera relazione fu possibile metterla in piedi solo con Paolo Costa.
Ricordo ancora lucidamente quanto mi disse durante un incontro nel ’97 presso il suo Ministero: il corridoio tirrenico è una delle 6 o 7 priorità nazionali. I soldi per tutte non ci sono. Per sperare di farla rientrare tra le prime 2 o 3 è necessario che tutti gli attori locali, comuni, provincia, regione, soggetti vari, trovino una posizione unitaria e parlino con una sola lingua.
Già lo sapevamo, ma il messaggio fu forte e chiaro. E io e De Carlo ci mettemmo proprio a tessere quella tela, con la consapevolezza della nostra modestia, ma anche della utile rilevanza del nostro compito. Continuammo i contatti con la Regione, il Ministero, l’Anas nazionale e regionale, le varie Società Autostrade, dialogammo con il sistema associativo locale e favorimmo diversi incontri con i Sindaci da Capalbio a Follonica (che ancora possono testimoniare): sostanzialmente, grazie a tutti, fummo in grado di raggiungere una posizione unitaria, al di là delle propagande di rito e di intelligenti precisazioni su pedaggio, autostrada aperta e via discorrendo.
Questa raggiunta intesa ebbi modo di comunicarla al Ministro Costa quando venne a Grosseto il 13 luglio 1998. Nell’assise pubblica che si tenne al Granduca gli rivolsi queste parole: “Nell'incontro che si ebbe presso il suo ministero nel corso del 1997 lei mi disse che il Governo avrebbe lavorato per quegli interventi sui quali si registrava un consenso unanime a livello locale. Sul consenso ci abbiamo lavorato ed è stato sostanzialmente raggiunto. Ora attendiamo la risposta nazionale su: tempi, progetti, finanziamenti, esenzione del pedaggio per i residenti. L'Amministrazione Provinciale di Grosseto sull'Aurelia ha già messo risorse insieme alla Regione Toscana per la progettazione esecutiva del tratto a due corsie di Capalbio” (L’intervento completo è rintracciabile sul mio sito: www.stefanogentili.it nella cartella Provincia Amica/Considerazioni su ambiente, territorio, infrastrutture/Le infrastrutture e il Ministro).
Risposte non ne avemmo, anche perché di lì a qualche mese cadde il Governo Prodi (ottobre 1998).

L’uscita della SALT.
Nel frattempo la neonata Salt per bocca del Presidente Carlo Alberto Dringoli tra la fine del 1997 e gli inizi del ‘98 aveva dichiarato che per trasformare in autostrada aperta la variante Aurelia e realizzare con le stesse caratteristiche la tratta mancante fra Grosseto e Civitavecchia, c’era già un progetto con finanziamento da parte dei privati e una data certa di consegna, il 2004.
Noi sollevammo qualche perplessità di tipo burocratico (le concessioni, ma il Presidente Dringoli disse che non ne aveva bisogno), ed era vero che in linea teorica, sempre a risorse e tempi certi, avremmo preferito per il tratto a sud di Grosseto una Superstrada senza pedaggio sul tipo di quella che unisce Siena a Firenze (come si diceva, ristrutturazione dell’Aurelia con tipologia autostradale: 25 metri, due corsie per parte di metri 3.75, corsie di emergenza e tutto il resto).
Ma anche questa volta eravamo disponibili a leggere le carte della Salt, specie perché sosteneva che il suo progetto non sarebbe costato neppure una lira allo Stato.
Il progetto non ci fu mai consegnato.

Con questo giungemmo agli inizi del 1999, cioè alla scadenza del nostro mandato. Ad eccezione del rammentato Progetto definitivo Anas da noi finanziato per il tratto capalbiese, non ricordo altri eventi significativi su questo fronte, salvo cortocircuiti della mia memoria.

DIRO’ INFINE COSA VEDO
Il dopo spetta ad altri ricordarlo.
Ma giusto per parlare e scusandomi per qualche abbaglio, i principali passaggi (andando per sommi capi) dovrebbero essere stati i seguenti.
Un anno e mezzo dopo la nostra “dipartita”, nel dicembre 2000, la Regione e il Governo Amato giunsero ad un Accordo sul progetto Anas, che prevedeva di allargare e ristrutturare l' Aurelia, con tipologia identica a quella autostradale: si diceva fosse meno costoso per lo Stato (1 miliardo di euro invece di 3) e, nell’ ultimo significativo atto dello stesso governo, la Legge Finanziaria 2001, furono stanziati 304 miliardi di lire per la messa in sicurezza dell’Aurelia nei 25 km a due corsie nei comuni di Capalbio e Tarquinia. Lo stanziamento in seguito scomparirà dalla disponibilità dell’ANAS.

Dopo la vittoria di Berlusconi nel 2001, agli amministratori toscani convocati a Roma per discutere della Livorno-Civitavecchia fu presentato un percorso nuovo, “non conosciuto e non argomentato” - per dirla con le parole del presidente toscano Claudio Martini - che avrebbe aumentato a quasi 3.000 milioni di euro il costo di adeguamento: era il tracciato collinare che da Grosseto sud puntava verso l´interno attraverso Montiano, Magliano e Manciano fino a Capalbio.

Martini, al termine di un complesso lavoro insieme alle amministrazioni locali, rispose: il corridoio tirrenico deve essere completato con un´autostrada, ma sia autostrada costiera (primavera 2003). E su questi punti la Toscana cercò e trovò l´alleanza della Regione Lazio nel giugno di quello stesso anno. Nel novembre sempre del 2003 Martini annunciò la ripresa del dialogo col governo, ma di li a poco quei fantasiosi del Gruppo Autostrade pubblicarono 2 progetti, facendo incavolare come una iena l’assessore Conti.

Nonostante tutti gli sforzi constato, però, che NEI FATTI siamo sempre agli anni '95-'99.
A livello nazionale è trascorsa la “fase delle signorie” con l’ulivo e il centro-sinistra (in 5 anni: 3 Presidenti del Consiglio e 5 ministri dei Lavori pubblici, a quelli citati si aggiunsero Bordon e Nesi) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.
Poi è venuto il “tempo dell’assolutismo” con Berlusconi e il centro-destra (in 5 anni: 1 Presidente del Consiglio anche se Berlusconi I e Berlusconi II e 1 Ministro delle Infrastrutture, sempre Lunardi) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.
Quindi c’è stata la breve stagione “anarchica” dell’Unione (2 anni: 1 Presidente del Consiglio, Prodi e 1 Ministro delle Infrastrutture, ancora Di Pietro) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.
Oggi è trascorso un anno della “nuova era populista” (1 Presidente del Consiglio, ancora Berlusconi e 1 Ministro delle Infrastrutture: il sindaco di Orbetello, Matteoli) e sul corridoio tirrenico non si è realizzato niente.

A dire il vero, ma ancora solo a livello di ANNUNCI e di primi importanti ATTI FORMALI, però qualcosa si è mosso 4 mesi or sono.
Il 18 dicembre 2008, il CIPE (Comitato interministeriale per la programmazione economica), dal cui vaglio passano tutte le grandi opere infrastrutturali, ha dato il proprio assenso al progetto preliminare della SAT. Dunque, l´autostrada si può fare, secondo il tracciato previsto dalla Regione, che ha portato avanti per cinque anni la battaglia.
Completare l´asse autostradale tirrenico tra Rosignano e Civitavecchia gioverà secondo Claudio Martini non solo alla Toscana ma a tutto il paese, “alla nostra economia, ai nostri porti, al turismo e alle comunità locali”. Il presidente si è impegnato, per quanto a lui compete, a fare “un´opera di qualità e rispettosa dell´ambiente” (La Repubblica.it, 19 dicembre 2008).
Forza Claudio!

E il Ministro Matteoli ha ribadito e annunciato che "l’Autostrada si farà", i lavori inizieranno entro la fine del 2009 e termineranno nel 2013. “I costi di 3,8 miliardi sono tutti a carico del project financing e il progetto approvato dal Cipe è all'85% cantierabile entro l'anno. Il tracciato è quello già concordato nel 2006 dalla Regione Toscana e da allora nulla è stato toccato. Per il tratto laziale non c'era l'accordo. Appena sono diventato ministro, ho chiamato il presidente Marrazzo e gli ho detto, scegli tu. Così è stato” (L’occhio Viterbese, 14 marzo 2009).
Io, però, sono come San Tommaso: non credo se non vedo il primo e l'ultimo cantiere.
Comunque, forza Altero! Lunga permanenza al Ministero.

Certo, mentre lo dico, penso che noi del centro-sinistra di peccati dobbiamo averli commessi tanti per dover sperare nella lunga vita ministeriale di Attila-Altero.
Con rispetto, naturalmente.
Stefano Gentili